Il ritorno del fuoco sacro in occidente. PALATIVM

Alessandro Giuli

Nella ricorrenza delle Nonae di ottobre, celebrati i riti in onore di Giove/Folgore e di Giunone dei Quiriti, Lucio Giulio Glanico incontra il maestro Giulio Pomponio Leto alle pendici del Palatino. Lì dove si erge come un trono di marmo l'arco trionfale del divo imperatore Tito. Lì dove la Sacra Via s'interseca con la salita che, fiancheggiata a sinistra da pareti di alloro e a destra dalla vista della valle del Foro con le colonne consacrate ai Dioscuri, ascende alla sommità del colle.

        MMDCCLXII ab Vrbe condita
        Nonis Okt.
        IOVI FVLGVRI ET IVNONI CVRITI SACRVM


    Nella ricorrenza delle Nonae di ottobre, celebrati i riti in onore di Giove/Folgore e di Giunone dei Quiriti, Lucio Giulio Glanico incontra il maestro Giulio Pomponio Leto alle pendici del Palatino. Lì dove si erge come un trono di marmo l'arco trionfale del divo imperatore Tito. Lì dove la Sacra Via s'interseca con la salita che, fiancheggiata a sinistra da pareti di alloro e a destra dalla vista della valle del Foro con le colonne consacrate ai Dioscuri, ascende alla sommità del colle.
    Giulio Pomponio Leto – O mio Lucio, simili a bianche cicogne ritornate dopo un viaggio lontano – giacché in stormo queste migrano quando il soffio di Borea le induce a partire – tu e le tue giovanili forze fate gradito ritorno ai miei occhi. Così è, dopo molto tempo trascorso dalle feste Agonalia di Giano a oggi, giorno in cui il Padre degli uomini e degli Dèi, sotto forma di saetta folgorante, ci chiede di onorare il patto di fedeltà e il giuramento di non volgere mai le spalle al nemico. Dunque Iuppiter hac stat, come dice il nostro Virgilio. Giove è con noi. Ma incamminiamoci verso la vetta del colle romuleo e intanto dimmi quale occupazione ti ha tenuto distante e tanto a lungo.
    Lucio Giulio Glanico – Salve a te, mio Pomponio. Non sono così dimentico dei miei limiti né tanto presuntuoso per contare sull'illusione che tu non conoscessi la ragione della mia assenza.
    Pomponio – E' proprio così, invero.
    Lucio – E mai similitudine fu più acconcia di quella da te usata: come alta cicogna ho viaggiato, in effetti, migrando verso l'Arcadia sotto la spinta del Favonio e poi ancora più vicino all'Aurora dalle dita di porpora. A Troia, Pomponio, donde la Madre degli Eneidi accompagnò il ritorno della nostra stirpe; e infine a Pessinunte, donde la Grande Madre degli Dèi avrebbe fatto ritorno a Roma nei tempi perigliosi delle guerre contro Cartagine.
    Pomponio – Dalle tue labbra, Lucio, le parole fluiscono più dolci del miele. E quale migliore ragione per sederci qui, a pochi piedi dalla dimora dei Cesari, se non il discorso che germoglierà dalla descrizione del tuo viaggio? Ricorderai quando ci lasciammo, a gennaio, con l'immagine dei nostri eroi corruscanti che irrompono dal tempio di Giano come faville. E prima ancora ad attirare la nostra conversazione era stato il ritorno del fuoco sacro nella Terra Saturnia: ad Alba Longa da Lavinium e a Lavinium dal Castro di Fauno. Oggi che costeggiamo l'antro del Palatino in cui la Lupa diede nutrimento ai Gemelli, il Lupercale sacro a Fauno, non si addice forse che tu mi parli anzitutto della terra dalla quale il pio Evandro ricondusse con sé in Patria gli Arcadi progenitori sotto gli auspici del grande Pan?
    Lucio – Si addice. Giacché proprio qui sul Palatino, come insegna Virgilio, Evandro prese dimora assieme alla vaticinante madre sua Carmenta. E proprio qui Fauno Luperco riconobbe nell'arcade Pan il suo divino gemello, come Romolo e Remo, come gli igniti Dioscuri. Ti dirò, Pomponio, che con il Sole nella costellazione del Toro ho visitato i resti della città di Pallantion. Gli Elleni, singolare a dirsi, ne pronunciano il nome così: Palladio, come a indicare il pegno della grandezza romana serbato prima a Troia e poi nel focolare di Vesta. In una mattina dorata da Febo Apollo, sulla sommità di un colle al centro del Peloponneso isolato dalla peste della modernità, si è aperta a me la vista di un luogo ancestrale. Un tempio familiare, sopravvissuto alle Arpie dei fuggitori di luce e fosforeggiante di fiori, ha accolto l'offerta del mio silenzio. Lì il Padre Evandro ha eretto la propria reggia boschiva, da lì ha fatto ritorno sul Palatino molto prima che Romolo tracciasse il solco primigenio della Roma Quadrata.

    Pomponio – Bene, Lucio, si direbbe che tu abbia conosciuto la città dell'italico Pallante, avo di Evandro, il cui figlio non per caso si chiama anch'egli Pallante ed è colui che ha dato il proprio nome avito al Palatino e la propria vita per la gloria degli Eneidi. Non ci ricorda forse Virgilio che furono il vecchio re Evandro e il suo giovane sangue ad accogliere l'ambasceria di Enea, in cerca di alleati nella pugna contro i Rutuli una volta risalito il corso del Tevere dalla foce della selva Laurentina?
