Lippi che insulta i tifosi che lo fischiano è il male assoluto del calcio italiano
Per poter insultare tifosi e giornalisti dopo una partita di calcio in cui si è fatto schifo, si danno due, e soltanto, due possibilità. O sei un fuori di testa vero, impresentabilmente sovrappeso, che però una volta è stato anche il più formidabile giocatore di calcio di tutti i tempi. E allora ti può essere perdonata qualsiasi infrazione. Oppure sei uno stratosferico genio della comunicazione. Altrimenti, anche se sei un allenatore vincente, sei solo arrogante e villano. Tendenza cacicco di Viareggio.
Per poter insultare tifosi e giornalisti dopo una partita di calcio in cui si è fatto schifo, si danno due, e soltanto, due possibilità. O sei un fuori di testa vero, impresentabilmente sovrappeso, che però una volta è stato anche il più formidabile giocatore di calcio di tutti i tempi. E allora ti può essere perdonata qualsiasi infrazione, in nome del bel gioco che fu e della sublime scorrettezza politica della panza che è. Oppure sei uno stratosferico genio della comunicazione, bello come un attore d'essai, poliglotta e filosofo, un seduttore che spande attorno una nuvola di puro fascino come se fosse antipatia. Insomma José Mourinho. Altrimenti, anche se sei un allenatore vincente, sei solo arrogante e villano. Tendenza cacicco di Viareggio. Insomma Marcello Lippi.
E lo lasciamo dire a uno come Dino Zoff, che pure era stato mandato a casa, caso unico nella storia dei ct della Nazionale, da un'esternazione (un editto diremmo oggi, col senno di poi) di Silvio Berlusconi, quando ancora si occupava prevalentemente di pallone. Una vittima vera e non vittimista: “Non ci si può permettere di essere così arroganti – ha detto il gran friulano – il pubblico ha il diritto di invocare chi vuole. Lippi può prendere le dovute distanze, ma lo deve fare con una certa educazione”. E invece il cacicco di Viareggio, dopo aver preso per i fondelli il pubblico pagante che in una feriale sera padana era uscito di casa apposta per festeggiare un'insignificante partita degli azzurri, si è permesso di essere lui, l'offeso: “Sono arrabbiato come una bestia. E' vergognoso aver fischiato la Nazionale”, ha detto. E, forse dimenticando di essere pur sempre un dipendente della Federcalcio, un civil servant in fondo, ha detto: “Ci hanno gridato di andare a lavorare. Vadano loro, a lavorare”. Roba che Brunetta si strozzerebbe dalla rabbia.
Lippi è bravo, Lippi ha vinto, Lippi ha vinto pure un Mondiale. Bene. Ma questo è polpa su cui si possono aprire amene o arroventate chiacchierate sportive. Per non parlare delle cabale, della Nazionale che gioca sempre male e poi al momento buono c'è l'orgoglio, e di quanto il “clima d'assedio” abbia fatto bene nell'82 e anche nel 2006. Eccetera. Il tema che si vuole qui affrontare è diverso, non necessariamente più serio ma diverso. Il tema è che Marcello Lippi in questo momento rappresenta nel calcio italiano il concetto del male assoluto. Senza alibi e infingimenti. Per una serie lunga di motivi. Perché non è parso convincente per nessuno il libero e lucido convincimento degli organi decisionali che lo hanno richiamato alla guida di una squadra che aveva abbandonato con una certa malagrazia. Perché da quando è tornato trasmette, volutamente, l'immagine di uno cui stia più a cuore un personale regolamento di conti (con la Storia?) che non il resto. Perché sta gestendo in modo privatistico la squadra, con scelte personalistiche (“Finora nella mia Nazionale nessun giocatore lo ha mai fatto”, ha detto dell'esilio volontario di Totti, alludendo forse a un suo misterioso fluido magico del convincimento) più che tecniche. Perché si sottrae al più elementare contraddittorio sulle sue scelte.
Perché lascia, volutamente, che la natura confidenziale dei suoi rapporti con un club della serie A alimenti un clima da sospettoso conflitto di interessi: che forse è solo nella mente dei tifosi, ma danneggia tutti in un paese che non crede alla terzietà di nessuno. Perché pretende, e purtoppo ha finora ottenuto, un atteggiamento da parte dei media di sudditanza persino ridicola. Il cameo fantozziano di Carlo Paris che mercoledì, in diretta da Parma, gli miagola dietro “la prego, non se ne vada!”, mentre Lippi fugge indignato come Napoleone a Waterloo, è stato forse il momento più grottesco della storia di Rai Sport. Ma è anche lo specchio fedele e rivelatore di una totale mancanza di autonomia. Perché comunica male. Fa “conferenze stampa guerreggianti ma mai ‘epiche' (non ha lo spessore di Mourinho e questo intimamente gli rode)”. E questa volta non lo diciamo noi, ma lo lasciamo dire ad Andrea Scanzi, su LaStampa.it. Perché Germania 2006 non è stato Spagna '82. E la gente questo lo coglie nell'aria. Non solo al Tardini.
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