L'innocenza del desiderio degli anni Settanta e il paradigma attuale del risentimento democratico.
Alain Finkielkraut dice di non conoscere Roman Polanski, di non averlo mai visto. Ma è convinto che il regista di origine polacca, nato in Francia e naturalizzato cittadino francese, abbia pagato di persona per ciò che ha fatto.
Alain Finkielkraut dice di non conoscere Roman Polanski, di non averlo mai visto. Ma è convinto che il regista di origine polacca, nato in Francia e naturalizzato cittadino francese, abbia pagato di persona per ciò che ha fatto. “E' stato accusato delle peggiori turpitudini dopo l'assassinio della moglie Sharon Tate. Che adesso a 76 anni possa essere rinchiuso in carcere per lunghi mesi con la prospettiva di un processo televisivo, che potrebbe finire in una nuova condanna, è ai miei occhi un fatto assolutamente intollerabile”.
Non usa sfumature il filosofo francese, polemista di fama e sempre pronto a denunciare il corrivo nello spirito del tempo e il politicamente corretto. Se uno insiste sul diverso clima in fatto di libertà dei costumi rispetto agli anni Settanta, e sul cambiamento riguardo certi comportamenti un tempo tollerati, Finkielkraut replica: “Persino nel contesto permissivo degli anni Settanta, la sottrazione di minore è un atto grave” dice al Foglio commentando il caso Polanski. “E' quanto afferma la morale comune ed io la rispetto: nessuno può invocare un'eccezione in nome del privilegio sociale. In nessun caso è consentito comportarsi male. Oggi, però, a rallegrarsi dell'incarcerazione di Roman Polanski e della sua estradizione programmata a Los Angeles non è la morale comune bensì la cattiveria gregaria”, aggiunge il filosofo mettendo le mani avanti. “La morale comune vorrebbe che ogni uomo assolvesse il compito di giudice con discernimento, caso per caso. La cattiveria gregaria, invece, non sa che farsene di questa precauzione. Non si preoccupa della considerazione che merita la saggezza; preferisce soddisfare il proprio odio confondendo i piani, facendo di tutt'erba un fascio”.
Risultato, Roman Polanski, agli occhi della cattiveria gregaria, viene bollato come pedofilo e stupratore? “E infatti domina l'amalgama, la confusione”, dice Finkielkraut. “La vittima aveva 13 anni e undici mesi, non era una bambina, ma un'adolescente in piena pubertà e aveva già avuto rapporti sessuali. Polanski non l'ha affatto brutalizzata”, ricorda Finkielkraut. “L'ha sedotta in maniera subdola, e per questo è stato condannato. Ma il suo non è stato uno stupro. Del resto non è accusato di stupro dalla giustizia americana, ma di rapporti illeciti con una minorenne. Non è bello, ma non è la stessa cosa. Sicché, coloro che invocano l'esistenza dei limiti dovrebbero applicare il principio innanzitutto a se stessi facendo attenzione alle sfumature. Invece, si arrogano il diritto di confondere tutto, sacrificando l'intelligenza all'indignazione. E' questo lo spettacolo al quale stiamo assistendo”.
E' vero che la sera del 13 marzo 1977 nella villa di Jack Nicholson a Mulholland Drive sulle colline di Los Angeles non ci fu uno stupro. E' vero che Polanski si dichiarò subito colpevole di aver avuto rapporti sessuali illegali con la minorenne Samantha Gailey, e le parti si misero d'accordo per evitare il processo; ma è anche vero che dopo aver scontato 42 giorni di carcere, l'imputato si sottrasse alla decisione del giudice e preferì fuggire, quando capì che il procuratore non avrebbe tenuto conto della sua ammissione di colpevolezza, visto che era sul punto di rispedirlo in carcere infierendo sulla premeditazione. Samantha Gailey allora, è vero, era un'adolescente, non una bambina. E non era la prima volta che aveva rapporti sessuali. Ma in fondo l'intera vicenda e il clamore che suscita oggi rivelano un cambiamento di paradigma: rispetto a trent'anni fa non abbiamo una diversa tolleranza in fatto di liberazione dei costumi?
“Certo, lei ha ragione”, risponde Finkielkraut. “Ma allora dovremmo essere modesti, non dovremmo evocare la morale comune. Negli anni Settanta, il paradigma dominante era l'innocenza del desiderio. In Francia leggevamo Tony Duvert (l'autore di ‘Bon sexe illustré', pedofilo dichiarato e sostenitore della libera sessualità dei bambini, ndr.), l'‘Anti-Edipo' di Deleuze e Guattari, la ‘Economia libidinale' di Lyotard, ‘Eros e civiltà' di Marcuse. Oggi il paradigma è l'innocenza del bambino, e forse in questo c'è anche un progresso, perché no? Molto meglio il nostro paradigma che quello di allora. Ma non è che siccome proclamiamo l'innocenza dei bambini abbiamo il diritto di confondere infanzia e adolescenza. O allora bisognerebbe vietare la lettura di ‘A l'ombre des jeunes filles en fleur' di Marcel Proust, sequestrare i film di Eric Rohmer, bruciare sulla pubblica piazza la Lolita di Vladimir Nabokov e nascondere allo sguardo le tele scabrose di Balthus…”.