    Lucio – E' così, Pomponio. Il Padre Enea gli si fece incontro mentre celebravano il rito di Ercole Invitto sull'ara eretta dallo stesso Alcide; ne fu reso partecipe in virtù di un'antica origine, strinse poi con loro il patto dell'alleanza e ricevette l'ausilio di quattrocento cavalieri al comando di Pallante.
    Pomponio – Giusto, Lucio. Rifletti ora su questo: quando parli di “un'antica origine” ti riferisci senz'altro alla comune genìa di Enea ed Evandro: entrambi sono discendenti del Saturnio Atlante. Colui che regge sull'omero le sfere celesti fu infatti nonno di Dardano e seme della stirpe troiana attraverso sua figlia Elettra, resa gravida dal Padre Giove; e nonno dell'arcade Evandro attraverso Mercurio, generato con Maia sulla gelida vetta del monte Cillene.
    Lucio – E' proprio così.
    Pomponio – Ricorderai come sia proprio il re arcade a narrare dei boschi sul Palatino abitati da Fauni indigeni e Ninfe: forte popolo partorito dai tronchi di dura quercia, rude progenie introdotta alle messi di Cerere dall'aureo Saturno. Fu nella terra del Lazio, sul colle chiamato Saturnio in suo onore e poi Campidoglio, che l'Olimpio trovò latebre sicure per ripararsi dalla vista di suo figlio Giove. Ora dimmi, Lucio, se dunque Evandro non sia per il Palatino quel che Saturno è stato per il Campidoglio: l'avo primigenio tornato alla terra fatale.
    Lucio – Fin dal significato del suo nome elleno, Pomponio, posso convenire che il re Eu-Andros è l'ottimo uomo delle origini palatine. Come Pan Liceo, è il lupo cacciatore delle selve: forza incontenibile e prorompente. Come ariete/becco, è il duce delle greggi di Fauno: fulgore solare. Come figlio della ninfa Carmenta, è l'oracolo delle nostre genti. E a lui sono sacrati i Luperci guidati da Romolo e Remo che, lupi e capri una volta all'anno, in febbraio, sfilano nelle cerimonie per purificare l'Urbe e rendere fertili le donne romane.
    Pomponio – Dici il vero, Lucio. E vedo bene che dall'Arcadia hai riportato non soltanto il ricordo, ma anche la coscienza intuitiva delle origini. Eppure non è tutto. Quel che tu e gli Elleni appellate Eu-Andros i nostri gerofanti descrivono in versi, per non svelarne troppo, in questo modo:
    “Andron diceano i Greci… i Lazii l'Andro/ L'Eterno Diversario: in dove i Seni/ Uniansi a Con-Ciliare: Oppur Scam-Andro”.
    E ancora: “Aggiunto all'Andro l'Eu, che spiega Ameni./ Rimembra tale Voce Roma-Antica,/ Tra gli Antri Cachi, a Celi poi Sereni”.
    Ora, Lucio, per quanto mi è consentito, ti dirò che nel nome dell'arcade Evandro è racchiusa anche la presenza di un luogo riparato, di un asilo ospitale raggomitolato lungo il corso sinuoso di un fiume. Questo fiume è il Padre Tiberinus, gemello dello Scam-andro che in Asia minore bagna le pendici di Troia. “Noi Itali Tevere chiamammo quel fiume” che un tempo era conosciuto come Albula, ricorda Evandro stesso a Enea nei loro conversari. Ma prima ancora il suo nome era l'etrusco Rumon, il fiume dalle molte mammelle dal quale fu ed è ancora nutrita Ruma/Roma nella sua luce sorgiva (Albula) e diuturna (Alba Longa). E le mammelle non ci ricordano forse quelle della lupa mansuefatta che fu nutrice di Romolo e Remo? Ora hai compreso, Lucio, che cos'è quell'antro di cui Evandro è custode?
    Lucio – E' il Lupercale, Pomponio. E la mia voce non tremolerebbe se gli occhi della mia anima non avessero seguito le tue parole come fa la nostra vista quando, dopo lunga sosta in una grotta, comincia a riabituarsi ai raggi di Febo.
    Pomponio – Seguimi ancora, arcade Lucio. Protetto da un capri-fico, il Lupercale si affacciava su un'ansa del Tevere dove un tempo le acque del fiume si placavano in una specie di bacino navigabile, simile al circolo descritto in origine dal Divino Oceano intorno al promontorio di Circe. Il nome del primo Oceano romano è Velabrum: è la sede in cui il canestro dei Gemelli avrebbe trovato asilo, circondava l'isola palatina, bagnava il porto degli Arcadi partenti e ritornanti come Ercole e i suoi sodali Argonauti, gli Argei. Evandro abita qui, sul Palatino, in una capanna circolare come la volta del cielo, dal tetto di paglia, in apparenza modesta. Quando riceve Enea, lo fa sedere sopra una pelle.
    Lucio – Una pelle d'orsa.
