Accordi, reti, potere

Ecco perché (anche se non lo ammetterà mai in pubblico) D'Alema sta per prendersi il Pd

Stefano Di Michele

Così fu con i comunisti e i post comunisti, così sarà con i democratici e i post democratici (più che altro i post veltroniani e i post rutelliani): l'Eterno Ritorno, quasi da intendersi Ovvia Vittoria. Nel Pd, con cui ha avuto poco commercio e ancor meno confidenza, a tre giorni dalla fine della giostra delle primarie, tutto pare apparecchiato per il trionfo di D'Alema. Ma trionfo sobrio, si augurano i suoi stessi seguaci. Misurato. Laterale. Che la scena della vittoria sia tutta di Bersani.

    Così fu con i comunisti e i post comunisti, così sarà con i democratici e i post democratici (più che altro i post veltroniani e i post rutelliani): l'Eterno Ritorno, quasi da intendersi Ovvia Vittoria. Nel Pd, con cui ha avuto poco commercio e ancor meno confidenza, a tre giorni dalla fine della giostra delle primarie, tutto pare apparecchiato per il trionfo di D'Alema. Ma trionfo sobrio, si augurano i suoi stessi seguaci. Misurato. Laterale. Che la scena della vittoria sia tutta di Bersani, che la gloria della conduzione non dia neanche per sbaglio l'idea di una gestione a due. Gli stessi dalemiani di più robusta convinzione, così argomentano: “Se vince Bersani, lunedì D'Alema  avrà di fronte una prova impegnativa: decidere per la prima volta nella sua vita di puntare fino in fondo su un leader che non è lui. Per la salvezza del centrosinistra e la messa in sicurezza di tutto il Pd”.

    D'Alema e i dalemiani ritengono di aver buttato giù parecchi bocconi amari in questi anni, tra l'ascesa di Veltroni e la possibile sconfitta di Franceschini, “altro che il pane e la cicoria di Rutelli”. E la tentazione della vittoria bersaniana come completo ribaltamento della sorte cinica e bara magari c'è, ma ognuno giura che sarà evitata. D'Alema stesso, si capisce. E ovviamente Bersani,  prima di tutti: si gioca la partita della sua vita, e l'ombra di Massimo che Franceschini ha in tutti questi mesi cercato di fargli calare addosso (quando quelli delle Iene gli chiedevano la differenza tra lui e Pier Luigi, Dario indicava le spalle e assicurava: “Io non ho D'Alema qui”), qualche chiaroscuro l'ha lasciato. Chi conosce bene D'Alema – e lo appoggia, e lo sostiene – dice pure che “finora non ha mai mostrato fino in fondo questo risconoscimento”: né a Prodi né a Veltroni, figurarsi, né a Fassino né a Rutelli. “Quello che si prepara, in caso di vittoria di Bersani, è un passaggio decisivo della sua biografia, quasi psicologico: una svolta non solo strategica, l'avvio di una stagione diversa”. E' stato, per tutta la durata dell'asmatica stagione delle primarie, il guanto di sfida gettato da Franceschini contro il suo avversario, questo dell'invadenza dalemiana.

    Le polemiche più feroci sono state con D'Alema piuttosto che col principale sfidante, in un batti e ribatti che  ha straziato pazienza e capacità di comprensione degli stessi militanti – da “seminatore di zizzania” ad “aggressore”, e le solite Bicamerali e Berlusconi e il sempre evocato inciucio, così che Massimo un giorno sbottò: “La destra mi attacca perché sa contro chi deve tirare, invece a sinistra lo fanno per stupidità”. Poteva essere un'altra storia, riconoscono i democratici meno franceschiniani, giurano che ancora a giugno D'Alema pensava a un accordo con i popolari di Marini e Fioroni, così da conservare in sella Franceschini fino alla prossima primavera. “Ma rivedetevi il video con il quale si candidò alla segreteria, dove diceva che si candidava per opporsi al ritorno di chi c'era prima: era una sfida a Massimo”. E del resto, pure il (fin troppo, secondo alcuni) paziente Bersani s'impuntò: “Stavolta non mi faccio da parte”. D'Alema prese atto e “si è tuffato in questa battaglia”. Che ora tutti dicono che ha vinto (tranne il sondaggio sul sito dell'Espresso, che nientemeno dà per vincitore Marino) – e che ora anche i suoi sostenitori sanno che non deve dar troppo l'idea di aver vinto per non indebolire la vittoria di Bersani.

