Le ambizioni sbagliate di Scalfari
Repubblica è un giornale di successo, generalmente fatto bene, che ha insegnato tante cose alla cultura e al giornalismo italiani, che ha fatto politica democratica e di sinistra lungo gli anni, ha espresso in parte il dissenso laico, ha organizzato il consenso lobbistico a interessi quasi sempre riconoscibili, quel consenso senza il quale una democrazia di mercato non funziona, e ha promosso parte grande del teatrino in cui siamo immersi da quasi mezzo secolo, comprese le lunghe guerre al Cinghialone prima e poi al Caimano.
Repubblica è un giornale di successo, generalmente fatto bene, che ha insegnato tante cose alla cultura e al giornalismo italiani, che ha fatto politica democratica e di sinistra lungo gli anni, ha espresso in parte il dissenso laico, ha organizzato il consenso lobbistico a interessi quasi sempre riconoscibili, quel consenso senza il quale una democrazia di mercato non funziona, e ha promosso parte grande del teatrino in cui siamo immersi da quasi mezzo secolo, comprese le lunghe guerre al Cinghialone prima e poi al Caimano. Tanto di cappello. Ma Repubblica, come ha ricordato ieri il direttore del Corriere, Ferruccio de Bortoli, ha anche coltivato molte ambizioni sbagliate. Voleva essere il giornale di un editore puro controllato dai giornalisti che lo avevano fondato e dai loro amici più cari, e Scalfari si vantò spesso di questa felice circostanza o vocazione; poi cedette interamente le quote, ovviamente per soldi, “per la dote delle figlie” (come disse). Era per la finanza laica, per l'eredità di Raffaele Mattioli e poi di Enrico Cuccia, ma Scalfari appoggiò Michele Sindona quando lo giudicò conveniente. Scalfari sputa fuoco contro Berlusconi da molti anni, ma “il gruppo” non ebbe ritegno, all'origine, a contrattare vantaggi editoriali e finanziari nella piccola reggia di Arcore, al suono della Rapsodia in blu eseguita da Fedele Confalonieri. Quella che Cossiga chiamava “la nota lobby” applaudì quando il concorrente di via Solferino fu quasi messo in ginocchio dalle vicende legate allo scandalo della Loggia P2, dopo che “il gruppo” seppe trarre qualche più o meno normale surplus dalla gestione piduista del Banco Ambrosiano.
Le ambizioni sbagliate di Repubblica – giornale born to kill – si conoscevano tutte, ma la novità è che con sistematica perfidia, con calma e apparente mitezza di modi, ora è il direttore del Corriere a ricordarle quasi ogni giorno, senza mollare l'osso di una avvincente polemica per la prima volta a due voci. L'oppressione del Corriere è più che trentennale, dura insomma da tempo immemorabile. Negli ultimi vent'anni, più o meno sempre sotto l'influenza di Paolo Mieli, quel giornale è stato nei fatti, per le sue scelte e per il modo in cui fu concepito il suo profilo, per le firme e lo stile, un avversario dello scalfarismo in costanti e bene argomentate battaglie civili e culturali. Ma lo sfizio di radere la barba monumentale del Fondatore, di attaccarlo sulle radici del suo percorso, sui peccatucci obliterati e altre tentazioni non respinte, questo il Corriere non se lo era ancora mai preso con tanta sfacciataggine. Era ora. Da tempo attendevamo un deciso rinnovamento del repertorio.
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