    Pomponio – Giusto. Fa' attenzione Lucio: la pelle sopra la quale siede il Padre Enea non è altro che la trama dell'Orsa minore, l'ombelico del cosmo costituito da sette stelle fra le quali è la stella Polare. In questa sede è il Palatino e, come ruota intorno al proprio asse immobile donde tutto promana e dove tutto si riassorbe, la volta celeste gli gira intorno. Sette, Lucio, è il numero dell'Orsa e sette erano in origine i nostri colli il cui insieme è detto Settimonzio: circuito sacro delle prime feste boreali latine – ti ho già detto che iperboreo è colui che abita in alto – e specchio polare dei sette sovrani della futura Roma. Secondo un calendario fra i più antichi, questi colli erano il Palatium, la Velia, il Fagutal, il Cermalus, l'Oppius, il Caelius, il Cispius. Lo svolgimento ellittico del tempo, in seguito, avrebbe spostato l'asse orizzontale comprendendo altri colli e lasciandone alcuni ai margini. Ma Palatino e Cermalo, erte gemelle come Romolo e Remo, sarebbero rimaste conficcate nel cuore del firmamento come le due Orse celesti. Ascolta ancora, Lucio: nella coda dell'Orsa minore è il polo celeste, ovvero il capostipite Arcade figlio di Callisto; alla sua destra è l'Orsa maggiore che ci indica il Settentrione. Ma lasciamo che al riguardo parli Cicerone, utilizzando i versi del greco Arato: “‘La punta di ciascuna estremità dell'asse si chiama polo'. Attorno a questo si muovono le due Orse che non tramontano mai. ‘Di queste una è detta dai Greci Cynosura, l'altra si chiama Elice', le sue stelle luminosissime che vediamo per tutta la notte ‘sono abitualmente chiamati dai nostri Settentrione'”. Settentrione è voce arcana e sta per Septem-Triones, i setti buoi. Ascolta ancora Cicerone e Arato, Lucio: “Dopo il Settentrione viene ‘il Guardiano dell'Orsa, detto comunemente Boote perché spinge dinnazi a sé l'Orsa come legata al timone'. E successivamente: ‘Sotto i visceri di Boote si vede fissa nel cielo una stella raggiante, Arturo, dal nome illustre; sotto i suoi piedi si muove ‘la Vergine dal corpo splendente, che tiene in mano una spiga brillante'. E le costellazioni sono così delimitate che in una tanto ordinata disposizione appare l'abilità divina: “Sotto la testa dell'Orsa si vedono i Gemelli…'”. Ora comprendi, Lucio?
    Lucio – Proverò a dimostrartelo, Pomponio. Se è vero che chiamiamo anche carri le due Orse; se è vero che Romolo conquistò il Palatino scagliando un'asta di corniolo – poi prodigiosamente germogliato – dal limitare di quel colle Aventino che avrebbe lasciato a Remo e al suo abitato detto Remoria; se è vero anche che il solco primigenio dell'Urbe sul Palatium è un linea sacra e invalicabile tracciata con l'aratro; allora ecco spiegata l'origine delle “due Orse che non tramontano mai”: Roma e Remoria.

    Pomponio – Ti avvicini al vero, Lucio. Ma c'è dell'altro, ascoltami. Il Guardiano dell'Orsa di cui parla Cicerone non è forse il signore dei Buoi, un nume con l'aratro disceso da Saturno? E “la Vergine dal corpo splendente, che tiene in mano una spiga brillante”, non è forse l'immagine di una divinità casta a vederla dall'esterno ma che serba in sé la promessa di una generazione sacra significata dalla spiga di Cerere saturnia?
    Lucio – E' senz'altro così.
    Pomponio – Bene. Dunque potremmo dire che questa Vergine è la madre dei Gemelli.
    Lucio – Come la vestale albana Rhea Silvia, madre di Romolo e Remo.
    Pomponio – E come prima di lei l'arcade Pallantia, figlia di Evandro, de-florata da Ercole sul Palatino dopo che l'Invitto figlio di Giove e Alcmena aveva vinto il gigante di fuoco Caco e recuperato i propri buoi. Non è perciò Ercole, in un certo modo, un Guardiano dell'Orsa come Boote?
    Lucio – E' così.
    Pomponio – Adesso osserva che cosa il nostro Macrobio dice di Ercole e del collegio sacerdotale dei Sallii scutati, attraverso le parole del tauroboliato Vettio Agorio Pretestato: “Ebbe dunque ragione il nostro Virgilio Marone a riportarsi ai tempi in cui Evandro celebrava i sacrifici presso l'ara Massima prima della fondazione di Roma, servendosi del pioppo come ‘molto gradito all'Alcide'. Quanto ai Salii, egli li attribuisce a Ercole per la ricchezza della sua profonda dottrina; giacché tale dio anche presso i pontefici è identificato con Marte”. E chi è Marte, Lucio, se non il padre dei Gemelli che ingravida la vestale Silvia sotto forma di fallo igneo sprigionato dal focolare? E non ti avevo forse detto che Phallus e Phalladion derivano dallo stesso fuoco?
    Lucio – Lo ricordo bene, Pomponio.
    Pomponio – Ottimo, Lucio. Ma non ti sfuggirà che anche il Palatino discende dalla medesima radice, da cui Phal-atium, Palatium. Esiste dunque un nesso profondo e remoto che unisce i protagonisti del nostro racconto e che conferma il significato dell'Orsa sulla quale Evandro, non dimentichiamo l'origine del nostro discorso, fa sedere Enea dentro la propria capanna palatina. Mi segui, Lucio?
