"Maestà, non dimenticatevi di Tremonti"

A corte tutti sanno che il sopracciglio del re può costare la carriera

Alessandro Giuli

Maestà, non dimenticatevi di Tremonti. A corte funziona così, fin dai tempi in cui re Dario di Persia ordinò a uno dei suoi servitori di ricordargli per tre volte durante ogni banchetto che c'era un conto da regolare con la capitale dell'Attica, responsabile di una grave rivolta in Asia minore: “Maestà, non dimenticatevi di Atene”. Bisogna immaginarsi la turba dei consiglieri e dei generali, dei preferiti e dei negletti, trafficare giorno e notte per emergere a spese altrui nell'altalena delle predilezioni regali.

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    Maestà, non dimenticatevi di Tremonti. A corte funziona così, fin dai tempi in cui re Dario di Persia ordinò a uno dei suoi servitori di ricordargli per tre volte durante ogni banchetto che c'era un conto da regolare con la capitale dell'Attica, responsabile di una grave rivolta in Asia minore: “Maestà, non dimenticatevi di Atene”. Bisogna immaginarsi la turba dei consiglieri e dei generali, dei preferiti e dei negletti, trafficare giorno e notte per emergere a spese altrui nell'altalena delle predilezioni regali. Incoraggiati da un gesto d'insofferenza del monarca, da un soffio malevolo giunto al suo orecchio al momento giusto, da un'assenza sospetta o da un apocrifo arrangiato ad arte, prendono forma arabeschi di potere, congiure e trame personali, tradimenti.

    Dario di Persia non aveva necessità di un partito con il quale regnare; Silvio Berlusconi da Arcore sì, ma non ce l'ha ancora e nella terra di nessuno che separa il nome dalla cosa, il Pdl dalla sua compiutezza materiale, sono sempre le abitudini di corte a prevalere sul protocollo del comando. Il caso di Giulio Tremonti, spesso monumentalizzato e più spesso sull'orlo del secondo autolicenziamento, sempre circondato da candidati alla sua supplenza, è soltanto l'ultimo in ordine cronologico. Tremonti viene ricevuto a corte come il geniale ambasciatore di se stesso, o tutt'al più delle tribù del nord. La sua Finanziaria estiva è stata accolta dai colleghi di governo come una guerra lampo che li ha lasciati senza portafoglio, costringendoli a mendicare e a tessere l'ordito del rancore.

    Per uscire allo scoperto, è bastato loro indovinare nel sopracciglio del Cav. un'inquietudine ombrosa per certe frequentazioni troppo post berlusconiane di Tremonti. A quel punto la sortita è stata corale: la rasoiata sulla sua nostalgia del posto fisso (Renato Brunetta), l'offensiva liberatoria dei dossier economici accumulati da qualche minsitro ombra del Tesoro (autentici perché smentiti?), la sfida rivolta all'ostinazione tremontiana nel non abbassare le tasse (Claudio Scajola, assecondato dalle parole del premier). Più le solite lepidezze di circostanza: Tremonti è bravo ma sarebbe più bravo se ci ascoltasse. Perché il sopracciglio del re può costare una carriera. Prima di azzardare la mossa, però, si deve comprendere se abbia davvero deciso di revocare il proprio favore al sospettato, o se lo confermerà.

    Ma l'io carismatico di Berlusconi è sempre più proteso nell'irradiazione della propria immagine internazionale, nella sua soddisfatta proiezione corporale e nella difesa patrimoniale, tre verosimili ragioni che concorrono a spiegare l'attuale soggiorno dall'amico Putin. Sicché a corte si rende indispensabile l'arte divinatoria di saper sciogliere i segni che giungono dalla stampa più consentanea (il Giornale di ieri: “Caro Berlusconi, è ora di abbassare le tasse”, Libero di ieri: “Caro Tremonti, abbassa le tasse”). Magari fosse sempre tutto così chiaro come davanti alla rotta del lodo Alfano, quando all'omonimo Guardasigilli fu sufficiente uno scatto d'ira regale per realizzare ch'era giunto il momento di passare dal rango di delfino d'allevamento a quello di commestibile. E dunque di offrire il collo, poi risparmiato.

    Si potessero almeno restaurare i tempi in cui il Cav. aveva uno staff come Obama, un team come Veltroni. I tempi in cui Berlusconi veniva immortalato in divisa da jogging nella sua villa alle Bermuda mentre si allenava assieme agli uomini-squadra della stagione Fininvest: Gianni Letta, Fedele Confalonieri, Adriano Galliani, Marcello Dell'Utri. Anno 1995, dieta stretta, esercizi fisici e spirituali, letture platoniche: un vero staff.

    Oggi l'estensione del regno ad Alleanza nazionale e varie altre circostanze hanno costretto quella nomenclatura a disperdersi nel presidio delle rispettive cittadelle berlusconiane. I triumviri faticano a mettere ordine tra partito e governo. Se Denis Verdini attacca e riferisce al re, Sandro Bondi media e se ne lamenta mentre Ignazio La Russa, sfruttando la rivalità tra i colleghi, attacca e media anche per conto dell'amletico cofondatore Gianfranco Fini. Il quadrilatero dei capigruppo e dei loro vice è invece quanto di più somigliante a un corpo coeso. Tuttavia è costretto a esondare dalle consegne parlamentari per dirigere l'attenzione verso sud, perché le province del regno si ribellano alla parsimonia di Tremonti, o verso nord, dove la Lega preme ai confini del berlusconismo e dove la Confindustria chiede protezione dal malriposto socialismo tremontiano. L'avvicinarsi delle regionali, il Veneto conteso e la Campania militarizzata non fanno che moltiplicare l'effetto pastiche. Ma a corte funziona così: fuori i sudditi acclamano, dentro perdura la pena dell'incertezza.

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