Dall'incertezza americana a Kabul nascono voci e luoghi comuni

Toni Capuozzo

A prima vista, si potrebbe anche rubricare la sortita del Times secondo cui i militari italiani avrebbero comprato la non belligeranza dei talebani con migliaia di dollari pagati dai servizi segreti come un capitolo del pesante file dei luoghi comuni della stampa estera sul nostro paese, della conflittualità con il premier italiano. Forse c'è anche qualcosa della vecchia e snobistica presunzione che l'Italia sia un paese poco fidabile con gli alleati, un po' straccione sul campo di battaglia e un po' maneggione nello schivare i pericoli.

    A prima vista, si potrebbe anche rubricare la sortita del Times secondo cui i militari italiani avrebbero comprato la non belligeranza dei talebani con migliaia di dollari pagati dai servizi segreti come un capitolo del pesante file dei luoghi comuni della stampa estera sul nostro paese, della conflittualità con il premier italiano. Forse c'è anche qualcosa della vecchia e snobistica presunzione che l'Italia sia un paese poco fidabile con gli alleati, un po' straccione sul campo di battaglia e un po' maneggione nello schivare i pericoli.

    Nei luoghi comuni non contano le prove, e in fondo neppure le controprove. Non conta dunque il comportamento dei paracadutisti e dei carristi a El Alamein, e non conta neppure l'immunità goduta dai nostri nella prima missione estera del Dopoguerra, in quel Libano degli anni Ottanta in cui potevano contare, a Beirut, sui buoni uffici del colonnello Giovannone. Contano i pregiudizi, e non c'è niente da fare se non scrollarseli di dosso, come polvere. Ma forse dietro le voci che proverrebbero da ambienti Nato e che il Times ha trasformato in notizia c'è di peggio. C'è innanzitutto lo stato confuso e sospettoso in cui versa la missione internazionale in Afghanistan. La diplomazia si muove in ordine sparso e il lavoro dei civili è spesso dissonante con quello dei militari.

    La stessa valutazione sul risultato delle elezioni ha rivelato clamorose fratture tra i massimi rappresentanti delle Nazioni Unite sul campo, tra chi valutava i brogli come un imbarazzante prezzo da pagare alla stabilità – polvere da gettare sotto il letto – e chi come la fine dell'unico interlocutore, Karzai, su cui l'occidente aveva finora potuto contare. Tutto il brusio sulla definizione di una nuova strategia in realtà ammanta di dibattito una verità che è sotto gli occhi di tutti: il capocommessa, gli Stati Uniti d'America, sono confusi, e questo genera rivoli di insicurezza tra gli alleati e gorgoglii di baldanza tra i talebani. Il comandante in capo sul campo chiede almeno 40 mila uomini o entro un anno la guerra sarà persa. Il comandante in capo, dalla Casa Bianca, dopo aver concesso un generoso surge a inizio mandato, continua a mandare rinforzi, ma composti da tecnici e impiegati civili, come confermato, ma non annunciato ufficialmente, l'altro giorno, a premio Nobel intascato. E sul campo tutti sanno che i civili statunitensi stanno chiusi nella basi, perché fuori c'è troppa insicurezza per frequentare scuole e aziende agricole, strade e ospedali.

    L'America s'interroga se il mandato sia azzerare al Qaida
    , le cui incursioni in occidente sono da tempo state azzerate, o ricostruire l'Afghanistan, cosa che richiederà decenni. E se il problema resta al Qaida, il cuore del problema è il Pakistan, e ormai non più solo le sue zone tribali. Questa indecisione politica pesa sui militari. Tutti d'accordo sul fatto che i contingenti debbano essere rinforzati, ma tutti alle prese con opinioni pubbliche, governi e bilanci che generano una sorta di nymb in divisa: rinforzi, ma li mandino gli altri. E tutto ciò appesantisce un'atmosfera di sospetti da cui grondano caveat diversi per ogni contingente nazionale. Chi conosce la situazione sul campo sa bene le polemiche non dette: io combatto e lui no, tu bombardi dall'alto e fai vittime innocenti e io devo pagarne il prezzo.   