    Lucio – Ti seguo.
    Pomponio – Bene, perché ti sto portando velocemente in Etruria, nella patria dei Tirreni-Pelasgi progenitori nostri. Non lontano da Arezzo, a circa settemila piedi sopra le acque di Nettuno e a quasi cinque stadi di distanza dalle sorgenti dell'Arno, sul versante meridionale di un monte chiamato Falterona, è situato il così detto Lago degli Idoli. E' uno specchio d'acqua dedicato a Ercole e a Marte. Gli antichi tramandano che l'Arno e il Tevere, Arnu e Rumon, fossero fiumi gemelli quasi come Romolo e Remo: nati non troppo lontani l'uno dall'altro, s'incrociavano nelle valli paludose dominate dal monte Falterona. Dice non a caso Fazio degli Uberti: “E da levante com va pellegrino/ Tevere in mar, che surge in Falterona,/ compie in Toscana tutto il suo cammino”. Ora, se il Tevere e l'Arno sono così fraterni, non dovremo forse supporre che esista un qualche rapporto tra il Falterona e il Palatino?
    Lucio – Dobbiamo, Pomponio.
    Pomponio – Eccolo: Phal-truna, ovvero lo stesso radicale di Phal-lus e Phal-ladium. Secondo Festo, a Roma, sta a significare “cielo”: Phal-ad. Per gli Etruschi ha anche il valore di “cupola”, mentre la terminazione “truna” è per Esichio voce arcana che indica “potere”, “principio”, “Arkè”. Ne dovremmo allora dedurre che tanto il Phaltruna quanto il Phalatium, tanto il Falterona quanto il Palatino, si riconnettono al principio polare del cielo stellato e alla sede di un mistero fluviale. Il mistero del Lupercale, di Fauno e dei Gemelli nutriti dalla Lupa/Fauna, dell'aratore ancestrale e del solco primigenio tracciato dal vomere romuleo. Non è così, Lucio?
    Lucio – Né può essere altrimenti.

    Pomponio – Ma vedo che di fronte a noi, tra il Palazzo dei Cesari e la Domus di Augusto, c'è una dimora ottocentesca oggi disabitata sotto la quale sarà bello dirci altre cose. Mentre ci incamminiamo, volgi lo sguardo alle tue spalle e osserva ancora per un attimo il così detto Ippodromo palatino. E' invero un grande giardino porticato destinato a palestra e a luogo di passeggio, ma negli ultimi anni propizi alla tradizione nostra fu utilizzato anche come scena di una cerimonia teatrale che dietro le quinte aveva uomini giganteschi. Uno di questi, di lui abbiamo spesso parlato, è Giacomo Boni. Soprannominato “Nume indigete del Palatino”, è lo scopritore della “tomba romulea” nel Comizio, il Lapis Niger che testimonia la regalità di Roma. Ed è stato anche consigliere ascoltato di un autentico pitagorico che si faceva chiamare Ignis, spadaccino intrepido e cultore della divina proporzione. Il 6 maggio del 1923 dell'èra volgare, pochi giorni dopo il Natale di Roma, alla presenza del Dictator Italiae, Ignis ebbe la forza e il privilegio di far rappresentare nell'Ippodromo palatino un atto della sua tragedia sacra intitolata “Rumon”. Testimoni del rito furono Romolo stesso e Venere detta delle Perle, sotto forma di busti marmorei collocati ai lati della scena e scolpiti da Ignis secondo la legge aurea della divina proporzione. Si trattò proprio di questo, di un rito, Lucio, nel corso del quale si tentò di ri-fondare Roma e, prima di procedere alla ripetizione del solco romuleo, venne adombrato il nome segreto dell'Urbe. Nome impronunciabile (pena la morte dell'empio che osi farlo).
    Con queste folgoranti parole: “Manifesto è dunque: Amor – essere – Roma. / Se tutte move, ed incede, le create cose…/ legge si è – Amor – dell'universa vita…/ così, un tanto Nome, a noi prèdice:/ dono di regno e potestà sovra ogni terra,/ e dello spirito, e d'imperio./ Confirmato si è, per te, prodigioso il vaticinio./ Non pronunciati mai più sien i Nomi occulti…/ su la Città terribili chiamerebbero fortune…/ Li trasmettano, oralmente, i Pontefici ai Pontefici./ Né mai più tu, l'eccelso pronuncia Nome palese,/ se concluso non avrai, prima, il solco sacro./ Permesso e commesso mi è: Nunziare, allora,/ in gran letizia, al Popolo… quel Nome/ che licito non più mi è dire/ quando, già per tre volte, qui, in tre diversi suoni,/ de la gran Madre nostra 'l Nome risonò”.
    E dunque, Lucio: “Di significati cinque:/ E'… 'l Nome palese, latore, con l'occulto:/ Chiama la Città: Valentia… Ròbure… Virtù!/ e ancora: Madre… Mamma… Alma Nutrice!/ Vostra – nei nomi vostri – oh Re! Suoi fondatori…/ Come del grande Rumon: URBE: la Città del Fiume!”.
    E infine, Lucio: “Ammirate! Se gli Dei saputo abbiano addensare,/ in così breve Verbo, sì pieni… tanti arcani./ Mirifici! Donando Nomi nove:/ in quattro occulti ed un – Medio – Palese,/ e quando, nove, siamo al Rito”.