Inoltre, secondo Finkielkraut, dire che i tempi sono cambiati, è un argomento a favore della prescrizione: “Se la nostra epoca è dominata da un'altra visione del mondo, ciò rende pericolosamente anacronistico il giudizio sull'epoca precedente. Non bisogna parlare di morale comune, ma di una successione di estasi contraddittorie, l'innocenza del desiderio, l'innocenza del bambino. Anzi, dirò di più: esiste oggi in Francia un'immensa folla pronta a scatenarsi nel linciaggio contro Polanski. E' un ribaltamento paradossale. Ho visto il film documentario di Marina Zenovich presentato a Deauville, ‘Roman Polanski: wanted and desired', Polanski ricercato in America, desiderato in Francia: era questa la situazione sino a poco tempo fa: Polanski era accettato e desiderato in Francia, anche se tutti sapevano della vicenda di sottrazione di minore. Il regista era stato persino eletto all'Académie des Beaux-Arts. Adesso è ricercato in America e pure in Francia”. Come si spiega questo cambiamento improvviso? “Perché la legge è uguale per tutti, non c'è una giustizia per gli umili e una per i grandi, rispondono da tutte le parti. Vogliamo farla finita con l'antico regime, e con la giustizia di corte suggellata nei versi di La Fontaine: ‘Selon que vous seriez puissant ou miserable, les jugements de la cour vous rendront blanc ou noir'”.
E' il trionfo dell'eguaglianza e della democrazia. “Benissimo, solo che nel clima attuale Roman Polanski paga per il bonus dei banchieri. L'ineguaglianza aumenta. I banchieri ne approfittano. Cresce un senso di disgusto e ribellione e Roman Polanski finisce per diventare oggetto di quel disgusto e di quella ribellione. E' a questo che dobbiamo dare una risposta: l'accanimento della persecuzione giudiziaria contro Roman Polanski non avviene malgrado la sua celebrità, ma in ragione di essa. Polanski viene perseguitato in quanto è una star mondiale. Il suo statuto sociale è una maledizione, per lui, non un privilegio. Ed è stato così sin dall'inizio: il giudice americano Laurence J. Rittenband ha giocato al gatto e al topo. Polanski si è fatto 42 giorni di carcere a Los Angeles, ha subito varie perizie psichiatriche, dettagliate e precise, che hanno stabilito che non era un uomo sessualmente deviante, e nemmeno affetto da tendenze criminali, e dunque non rappresentava alcun pericolo. Le parti dunque si sono accordate e hanno concluso per un rinvio probatorio. La stessa vittima voleva un processo. Ma il giudice ha rotto l'accordo perché aveva paura di urtare la stampa e mettersi contro l'opinione pubblica che era ostile a Polanski, in virtù della celebrità del regista. Così il procuratore americano, Roger Gunson, ha deciso di continuare il processo. Se Polanski fosse stato un anonimo imputato, la persecuzione giudiziaria sarebbe cessata subito. Invece è stato messo sotto assedio in virtù della sua stessa celebrità, della sua fama di regista. Aggiungo, poi, che oggi molti dei suoi detrattori, su Internet, sostengono la tesi paradossale che in fondo anche Hitler era un artista, e in fondo persino Stalin si considerava un artista”.
Il paragone la sorprende? “E' un'osservazione che rivela il risentimento democratico dominante”, risponde Finkielkraut. “La democrazia può seguire due strade: la prima è quella dell'aristocrazia universale, di ciò che Antoine Vitez chiamava l'elitismo per tutti; la seconda è quella dell'odio e del risentimento, una strada che porta dritto alla distruzione di ciò che ci sovrasta, alla rivolta contro le élite la cui superiorità ci esaspera perché ciascuno di noi deve dimostrare di valere solo in quanto individuo libero e eguale agli altri. Il caso Polanski è la dimostrazione che la democrazia contemporanea ha preso la strada del risentimento. Dire che sia una vicenda ispirata a due pesi e due misure è una menzogna bell'e buona. L'élite mediatico-politica, infatti, non sostiene Polanski, ma lo critica, partecipando direttamente al linciaggio”.
