L'amore platonico e carnale tra un animale morente e un bellissimo efebo
Sta molto stretto, il redivivo caso “Roman Polanski”, nei confini dell'alternativa secca galera-santificazione, e lo dico non avendo una gran propensione giustificazionista verso il regista e il suo lontano stupro di una tredicenne – stupro è, stupro rimane e, per quanto si voglia dipingere la ragazzina come “emancipata”, una tredicenne resta una bambina, senza nulla togliere né al genio cinematografico di Polanski né all'assurdità del volerlo mandare in carcere oggi, in presenza di un precedente accordo tra le parti e del “lasciatemi in pace” detto in questi giorni dalla vittima.
Sta molto stretto, il redivivo caso “Roman Polanski”, nei confini dell'alternativa secca galera-santificazione, e lo dico non avendo una gran propensione giustificazionista verso il regista e il suo lontano stupro di una tredicenne – stupro è, stupro rimane e, per quanto si voglia dipingere la ragazzina come “emancipata”, una tredicenne resta una bambina, senza nulla togliere né al genio cinematografico di Polanski né all'assurdità del volerlo mandare in carcere oggi, in presenza di un precedente accordo tra le parti e del “lasciatemi in pace” detto in questi giorni dalla vittima.
E però resta una zona di ambiguità, nel rapporto tra la vittima e il carnefice di questo caso. Il New York Times, qualche giorno fa, la ascriveva ai “tempi più permissivi” in cui lo stupro è avvenuto: c'era il laissez faire della madre di lei, c'era una ragazzina “già esperta”, c'era “un altro mondo”, si leggeva nel pezzo. A me viene in mente un libro e l'anno in cui l'ho letto. Il libro è “Memorie di Adriano” di Marguerite Yourcenar, un ex classico da banco di scuola oggi diventato un classico da banco di autogrill. L'anno è il 1990, per me tempo di liceo e, per gli adulti di allora, non più tempo di liberazione e contestazione (“l'epoca permissiva” di cui parla il New York Times) e non ancora tempo di psicosi antipedofila.
Nel 1990, leggendo “Memorie di Adriano”, mi è parso immediatamente meno astratto il concetto di “paideia”. Sì, l'avevamo studiata l'anno prima – modello greco di educazione, maieutica socratica, storie di vecchi filosofi e seguaci giovanetti – ma non l'avevamo mai vissuta in nessun rapporto educativo. Forse perché eravamo già immersi in un mondo iper coetaneo o forse perché si era già completamente persa, e da decenni, la consuetudine antica alla relazione tra una figura più o meno anziana che diffonde sapere e per questo emana anche fascino, estraendo conoscenza inconsapevole, e il discente-discepolo che si fa sedurre nel senso letterale di “condurre a sé” (un sé intellettuale, ideale e fisico come può essere anche fisico tutto quello che suscita passione mentale). Ma in “Memorie di Adriano” non c'erano figure idealizzate di studenti sotto l'albero o sotto il portico. C'era un rapporto omosessuale pedofilo tra un incredibile animale morente – l'imperatore Adriano – e l'adolescente Antinoo. C'erano amore e conoscenza, e l'amore era platonico e carnale, delicato e violento al tempo stesso. C'erano fascinazione, sottomissione, crescita, pazzia, sempre tenute insieme da quel filo: lo scambio profondo tra due mondi non coevi in un momento di confusione culturale e politica, in un impero “che non credeva più agli dei e non ancora in un unico dio”, come diceva Giorgio Albertazzi prima di scendere in scena nei panni di Adriano.
Era, quella tra Adriano e Antinoo, una relazione impari da entrambe le parti. Adriano – il sovrano illuminato, l'esteta, il mecenate, l'amante del bello, il conoscitore di filosofi – non può darsi pace dopo la morte misteriosa del giovane amante con cui conversava di massimi sistemi, eppure ricorda di averlo ferito, anche fisicamente, nel momento di maggior coinvolgimento e maggior scambio fisico e intellettuale. Antinoo, il bellissimo e generoso efebo, muore misteriosamente, forse suicida, forse di dolore, forse in preda all'esaltazione divina (per evitare il compiersi della profezia che vedeva Adriano scomparire prematuramente se qualcuno non si fosse sacrificato per lui). Eppure Antinoo esercita un potere e sa di esercitarlo – il ragazzo sa di farmi un dono quando mi fa un dono, scrive Adriano nella lunga lettera-monologo al nipote Marco Aurelio, mentre comincia “a scorgere il profilo della morte”.
Mi lasciò stupefatta, allora, e non nel senso dello scandalo, l'ossessione disperata di Adriano per Antinoo, la devozione quasi mistica del giovane, quel processo di educazione sentimentale e culturale che era un po' crescita un po' perdita di innocenza. Un'altalena di umanità e bestialità tra un adulto che guida e seduce, e intanto perde una parte di sé, e un ragazzino che mentre si fa guidare e sedurre porta via con sé la vita. Un tipo di relazione che, ovviamente in forme meno drammatiche, meno esplicite, meno fisiche, fino a pochi anni fa poteva apparire un rischio in qualche modo accettabile del rapporto mentore-discepolo in molti ambienti culturali e politici. Poi è scoppiata l'emergenza-psicosi antipedofilia, ed è tornato urgente il caso Polanski. Se davvero era un caso di urgente amoralità, perché Polanski non è stato tampinato lungo tutti i tappeti rossi del mondo, fino a oggi? Perché non si è continuato a dire, come qualcuno disse all'epoca dei fatti, che la madre della ragazza ammiccava all'idea di un'eventuale rapporto tra i due?
E allora mi viene da pensare che ai tempi in cui avvennero i fatti del “caso Polanski” – quelli che io non esito a definire stupro in un contesto di rilassatezza permissiva e narcisisticamente trasgressiva – non era stata ancora espunta dal rapporto tra generazioni la possibile esistenza dell'eros nel processo di trasmissione della conoscenza, eros inteso come tensione erotica spesso soltanto mentale, spesso risolvibile in un'ambiguità che produceva energia e fascinazione verso un tipo di sapere, e non solo e non tanto verso il traghettatore che portava il giovane dall'ignoranza alla conoscenza.
Era un bene? Era un male? Il caso Polanski, più che altro, mi fa pensare che l'urlo “dàgli al pedofilo”, se si esaurisce lì, non aiuta a ripensare lo scambio inter-generazionale perduto.
Il Foglio sportivo - in corpore sano