    Ecco Lucio, sappi che la casa che ora protegge il nostro conversare è appunto il domicilio di Boni, fraterno di Ignis, nume indigete di questo colle, rivestito della toga pontificale. Ma ora dimmi di Troia.
    Lucio – Lo farò, Pomponio. Non prima però d'aver ammesso che il mio animo, sempre teso come un arco nell'ascolto delle tue parole, oggi merita davvero il nome di fortunato. Sono infatti certo che tu mi chieda volutamente adesso di Troia, solo dopo avermi aiutato alla comprensione del mistero celato intorno al re Evandro e al suo ritorno sul Palatino; al ritorno degli Arcadi fra gli Arcadi e al rito di fondazione palatino ripetuto nel tempo. Ti dirò, dunque, che il suolo vergine di Troia conserva ancora le tracce dell'aratura dardanide, le sue mura si direbbero capaci di attirare il sole e trattenerlo, come pegno dei numi che le consacrarono dopo averle erette: il Padre Apollo e Nettuno Scuotiterra. Il palazzo di Priamo è sorretto da una terra così rossa che pare fuoco rappreso, ordinato in blocchi e custodito da querce altochiomate; e mentre i Grandi Dèi esigono ancora gesti prudenti, nel cielo si manifestano segni di guerra e di lontananza. L'onta del cavallo, una nave al largo e nel suo ventre la promessa fatale da mantenere. Fuori dalle mura, una nera e paludosa spelonca, anche lì, come sul Palatino, ospita presenze ignote. Non è stato difficile percepire un'ombra di tragedia osservando dalla rocca ben recinta la pianura dove Troiani, Lici e Dardani bellicosi contendevano al fato l'onore della vittoria. Poiché nessuna ombra può esistere senza una luce di grandezza che la sovrasti. Questo bagliore viene dal monte Ida dove Giove, suo Signore Grande e Glorioso, ha sciolto i destini di Troia. Ma a che pro dilungarmi, Pomponio? Ormai la parola di Omero in persona spiegherà tutto il mio pensiero al cospetto d'Ilio ventosa e del Padre Enea che da lì mosse verso il Tirreno: “I Fati decretar ch'egli viva, onde la stirpe/ di Dardano non pèra interamente;/ perocché da gran tempo Egli la gente/ di Priamo scosta e su i Troiani ormai/ di Enea la forza regnerà con tutti/ dei figli i figli e chi verrà da quelli”.
    Pomponio – Dici bene, Lucio, e vedo che non ti manca la saldezza per comprendere questo: affinché il vivo nasca è necessario che il morto muoia. Troia doveva cadere sotto il ferro del titano pelasgo Achille, che la disarmò uccidendo Ettore simile a un dio, e per mano di suo figlio Pirro dopo che l'inganno del cavallo aveva violato la sacra cinta muraria di Apollo. Così doveva essere, ci ricorda Virgilio, perché potesse compiersi un più grande disegno stabilito dalla natura. E che altro è, infatti, il contrastare la natura, se non un muovere guerra agli Dèi, alla maniera dei Giganti? Perciò, Lucio, ti ricorderò quanto stabilito dall'oracolo della Sibilla dardanide, Cassandra, custode del fuoco palladio ricevuto da Enea: “Tempo verrà, che al ciel la gloria avita/ di Dardano i nipoti innalzeranno,/ quando cinti d'allor, l'asta brandita,/ della terra, e del mare acquisteranno/ l'Imperio. Chiaro allora fia che sen vole,/ Troia, il nome tuo, e fia che appieno il danno/ tuo si compensi. Oltre le vie del Sole,/ e del volubil anno oltre il cammino,/ ne andrà famosa la Dardania prole”. Ma questo, lo so, ti è già chiaro. Piuttosto dimmi se qui, sul Palatino, non esiste forse un luogo dove la Sibilla vaticina.
    Lucio – Il mio cuore balza nel petto e dice che qui, a pochi passi da noi, sorgeva il tempio di Apollo nel quale il Divo Augusto ha voluto traslare i Libri Sybillini contenuti nel tempio di Giove Capitolino.
    Pomponio – Giusto. Saprai pure che il figlio di Cesare, già viva espressione di Romolo, qui e non altrove volle vivere.

    Lucio – Volle vivere qui, a pochi passi dalla capanna romulea e dal solco primigenio dell'Urbe, in una casa già appartenuta a un discendente di Quinto Lutatio Catulo, trionfatore insieme con Caio Mario sul barbaro germanico. So anche che a seguito di un prodigio – saetta guizzo e lampo di folgore – Augusto fece della propria dimora la casa di Apollo affacciata sul Lupercale. La sua Domus divenne Publica, vi furono traslati il fuoco di Vesta e i Penati, nonché un simulacro del Phalladium. Quasi che una fiamma rinnovata avesse scelto di rifecondare il focolare di Vesta, Apollo e Romolo e Augusto divennero un solo essere sul Palatino.
    Pomponio – E' proprio così e questa tua intuizione, Lucio, vogliano gli Dèi immortali in te accrescere, per permetterti di condurre a termine l'impresa cui ti destinerà il Genio tuo. Perciò ora ascoltami. Ricorderai che al di sotto del tempio apollineo, affacciata sul limitare del Circo Massimo, una selva dedicata a Febo ospita l'altare della così detta Roma Quadrata.
    Lucio – Ricordo, è l'ara sotto la quale giacciono le primizie necessarie alla fondazione di una città.
    Pomponio – Ammetteremo dunque che, come Romolo, Augusto abbia scavato una fossa circolare, chiamata mundus, dentro la quale ha poi depositato le cose sacre?
    Lucio – Lo ammetteremo.
    Pomponio – Ma perché chiamare “Quadrata” questa fossa inaugurale?
    Lucio – Questo lo ignoro, invero.
    Pomponio – Fa' attenzione, Lucio. Il mundus è un cosmo in gestazione nel quale, mediante le primizie ricevute in offerta, le energie latenti degli avi risorgono alla vita e si attivano attraverso l'evocazione di un nome occulto. La copertura del mundus è detta lapis manalis, la pietra dei Mani o spiriti trapassati. Ma non si può lasciare al caso la scelta dello spazio, bisogna fare ordine. E questo ordine si ottiene quadrando il cerchio: tracciando un cardo verticale e un decumano orizzontale. Dal loro incrocio risulteranno quattro angoli retti che sono altrettanti punti cardinali irradiati da un unico centro, che i nostri Maggiori chiamarono g-ruma. Tutt'intorno è il confine tra città e selva (pomerium). Ma non si può lasciare al caso neppure la scelta del tempo, bisogna seguire un ordine. Roma nasce secondo rito tirrenico nel giorno dedicato alla divinità campestre Pales. Come ci ricorda un uomo addentro alle secrete origini: “La città venne fondata chiamando i vati amici etruschi consacrando la fossa dove è il capo del Centauro, e, secondo gli auspicii del prudente vate, conducendo il pomerio intorno al Palatino col sacro aratro nel giorno undecimo avanti alle Calende di maggio (21 aprile) tra la seconda e la terza ora, essendo il Sole in Toro, la Luna nella Libra, Saturno, Venere, Marte, Mercurio nello Scorpione e Giove nei Pesci, come afferma Lucio Tarunzio, il più bravo matematico…”. Il 28 ottobre di duemilatrentasette anni fa, Augusto così rifondò Roma: ripristinando l'abitato dell'età arcadica di Fauno/Evandro Pallanteo; con il fuoco albano di Ve(d)iovis, già incontrato da noi alle foci del Tevere; a immagine di Troia, sotto gli auspici di Apollo suo Nume famigliare e custode dell'inviolabilità romana. Comprendi, Lucio?
    Lucio – Comprendo.
    Pomponio – Ora concentrati. La folgore discesa sulla sua casa privata decretò ad Augusto il compito di sciogliere una volta ancora il voto di Enea dedicando un tempio al dio delle frecce saettanti. Augusto, augure e pontefice, scorse il profilo di Apollo e in lui riconobbe il nume domestico della gens Iulia che lo aveva adottato: Ve(d)iovis, imberbe progenie giovia cui i GENTEILES IVLIEI dedicarono, secondo rito albano, l'altare di Bovillae di cui ti dissi a suo tempo. Già Caio Giulio Cesare, discendente di Venere Genitrice per via paterna e di Anco Marcio per via materna, aveva saputo onorare il Palatino: come novello Romolo/Quirino istituì il terzo collegio dei giovani sacrati a Fauno, i Luperci Iulii. Fu proprio nella ricorrenza dei Lupercalia del 44 nell'èra volgare che Cesare, appena respinta l'acclamazione a re propiziata dalle recenti cerimonie per le Feriae Latinae, rifiutò anche la corona regale postagli sul capo dal sodale Marco Antonio per offrirla piuttosto a Giove Ottimo Massimo. Fu allora palese che la sovranità romana si ricongiungeva con la schiera dei Luperci romulei, ridenti e iniziati ritualmente dal sangue e dal latte. Ma Cesare, discendente di Dèi e di monarchi, sapeva d'essere ormai Diuus. Suo figlio Ottaviano, divenuto Augusto, volle poi custodire la potenza rigeneratrice del fuoco palatino al centro del mundus inaugurato con il nome ignoto del dio cui Sestio Calvino ha dedicato lì nei pressi un'ara misteriosa: “SEI DEO SEI DEIVAE SAC”; il mundus è posto lungo la verticale che collega Apollo e il Lupercale, dove la Lupa/Fauna nutrì i Gemelli nostri, come ricordava in loco il bronzo etrusco di Vulca, oggi nei musei capitolini.
    L'ultimo Cesare romano, Lucio, nel Quarto secolo dell'èra volgare avrebbe tentato qualcosa di simile, ancora oggi testimoniato sulla Sacra Via del Foro.
    Lucio – Massenzio… il tempio di Romolo suo figlio.
    Pomponio – Marco Aurelio Valerio Massenzio, padre del giovane Romolo strappato alla vita da forze tenebrose, al quale il Cesare stabilì di dare Aeterna Memoria in un tempio circolare collegato ai Penati ospitati sulla Velia. Gli scettri di Massenzio, come sai, hanno da poco vinto il silenzio dei secoli e sono fuoriusciti dalle Curie Vetuste, non a caso alle pendici del Palatino, avvolti in involucri ricavati dallo stesso pioppo con il quale Evandro sacrificò per primo a Ercole Invitto. Pegni di riscossa, Lucio.