Ma come, obietto, da quando è stato arrestato in Svizzera, si sono moltiplicati gli appelli e le dichiarazioni in sua difesa da parte di registi famosi, da Costa-Gavras a Ettore Scola, da Bertrand Tavernier a Marco Bellocchio, di attrici di grido, come Fanny Ardant e Monica Bellucci… “Attori e registi ora tacciono”, osserva Finkielkraut, “sono costretti al silenzio dopo che il nostro ministro della Cultura, Frédéric Mitterrand, per assicurare la propria sopravvivenza politica si è dovuto scusare in televisione per aver detto che l'arresto di Polanski era stato spaventoso e che l'America che vuole l'estradizione fa paura. Nel mondo della cultura c'è una minoranza che difende Polanski, ma la maggioranza che forma l'élite sociale gli è violentemente ostile. E in America è ancora peggio. Hollywood resta in silenzio mentre i quotidiani altolocati della East Coast, come il New York Times, si scatenano…”.
Quanto alla morte della paideia che il caso Polanski mette in luce, all'incapacità in cui si trova l'uomo d'oggi, sessualmente liberato e moralmente disinibito, di allevare i suoi cuccioli e di educarli all'arte dell'amore, dell'amicizia e della conoscenza, Finkielkraut che pure resta uno dei critici più severi della crisi pedagogica nel mondo contemporaneo, dice questo: “Attenzione, la paideia ha a che fare con la pederastia e l'omosessualità. Per noi si avvicina il giorno in cui in nome del nuovo paradigma la stessa paideia verrà messa in causa, e noi tutti saremo condotti a disfarci di interi pezzi della nostra cultura. Non dimentichiamo che Giulietta, nella tragedia di Shakespeare, aveva esattamente la stessa età della vittima di Polanski”.
Difficile, però, trovare un esempio più fuori luogo: da un lato, il teatro rinascimentale e l'amore sublime di due innamorati contrastato dalle rivalità di famiglia, dall'altro la tragedia postmoderna del gioco erotico disperato tra due vittime della liberazione sessuale. “Stiamo attenti”, insiste Finkielkraut, perplesso di fronte all'argomento straussiano del Foglio. “In questo campo dovremmo guardarci bene dai discorsi moralistici. Certo, è vero che l'edonismo contemporaneo ha qualcosa di eccessivo e persino di deprimente. Io però constato che le stesse persone che condannano Polanski con estrema violenza non hanno nulla da obiettare riguardo la distruzione del mondo dell'infanzia perpetrata dalla moda e dalla pubblicità. Vediamo bambine di otto anni che vengono vestite come donnine dalle loro madri, neonati in fasce che danzano il rap negli spot pubblicitari. Tutto questo è grave, grottesco, deplorevole. Cominciamo a riflettere su questo, piuttosto che colpire un uomo di 76 anni, che già pagato il suo errore con 42 giorni di carcere, un risarcimento alla vittima di 500 mila dollari e la condanna all'esilio”.
E anche di fronte all'obiezione legalistica del dura lex sed lex, Finkielkraut insiste sull'imbroglio giudiziario. “Il caso Polanski non ha nulla a che vedere col rispetto delle norme e delle procedure. Non è la legge che obbliga la giustizia americana a continuare la persecuzione giudiziaria, ma una decisione a discrezione del procuratore. A mio avviso, ci sarebbe materia per fare appello alla Corte europea dei diritti dell'uomo, perché si tratta di un atteggiamento motivato solo dalla vendetta e dal desiderio di pubblicità. E per quelli che si preoccupano della paideia, vale a dire di virtù e cultura, la vera mostruosità non è nel comportamento di Polanski, ma nell'imperialismo della civiltà delle immagini. In effetti, se c'è qualcosa di duro in America è la ferocia dell'opinione pubblica; e se c'è qualcosa di molle è la sottomissione della giustizia alla stampa e all'opinione pubblica.
Non dimentichiamo che i giudici americani sono eletti dal popolo: devono rendere conto non alla legge, ma agli elettori. In virtù di questa dipendenza, il giudice Rittenband nel 1978 denunciò l'accordo tra le parti, decise di rispedire Polanski in carcere per altri tre mesi, provocandone così per reazione la fuga all'estero. E non dimentichiamo che ancora oggi è un procuratore eletto a sfregarsi le mani all'idea di poter estradare Polanski e fare i conti con lui in un processo ipermediatizzato”.
Ma allora, dunque, staremmo assistendo a uno strano corto circuito del sistema mediatico-giudiziario che sfugge a ogni controllo da parte dell'opinione pubblica? “Certo”, risponde Finkielkraut. “Oggi più che mai bisogna difendere la separazione dei poteri come fondamento della società liberale, ma bisogna anche tener conto dell'emergenza del quarto potere, il potere mediatico. La giustizia dovrebbe essere indipendente sia dall'esecutivo sia dal potere mediatico. Non ha nulla da guadagnare a cadere sotto il giogo dei media, come succede oggi negli Stati Uniti”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano