Analisi di Lodovico Festa
Dietro la pace tra il Cav. e Tremonti
Le tensioni tra Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti non nascono solo dallo scontro di due personalità ricche di doti ma estranee a una certa cultura politica, particolarmente utile a governare in modo ordinato i confronti tra punti di vista differenti. I contrasti derivano innanzi tutto dal fatto che la legislatura richiede una nuova ripresa di iniziativa e che i margini per ripartire non sono più recuperabili all'interno del quadro esistente.
Le tensioni tra Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti non nascono solo dallo scontro di due personalità ricche di doti ma estranee a una certa cultura politica, particolarmente utile a governare in modo ordinato i confronti tra punti di vista differenti. I contrasti derivano innanzi tutto dal fatto che la legislatura richiede una nuova ripresa di iniziativa e che i margini per ripartire non sono più recuperabili all'interno del quadro esistente o facendo ricorso all'emergenza né naturalmente inventandosi soluzioni semplicistiche, alla Francesco Giavazzi per capirsi. Oggi o si imposta una strategia di riforme oppure l'impantanamento e il successivo declino sono dietro l'angolo. E la posta in gioco riguarda sia le riforme istituzionali (giustizia, forma di governo, assetti delle assemblee legislative) sia le questioni più direttamente connesse all'economia (dal fisco, al federalismo, al mezzogiorno).
Ora, si sa come le grandi riforme siano sempre difficili, e particolarmente nella nostra sbalestrata Italia: così ci insegnano le esperienze del centrosinistra negli anni Sessanta, dei governi di solidarietà nazionale negli anni Settanta, della grande iniziativa craxiana negli anni Ottanta. Si richiede, innanzi tutto, saper collegare strategie e consenso attraverso quella sofisticata arte che è la politica. Ben sapendo che la politica può anche ridursi a puro gioco di nomenclature: come avvenne, ad esempio, nella Gran Bretagna degli anni Settanta salvata all'ultimo momento solo da Margaret Thatcher, e come succede al nostro attuale, estenuato centrosinistra, post sinistra Dc e post Pci. La politica è vitale, infatti, solo se dà forma a forze reali della società e consente a queste di esercitare una funzione nazionale.
La forza di Silvio Berlusconi e di Umberto Bossi, quella che li ha resi invincibili contro il blocco di nomenclature a sinistra a suo tempo perfettamente simbolizzato dal trio Romano Prodi-Guglielmo Epifani-Luca Cordero di Montezemolo (con Csm di supporto), sta proprio nell'esprimere, praticamente senza quasi mediazioni, settori fondamentali del nostro paese. Di converso il limite di questi due leader è che questi settori li incarnano nel loro essere in sé, senza metabolizzarli in una più compiuta elaborazione che riesca a rappresentarli per sé, conferendo dignità di strategia e visione nazionali.
Come spiega con efficacia Giuseppe De Rita, Berlusconi ha trasmesso il messaggio alla società italiana di sentirsi libera di essere se stessa. E questo approccio gli ha consentito di esercitare la sua quasi indomabile – anche se non sempre irreprensibile – energia, forse e prevalentemente efficace su obiettivi di breve periodo ma anche in grado di disarticolare quella sentina di tutte le chiusure che era l'establishment nazionale, con annesse nomenclature di sinistra. Mostrando, però, al contempo, consistenti problemi nella costruzione di un nuovo e compiuto assetto istituzionale. Simili sono i limiti di Bossi, che grazie alla leadership personale riesce a mettere insieme un perfetto sindacato del territorio ma non una forza politica con visione nazionale, dimensione che paradossalmente sarebbe necessaria (sulla misura di una nazione padana) anche per organizzare una eventuale secessione del nord. Le qualità politiche di Gianfranco Fini, dalla sua, non sono molto diverse da quelle del resto del ceto politico autoreferenziale di centro (vedi Pier Ferdinando Casini) o di centrosinistra di cui si è detto: il suo gioco è dentro le nomenclature, non radicato in tendenze nazionali vitali. Assume più peso solo quando si ricompatta con Bossi e Berlusconi (o con uno dei due), e riesce quindi ad agire sinergicamente con le forze sociali che questi rappresentano.
Giulio Tremonti è, invece, l'unico che ha cercato di dare una cultura politica al blocco sociale di cui Berlusconi e Bossi sono espressione, farlo diventare da in sé a per sé: sviluppando i concetti di comunità e federalismo, recuperando un governo del bilancio dello stato e strappandolo al suk delle finanziare consociative inaugurate negli anni Settanta (non affrontando però il nodo del ruolo da check and balance che dovrebbe avere un Parlamento), dando un'idea di sviluppo autocentrato per il sud, ragionando sul rapporto tra tradizione e innovazione, definendo uno spazio per l'Italia in Europa e dell'Europa nel mondo, e infine contrastando la matrice di tutte le nomenclature e gruppi oligarchici (italiani e globali) costituita dalle grandi banche irresponsabili che, da noi, poi, via grande stampa, si collegano anche a un'altra oligarchia irresponsabile come la magistratura italiana.
Questo capolavoro politico è stato però limitato da una personalità notevolmente antipolitica, che mastica poco il pane di quest'arte (il consenso) e il suo companatico (le alleanze). Certo, la questione non può essere ridotta solo ai contrasti personali. E, comunque, quel che la situazione generale richiederebbe al centrodestra è un salto complessivo nella capacità di far politica. Per compierlo la via maestra, in una società libera e aperta, è, innanzi tutto, quella democratica, pur con tutti i rischi di frammentazione che sinora i vari (omologhi) leaderismi nel centrodestra (quello berlusconiano, quello finiano, quello bossiano) hanno assorbito. Magari si potrebbe cominciare dal basso. La qualità politica migliorerebbe se a Milano, in Veneto, in Campania, nel Lazio, chi corre per ruoli di governo, fosse scelto dagli elettori del centrodestra e non da cenacoli ristretti. Così si formerebbe una classe dirigente capace non solo di movimentismo ma anche di lunghe e faticose campagne strategiche.
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