    Lucio – Dormienti per secoli non lungi dal tempio di Giove Statore, tanto che alcuni lo identificano con quello di Romolo, quasi a ricordarci l'ammonimento eterno con il quale Appio Claudio Cieco distolse i senatori nostri dal cedere alla tentazione della pace col nemico. Allora Pirro, oggi il buio: “Ove mai deviarono folli le vostre menti che in passato sempre furono integre e rette?”.
    Pomponio – Hai compreso, Lucio, così basti. Ma ora per te è il momento di tornare a Pessinunte, in Frigia.
    Lucio – Compimento del viaggio. Troppo densa la luminosità del tempio della Grande Madre Cibele perché io riesca a esprimerla con parole. La Frigia è ancora una terra estrema, con biondissimi paesaggi di grano e rocce sacre dominate dal senso d'una possibilità di salute o di smarrimento, di limite o di eccesso. Simili potenze elementari, come il tufo lavico che abbiamo di fronte, ho conosciuto soltanto qui sul Palatino, fra i resti romulei, a Cuma e ad Ardea; e nella Città di Mida nei pressi di Pessinunte.
    Non fatico a comprendere perché la Sibilla indicò nel simulacro della Grande Madre di Pessinunte la potenza che avrebbe salvato Roma da Annibale.
    Pomponio – Eccola, di fronte a noi, la sede di Colei che custodisce la salute dell'Urbe. Non per caso, Lucio, il suo tempio palatino è affacciato sulle capanne di fondazione romulea e alle sue spalle c'è il tempio di Victoria, la divinità alata che ha ospitato Cibele dal 204 al 191 dell'èra volgare, prima che la casa della Grande Madre Idea fosse pronta. Ne conoscerai la ragione, immagino.
    Lucio – So che il simulacro della Grande Dea fu avocato a Roma dai Libri Sybillini come pegno di vittoria contro il nemico ancestrale cartaginese. Dunque in un nessun altro posto, se non nel tempio di Victoria, era destino che trovasse temporaneo asilo. In effetti di lì a due anni Publio Cornelio Scipione avrebbe sconfitto Annibale a Zama e, un anno dopo la consacrazione del suo tempio, nel Centonovantesimo anno prima dell'èra volgare, i fratelli Lucio e Publio Cornelio Scipione avrebbero finalmente abbattuto anche il re di Siria Antioco III, e con lui l'ultimo respiro del terrifico Annibale. Fu la famiglia reale di Pergamo, i nobili Attalidi signori di Ilio e di Pessinunte, a concedere a Roma il ritorno della Madre. Questo so, Pomponio.
    Pomponio – Aggiungerò allora questo, Lucio, che la sconfitta del siriano Antioco avvenne grazie all'alleanza tra Roma, Pergamo e Rodi. E che il trionfo romano e degli alleati nostri è stato immortalato nella celebre Vittoria o Nike di Samotracia, la statua marmorea deposta nel santuario dei Grandi Dèi fondato dal capostipite Dardano nell'isola dei Misteri. Aggiungerò anche, Lucio, che a Roma per quella vittoria sui siriani – ottenuta anche per mare, oltreché in battaglia campale a Magnesia dell'Asia minore – vennero ringraziati con l'edificazione di un tempio in Campo Marzio i Lares Permarini, ovvero gli stessi Grandi Dèi nella veste di eroi luminescenti tra i flutti salmastri. Ma ora torniamo alla nostra Cibele, Lucio, e dimmi se la Madre degli Dèi ti sembra o meno rappresentata dai nostri artisti con una corona turrita sul capo; come un diadema vetusto.
    Lucio – E' così, Pomponio, la si vede cinta di mura e torri ciclopiche.
    Pomponio – La si direbbe dunque coronata della forza primigenia dei Pelasgi costruttori di rocche e città ben recinte. E non per caso intervenne lei a salvare Roma dalla sciagura cartaginese. In più, come saprai, fu sempre la famiglia degli Scipioni, con Nasica, ad accogliere la Grande Madre appena sbarcata dalla Nave Silvia alle foci del Tevere. Dovremmo forse ritenere che la famiglia degli Scipioni, la prediletta da Giove, avesse un legame sottile molto potente con lei. E dovremmo forse rammentare che gli Scipioni, durante il viaggio intrapreso con le legioni nostre per domare il nemico siriano, si fermarono a Ilio e sacrificarono al tempio di Minerva Palladia impetrando la protezione della Metropoli troiana. Infine dobbiamo ricordare che anche Caio Giulio Cesare combatté sotto la protezione di Cibele, giacché alcuni suoi legionari sono ritratti mentre vanno all'assalto protetti da elmi con cresta frigia.
    Lucio – Dobbiamo.
    Pomponio – Ma non soltanto gli Scipioni, a quanto pare, si incaricarono d'istituire cerimonie per la Dea tornata dalla Frigia; se è vero che, sia la nobiltà patrizia come i Valeri e i Sulpici, sia quella plebea come i Cecili, onorano la Magna Mater con ludi speciali ogni anno nel mese di aprile. Sono i Ludi Megalenses tramandatici dai padri, “massimamente casti, solenni e religiosi”, come li definisce Cicerone, durante i quali sediamo a banchetto fra noi. E a che pro, Lucio?
