Karadzic domani sarà davanti al Tribunale penale internazionale dell'Aja

Storia in controluce dell'uomo che terrorizzò Belgrado

Toni Capuozzo

Si può scrivere di Radovan Karadzic senza andare a finire, sempre, nella banalità del male? Credo di sì, anche se gli elementi che spingerebbero a farlo sono molti: era un mediocre poeta, mediocre quanto lo era nella pittura l'imbianchino d'Austria. E' stato catturato su un autobus, deludente primula rossa, deludente come un Totò Riina nel suo casolare dimesso.

    Si può scrivere di Radovan Karadzic senza andare a finire, sempre, nella banalità del male? Credo di sì, anche se gli elementi che spingerebbero a farlo sono molti: era un mediocre poeta, mediocre quanto lo era nella pittura l'imbianchino d'Austria. E' stato catturato su un autobus, deludente primula rossa, deludente come un Totò Riina nel suo casolare dimesso. Ha storie di famiglia da copione di sitcom: la madre Jovanka che lo invita a tener duro nella latitanza, a resistere. La moglie Liljana che lo esorta ad arrendersi, a consegnarsi. Eppure, a ben guardare, il suo percorso è tutt'altro che banale. Nel villaggio montenergrino in cui è nato nel 1945 trascorre i primi anni quasi orfano: il padre in carcere, nella Jugoslavia titoista, per aver combattuto tra le fila dei cetnici di Draza Mihailovic, e la data di nascita fa presumere un concepimento da riposo del guerriero. A quindici anni si trasferisce a Sarajevo, e scegli di studiare psichiatria. Come poeta resterà sempre di un intimismo troppo roboante per non risultare adolescenziale, ma come professione ha scelto bene. La Jugoslavia, come insegnano anche ai meno esperti i film di Kusturica, è un crocevia di follie solitarie e collettive, e la guerra civile raccolse tutti i rivoli di queste predisposizioni dando loro la forma razionale di un conflitto.

    Ricordo come fosse ora la visita al manicomio di Padzaric
    , nella valle a una trentina di chilometri da Sarajevo, dove erano stati raccolti i matti. Erano, in un certo senso i più fortunati, perché erano riusciti a sfuggire per pochi giorni alla chiusura dei sigilli dell'assedio. Ma li assistevano solo due o tre infermieri, il cibo scarseggiava, i morti venivano sepolti in un angolo a ridosso del recinto, e l'eco delle esplosioni arrivava come una folata di vento facendo ridere o urlare degenti abbandonati a se stessi e minori ingabbiati nei loro letti. Era un'isola di demenza innocente, mentre il resto delle paure, delle fobie, delle follie era libero di agire, fuori, e faceva l'agenda politico-militare del giorno. In quel tempo Radovan Karadzic mise a frutto nel modo più sapiente le sue conoscenze: sapeva come accarezzare le ferite, come risvegliare gli istinti. Noi, a Sarajevo, si andava a vedere la casa in cui aveva abitato, il modesto appartamento affacciato su un parco ogni giorno più privo di alberi, la targhetta con il suo nome e cognome che nessuno aveva rimosso. Lui stava nel nido d'aquila di Pale. Non era facile incontrarlo, ma bastava fermarsi qualche ora al centro stampa della sua repubblichetta feroce e montanara per imbattersi in sua figlia, che sembrava sempre uscita da una discoteca di terz'ordine, la mole bionda e bianca fasciata di velluti e trasparenze nere.

    L'entourage sembrava inadeguato, ma a lui il ruolo di stratega politico dell'assedio calzava a pennello: guardava con il binocolo, dall'alto in basso, la città in cui era stato un immigrato, il circolo degli scrittori in cui aveva goduto scarsa considerazione, l'ospedale sulla collina di Kossevo in cui non aveva fatto carriera ma che adesso contribuiva a riempire di morenti: non avrebbe, forse, vinto la guerra, ma la sua rivincita se l'era presa tutta. E c'è una qualche grandezza anche nel dopo, di Karadzic. Uno se lo immaginava in riunioni carbonare di reduci e grappa, canti di guerra e aquile bicefale, oppure negli abiti dal colore indefinibile e dalle stazzonature certe di qualche ufficio belgradese. E invece no: per quanti sospetti siano stati sollevati sull'autenticità di quella vita da Dragan Babic, medico alternativo (ma può un travestimento essere o non essere autentico ?), era una seconda vita perfetta. Il macellaio dei Balcani che si aggira come un guru meditabondo, la criniera del leone di guerra che si trasforma in un cespuglio candido raccolto in conocchia, come un hippie senza fine, addio grappa viva le tisane, e invece dei manigoldi in mimetica che raccolgono l'invito a sgozzare per non essere sgozzati, platee compunte con il profumo dolce di medicine senza chimica e il cielo innocente di congiunzioni astrali: formidabile. Ma insomma, banale o no, adesso è sotto processo.

    Non mi serve ricordare a me stesso quei profughi che vedevo giungere a Tuzla da Srebrenica, quei camion carichi di donne e bambini, e uomini non ce n'erano. Non mi serve ricordare a me stesso i racconti tra l'erba alta del campo d'aviazione, quando il massacro era ancora solo un sussurro, né ricordare l'odore di quel magazzino, anni dopo, in cui venne compiuto il più gigantesco esame del Dna della storia, centinaia di sacchi di morte e centinaia di provette per ricongiungere vivi e morti, non mi serve per dire che era ora, di processarlo.
    Ma mantengo intatte le mie riserve sul sogno di una giustizia che sia nello stesso tempo punitiva, ammonitrice, e squadra di un mondo ordinato. Si difenderà, Karadzic, raccontando le complicità internazionali? Bastava guardare i caschi blu olandesi per saperlo, o basta guardare come perfino il dittatore di Khartoum, oggi, diventi un interlocutore. Si difenderà raccontando le ingiustizie patite?

    Basta ricordare che nessuno processerà noi per aver bombardato la televisione o l'ambasciata cinese di Belgrado o il treno nelle gole di Surdulica, o sparso bombe a grappolo a Nis, o centrato un convoglio di profughi in Kossovo: siamo dalla parte dei vincitori, nessun processo. Sono i limiti della giustizia, che non è mai fine e principio di tutto, e il vero rischio non sono giudici comunisti o socialdemocratici. Il rischio è questa assunzione di un ruolo palingenetico, questa presunzione di essere riscattatori e ordinatori del mondo, attributori unici del bene e del male, e dunque superiori a ogni zona grigia, a ogni sfumatura, categorici e manichei. Si accontentassero di essere un cerotto o un placebo, una modesta riforma delle cose, uno direbbe più volentieri a Radovan Karadzic di accomodarsi alla sbarra, di fare il suo teatro mediocre, e dare un po' di tardiva soddisfazione alle donne in nero di Srebrenica.