    Lungo il Transatlantico di Montecitorio, s'avanza Veltroni. L'uomo che fu il leader del Pd ha l'aria come svuotata, e insieme molto rasserenata, dalla condizione di (quasi) ufficialmente estraneo alla battaglia il corso. Parla amabile e cortese di molto, non parla dello scontro in atto. In un corridoio laterale, Fassino abbottona il cappotto e fa lo sguardo stupito: “Vittoria di Bersani? Non credo sia così, non direi...”. Ma l'aria sembra diversa, a sentire molti parlamentari democratici. Ci sono di quelli, ex Margherita, che fanno i primi conti su chi ci starà, su come andrà – e chissà chi se ne andrà... “Bersani non faticherà troppo a trovare un accordo con Marini, e già alcuni suoi uomini sono schierati con lui, e neanche con Fioroni, che è un democristiano pragmatico”. Saranno piuttosto i due che al partito democratico hanno più prestato faccia e passione, Rutelli e, appunto, Veltroni, quelli che secondo le voci di Montecitorio troveranno maggiore affaticamento nell'accasamento nel partito bersanian-dalemiano. “Stanno cercando di capire cosa fare. Rutelli ha già fatto intendere che non ci sta... Il problema è l'apparato vicino a Bersani: stringe la cinghia intorno al nuovo”.  

    Come un mantra, gli ex margheritini dicono che sì, “Bersani potrebbe pure essere qualcosa di diverso, ma tutti lo danno condizionato da D'Alema”, e allora è come una sorta di geometria impazzita, “ci sono due blocchi che diventano tre: chi vince, chi perde, e tra chi perde quelli pronti a trattare e quelli che non potrebbero trattare mai”, perché questo vedono, “che D'Alema è comunque più forte di Bersani, anche se Bersani sarà nominalmente il segretario”. E così, dalemiani in testa, e D'Alema a seguire, sanno che l'ombra può prendere pericolosamente consistenza, che va al più presto dissipata: la “bocciofila”, se “bocciofila” ha da essere,  dovrà avere un solo intestatario e un solo gestore. Perciò, se si torna sul fronte opposto, ecco che dicono “è un danno per Bersani mettere troppo D'Alema vicino a lui”, pur avendo di D'Alema la massima considerazione, “e per scaramanzia nessuno di noi dirà che abbiamo già vinto”. Avrà la sua Fondazione, la sua televisione, la sua influenza che tornerà a salire dentro e fuori il partito, D'Alema – “si aprirà per lui una nuova stagione, un nuovo modo di tornare in campo, ma Bersani dovrà essere leader di nome e di fatto”.

    La guerra Massimo l'ha combattuta davvero (pur facendo delemianamente rilevare ai giornalisti le “cazzate” che a tal proposito scrivono, e diligentemente sottoponendosi a domande di blogger e a interviste impertinenti delle Iene, compreso domande sull'uso del Viagra, negato “ma se lo prescrive il dottore, perché no?”): adesso in caso di vittoria dovrà combattere le condizioni del suo trionfale ritorno – in un partito sgombro dalla mistica delle primarie, dell'accampamento confuso, del sacramento dell'autosufficienza. Resistere alla tentazione di quell'antica bellissima battuta, “capotavola è dove mi siedo io”, che tutti a D'Alema attribuiscono, e che lui invece anni fa attribuì a un barone leccese suo amico, “quando andiamo a cena io gli dico rispettosamente: ‘Barone, siediti tu a capotavola', lui mi risponde: ‘A capotavola è dove mi siedo io comunque'”, e che alla fine si scopre essere una battuta del don Chisciotte (pag. 844, rigo 17-18, ed. Einaudi: c'è gente che c'ha perso una scommessa sulla citazione dalemiana). E l'autorevole parlamentare dalemiano conclude: “ E allora mettiamola così: il problema di D'Alema ora è decidere che stavolta Bersani non sarà il suo Sancho Panza...”.