Come salvare i giornali dalla crisi
Come si salvano i giornali dalla crisi, dal crollo della pubblicità, dal calo delle vendite, dalla diffusione gratuita delle notizie su Internet? In America se ne discute da tempo e ogni settimana c'è una nuova proposta geniale, un suggerimento, una soluzione innovativa per provare a risolvere il problema.
Come si salvano i giornali dalla crisi, dal crollo della pubblicità, dal calo delle vendite, dalla diffusione gratuita delle notizie su Internet? In America se ne discute da tempo e ogni settimana c'è una nuova proposta geniale, un suggerimento, una soluzione innovativa per provare a risolvere il problema. Micropagamenti, accordi con Google, diffusione dei lettori elettronici e molto altro. Belle idee, intelligenti o strampalate, ma nessuna di pronta e facile realizzazione, meno che mai utile a pagare conti, stipendi, affitti e costi di carta, stampa e distribuzione. Nel frattempo i giornali chiudono, senza particolare apprensione popolare. Le redazioni si dimezzano, gli asset vengono venduti per fare cassa. Il New York Times, per esempio, ha annunciato di voler licenziare altri cento giornalisti, dopo i cento incentivati a lasciare l'azienda lo scorso anno, e ha già venduto il grattacielo di Renzo Piano.
L'ultimo giro di proposte salva giornalismo, più che salva giornali, è contenuta in un rapporto di cento pagine (ma c'è anche una versione ridotta di 33 pagine) preparato da un ex direttore del Washington Post e da un professorone della scuola di giornalismo della Columbia University. Il rapporto di Len Downie e Michael Schudson ha un titolo ambizioso – “La ricostruzione del giornalismo americano” – e ha il pregio di non girare molto intorno al problema, al punto da aprire il varco a una ricetta che fa rabbrividire un paese fondato sul mercato, anche se dal mercato di recente è stato quasi affondato: aiuti fiscali dello stato, incentivi alle istituzioni filantropiche affinché sostengano il giornalismo, contributi statali a favore dei notiziari locali, trasformazione delle facoltà di giornalismo in organizzazioni di informazione, sul modello delle facoltà di medicina che non sono solo luoghi dove si impara a fare il medico, ma anche strutture di cura.
“La società americana si deve assumere la responsabilità collettiva di sostenere il giornalismo indipendente in un ambiente economico che è profondamente cambiato, così come fa, peraltro spendendo di più, per la scuola, per la ricerca scientifica, per la difesa del patrimonio culturale”, si legge nel rapporto. Uno dei più rumorosi critici ha scritto che aiutare questo modello di business che non riesce a reggersi da solo sarebbe come concedere aiuti statali a quei banchieri che hanno creato il caos dell'anno scorso, ma evidentemente non s'è accorto che il sostegno statale al sistema finanziario c'è stato. Il rapporto della Columbia esclude contributi statali diretti ai giornali, sul modello europeo, così come quegli ingenti aiuti previdenziali per le ristrutturazioni cui stanno facendo ricorso tutti i grandi gruppi editoriali italiani. Il documento, però, riconosce che in Europa la stampa finanziata dallo stato non ha rinunciato a criticare i governi da cui riceve gli aiuti, ma il problema non è quello di salvare i giornali, è salvare il giornalismo.
Il primo suggerimento dei due esperti della Columbia propone di consentire alle aziende editoriali di operare come organizzazioni no profit, in modo da poter ottenere la detassazione fiscale (al Senato c'è già un progetto di legge). Il mutamento della ragione sociale dei giornali consentirebbe alle associazioni filantropiche e ai mecenati di poter finanziare la stampa con le medesime detrazioni fiscali garantite agli investimenti in altri settori di pubblico interesse. Una strada, questa, che ha senso in un paese, come gli Stati Uniti, fondato sul senso di comunità e con istituzioni benefiche centrali per lo sviluppo della società nell'istruzione, nella ricerca, nei servizi sanitari e sociali, negli spazi pubblici e in molto altro.
Un “fondo nazionale”, secondo il rapporto della Columbia, dovrebbe poter sostenere l'informazione locale, quella più a rischio di questi tempi, con sussidi ad hoc, come avviene già attraverso gli “endowment”, le dotazioni pubbliche, a favore dell'arte, dei musei, della musica. E' la vecchia idea espressa più volte da un piccolo quotidiano d'opinione italiano, finanziato per un terzo dallo stato e, sia pure involontariamente, ben descritto nelle prime pagine del rapporto della Columbia: “Agli albori della Repubblica, i giornali facevano poco o niente cronaca locale – quei giornali delle origini erano quasi tutti settimanali di 4 pagine, ciascuno dei quali prodotto da un'unica figura di proprietario-tipografo-direttore. Pubblicavano molta più cronaca estera che locale, ristampando articoli che vedevano sui giornali londinesi ricevuti via posta, così come fanno oggi gli aggregatori web su Internet. Le cronache locali erano relegate a notizie brevi o a piccoli interventi dei lettori, senza alcuna verifica”.
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