    Vi ricordate il bombardamento sull'autocisterna rubata
    dai talebani, nel nord, qualche settimana fa? Venne richiesto dai tedeschi, su cui ricadeva il controllo del settore, e l'incursione, inevitabilmente approssimativa che fece di ogni erba un fascio tra talebani e saccheggiatori innocenti del carburante, e forse semplici curiosi in qualche modo invitati nella trappola dai talebani, fu americana. E nelle polemiche che seguirono, qualcuno fece notare che certo, un intervento da terra – il campo tedesco era a soli sei chilometri – avrebbe potuto essere più rischioso, ma anche più chirurgico. Ora che i nostri militari combattano è una verità che, sollevata la spaventata ipocrisia del governo Prodi, è venuta alla luce da tempo. Lo fanno in risposta ad attacchi, lo fanno quando vanno a cercarli, i talebani, nelle valli più incerte. Ma questo non cancella altre due verità che sono sotto gli occhi di tutti: l'assenza di una guerra approssimata dall'alto – i nostri Tornado scattano fotografie – e il peso degli aiuti civili. Se non ci sbagliamo i nostri contingenti hanno nella loro coscienza il solo imbarazzante peso di una vittima civile, la bambina uccisa a Herat nell'auto su cui viaggiava un'intera famiglia. Doloroso, ma resta una vittima, con nome e cognome.

    Quanti talebani abbiano ucciso i nostri non è dato di sapere,
    perché siamo un paese che ha imparato ad accettare di subire delle vittime, ma non ancora ad accettare che si faccia qualche vittima tra i tagliatori di nasi, gli sgozzatori di interpreti, gli incendiari di scuole femminili, gli assassini di donne che provano a liberarsi. E gli aiuti civili non sono mai stati un'alternativa buonista e innocua al lavoro militare, ma si sono intrecciati con questo, in un circolo virtuoso in cui la ricostruzione facilita la sicurezza, e la sicurezza facilita la ricostruzione. Ovviamente l'Italia e i suoi contingenti partecipano degli errori, dei ritardi, delle incertezze dell'intera alleanza: sono, i nostri, il sesto contingente dello schieramento: possiamo fare bene quel che ci riguarda, ma non siamo decisivi. Eppure qualcuno, a bassa voce, ha fatto notare che il comprehensive approach di cui si parla alla Casa Bianca assomiglia abbastanza alla formula italiana, alla sua pratica sul campo. Sarà un caso che il distretto di Musahi, in cui fino al primo ottobre scorso hanno operato gli italiani, è stato scelto come oggetto di studio da centri di elaborazione strategica americani? Forse è un caso che appena gli italiani se ne andarono dalla base avanzata di Surobi i francesi, che gli succedettero, subirono un agguato con dieci vittime, l'agosto dell'anno scorso.

    Ma può non essere un caso che qualcuno abbia voluto leggere
    nel lavoro anche civile di quei nostri militari (ci sono stato a Surobi, a seguire le visite mediche nei villaggi, le visite veterinarie nei campi, e il ritrovamento di depositi d'armi grazie alle segnalazioni che giungevano da contadini e pastori e padri grati) il sospetto di uno scambio infame, i dollari in cambio della pace. Gli è stata giustamente ricordata la storia del maresciallo Giovanni Pezzulo, trapassato da quindici proiettili mentre si inaugurava un ponte, il 13 febbraio del 2008, in quelle valli di Surobi che rappresentano l'ultimo, accidentato pianoro prima che la strada per Jalalabad diventi il budello in cui trovò la morte Maria Grazia Cutuli. Che cos'è stato, un pagamento in ritardo, a provocare la morte di Pezzulo? O una lite tra talebani esclusi dal mercimonio ? L'invidia, la concorrenza, e perfino i sospetti fanno parte di ogni avventura collettiva. Ma quando prevalgono, quando diventano indifferenti ai fatti, quando svuotano i giudizi espressi sul campo dai comandanti, fanno assomigliare l'armata multinazionale così temuta da tante anime belle a un'armata Brancaleone, altro che un meccanismo affilato e concertato. Si vada a vedere che cosa succederà a Musahi, lasciata dagli italiani che si concentrano tutti a Herat, e che cosa farà il contingente turco che li sostituisce, e cosa fa la polizia afghana in quel fortino avanzato. Certo, forse qualche figlio di talebano frequenta una scuola costruita dagli italiani, e qualche contadino gratificato dai pozzi di Cherasiab lesina le informazioni ai combattenti di Allah, e forse gli stessi talebani hanno le loro scalette di priorità, nello scegliersi gli obiettivi (scalette che non ci hanno graziato, un mese fa): è intelligenza con il nemico? C'è abbastanza di che preoccuparsi di quel che succede davvero, per occuparsi oltre delle autorevoli fole del Times. Tornassero a occuparsi di escort, please, non delle scorte.