    Lucio – Per rinnovare il patto originario delle genti discese da Troia, dagli Eneadi possenti nel grido di guerra.
    Pomponio – E' in effetti la vitae coniunctio che abbiamo in vista, nei nostri convivi, cioè il vincolo di sangue e spirito fra gentili romani consacrato dal ricongiungimento col Pantheon nostro. Giacché non ti sfuggirà questo, Lucio: Cibele a malincuore lasciò che Enea prendesse il mare senza di lei, coi soli legni ricavati dai suoi pini del monte Ida. Dunque buono, fausto, felice e fortunato è il giorno del suo ritorno nell'Urbe, allorché i sacra troiani vennero completamente ripristinati. Dea materna e fonte di vittoria, Cibele si manifesta nel momento della suprema necessità.
    Lucio – Non mi sfugge, Pomponio. Al punto che ricordo essere stata lei a sorreggere l'ultima resistenza nostra, quando la turba degli atei colpì al cuore la Patria. Vettio Agorio Pretestato, Quinto Aurelio Simmaco e Virio Nicomaco Flaviano furono all'epoca gli ultimi, rimarchevoli cultori della Magna Mater a vigilare sui destini di Roma.
    Pomponio – I migliori, non gli ultimi. Come non fu e non sarà ultimo il cozzar d'armi visibile alla fine del secolo Quarto nell'èra volgare, quando soltanto il tradimento impedì che l'ordine fosse ristabilito attraverso il sigillo di Cibele giunto da Roma a Mediolanum. Né si potrà mai dire che gli iniziati e le iniziate al mistero della Dea nelle latebre del Phrigianum, col sacrificio purificante del toro e dell'ariete, abbiano smesso di sostenerci. Ma su ciò è già abbastanza. Ascolta, piuttosto, Lucio, cosa dice la tradizione nostra della Magna Mater: “Delle Matriarche prische il culto morto/ Risorger feron pria in Fauna, in Senta…/ E a Fatua, ed Opi venne Culto porto…”. E ancora: “Le Pizie, le Minerve, le Camene,/ Le Veste, le Cibele, e Palla, ed Isi./ Eran le Saghe potestà Serene…”. Ecco, Lucio, in lingua non volgare, l'essenza di quel che Macrobio ci insegna sulla Grande Madre nostra. Ricordalo tu, se ne sei in grado.
    Lucio – Proverò: “Taluni asseriscono, e con loro si trova d'accordo Cornelio Labeone, che Maia a cui si sacrifica nel mese di maggio è la terra, così denominata per la sua ‘magnitudine', cioè grandezza, allo stesso modo che nei sacrifici viene invocata come Madre Magna… Secondo Cornelio Labeone a questa Maia, cioè alla terra, fu dedicato un tempio alle calende di maggio sotto il nome di Buona Dea e, a quanto egli afferma, il rito più arcano delle cerimonie sacre permette di dimostrare l'identità tra la Buona Dea e la terra. Questa nei libri dei pontefici è indicata con i nomi di Bona e Fauna, di Ope e Fatua”.
    Pomponio – Bene, Lucio. Ora fa' in te silenzio e ascolta. Cibele è Mater coelestis poiché a lei appartiene la generazione degli Dèi intellettuali e demiurgici che governano gli Dèi visibili. Ma Cibele è anche Bona Dea poiché, attraverso il sacrificio del suo amante solare Attis, propizia l'arresto della spinta alla generazione illimitata che altrimenti sarebbe fonte di disordine – anche da qui il divieto ai maschi di presenziare al rito di Bona Dea, a meno di voler diventare empi eunuchi e dunque non più Romani. Ma Cibele è anche Ops-Consiva, moglie italica di Saturno i cui riti Dardano e Iasio condussero con sé da Corito a Samo di Tracia e a Troia, durante la migrazione delle alte cicogne: i Pelasgi. Ma Cibele è anche colei che come Ilia Rhea Silvia, Troica et Dardana Sakerdos, sacerdotessa dardanide d'Ilio e abitante delle vette albane, riceve il fuoco fallico marziale e diventa genitrice romana di Romolo e Remo. E Cibele è infine colei che come Lupa/Fauna nutre i Gemelli nel Lupercale e come Acca Larentia, Essenza dei Lari domestici, dà loro ospitalità intorno al focolare di Vesta posto al centro della capanna circolare disegnata secondo le misure del cielo stellato.
    Sicché, Lucio, ora comprenderai che Cibele è Roma. Comprenderai perché a lei, Matri Deum Magnae Idaeae, dobbiamo rivolgere queste parole dell'Inno composto da Flavio Claudio Giuliano imperatore: “O tu che per gli Dèi intellettuali sei principio di tutti i beni e riempi di tutte le cose il mondo sensibile e a noi fai grazia di ogni bene in tutte le cose: dà a tutti gli uomini felicità, il cui fondamento è la conoscenza degli Dèi; dà in comune al popolo dei Romani sopra tutto di allontanare da sé la peste dell'empietà”.
    Lucio – Così è.
    Pomponio – Così è. Ma vedo, Lucio, che la Notte ha già steso sul Palatino il proprio manto. Presto la seguirà il sonno che tutto doma, tranne l'anima in cui queste nostre parole si sono impresse. Ti saluto, mio Lucio. Vale felikissime.
    Lucio – Vale.