“Se invece che scrivere libri componesse musica, sarebbe il primo vero compositore postmoderno. un artista per cui questo termine così abusato potrebbe avere un senso”
E' lui il rosenkavalier
Per capire il rapporto di Alberto Arbasino con la musica e “soprattutto con il teatro musicale – dice al Foglio il grande critico Mario Bortolotto – bisogna andare alle prime pagine dell'‘Anonimo lombardo'”. Sono quelle in cui il protagonista racconta all'amico Emilio il coup de foudre per “un Giovin di capelli nerissimi e largo di spalle”, intravisto alla Scala alla prima della “Medea” di Cherubini, con la Callas diretta da Bernstein (correva l'anno 1953).
Per capire il rapporto di Alberto Arbasino con la musica e “soprattutto con il teatro musicale – dice al Foglio il grande critico Mario Bortolotto – bisogna andare alle prime pagine dell'‘Anonimo lombardo'”. Sono quelle in cui il protagonista racconta all'amico Emilio il coup de foudre per “un Giovin di capelli nerissimi e largo di spalle”, intravisto alla Scala alla prima della “Medea” di Cherubini, con la Callas diretta da Bernstein (correva l'anno 1953). E' già chiaro, dice Bortolotto, “che quel Giovin ci sta, e che sarebbe subito disposto a passare alle vie di fatto. Ma l'Anonimo, pur tentato, non può assolutamente perdersi la Callas, per niente e nessuno al mondo. Lui è lì soprattutto per lei, e non si muove dal teatro prima della fine”. Se non bastasse, ecco la nota 14 al testo del racconto: “E quel coro di Argonauti mi piaceva da matti, me lo sono subito imparato per inserirlo tra le melodrammatiche marce che mi fanno morire”.
Nell'“Anonimo”, insomma, c'è una dichiarazione di vero amore intellettual-carnale per il mondo dell'opera, che si esprime – come lo stesso Arbasino spiega nella Cronologia all'inizio del primo volume del Meridiano Mondadori che raccoglie i suoi romanzi e i suoi racconti – attraverso “il revival epocale del gusto per l'opera lirica, e dei suoi libretti allora disprezzatissimi, come se non avessero fornito un repertorio di citazioni appropriate in ogni situazione per la nostra cultura borghese ottocentesca: con la stessa funzione del Romanzo e della Poesia nelle altre società europee”.
Nessun dubbio, allora, sul fatto che “è il melodramma – dice Bortolotto – la grande passione estetica e caratteriologica di Arbasino. Per lui quella passione è anche un alibi, perché si applica alla cosa più lontana possibile dal mondo in cui viviamo. Il melodramma è ‘reazionario' nel senso più totale. In un senso che vuole sfuggire a tutti i vincoli, i fastidi, le beghe che infestano il mondo contemporaneo, e ti consente di rifugiarti nel castello incantato nel quale sei anche il primo castellano. La lingua in cui sono scritti i libretti d'opera è sempre stata lontana dalla realtà. Nessuno ha mai parlato la lingua dell'‘Ernani' o della ‘Norma'. Il Conte di Luna, nel ‘Trovatore', a un certo punto dice: ‘Ah, l'amor l'amore ond'ardo'. Nessuno capiva, e così, nella traduzione popolare, è diventato l'‘amore è un dardo'. Si cantavano le arie così come si recitavano le giaculatorie in latino, con la stessa inconsapevolezza e la stessa partecipazione. Tutto questo piace infinitamente ad Arbasino. Gli piace il melodramma come forma di realismo magico: si narrano cose possibili e, a un certo punto, con una specie di giro di vite, si entra in una dimensione incantata”. Non a caso, tra tutte le affinità letterarie possibili che riguardano Arbasino, Bortolotto nota “quella con Ariosto, ‘le donne, i cavalier, l'armi e gli amori': soprattutto cavalieri e amori, in Arbasino, se ne trovano fin che se ne vuole”.
Bortolotto si rammarica di non aver visto i due allestimenti di opere liriche messi in scena da Arbasino: la “Traviata”, nel marzo del 1966, al Cairo (“in piena età Nasser e in assoluta economia”, racconterà Arbasino) e la “Carmen” di Bizet al Comunale di Bologna, nel 1967. Si favoleggia ancora di quando Arbasino, “nella ‘Carmen', fece indossare al torero Escamillo una maglietta con una E, come fosse stato uno sportivo di oggi. Doveva essere molto divertente”. E se Bortolotto dovesse rintracciare una parentela arbasiniana con un musicista in particolare? Se Arbasino fosse un compositore, insomma, che tipo di compositore sarebbe? Bortolotto risponde che “sarebbe la soluzione a molti problemi aperti che temo siano destinati a rimanere tali. Vale a dire che sarebbe il musicista rappresentativo di almeno una generazione. Nel tempo che va dalle ‘Piccole vacanze' a oggi, non è emerso nelle lettere nessuno di lontanamente paragonabile a lui. Arbasino, che pure con tanta frequenza si occupa di teatro musicale, non potrebbe certo scrivere come Bellini, come Verdi o come Donizetti. In lui è fondamentale, secondo me, la presenza di Stravinskij. Vale a dire un compositore estremamente brillante e divertente, anche quando scrive composizioni sacre o di rimpianto per la vecchia Russia. Mancherebbe invece, in Arbasino, la parte elegiaca di Stravinskij, ogni tanto affiorante in questo esule che, dopo la rivoluzione, aveva capito che in Russia non sarebbe mai più tornato. Mentre ci sarebbe la capacità di inglobare qualsiasi dato la musica abbia offerto fino a oggi e di trasformarlo, riportandolo a una prospettiva completamente diversa”.
Un Arbasino compositore, prosegue, Bortolotto, “confermerebbe la totale mancanza di impegno, grazie al cielo. E, nonostante tanto melodramma e tanto Spoleto, in lui non ci sarebbe niente di particolarmente italiano. Penso a uno dei personaggi di ‘Fratelli d'Italia', Klaus, un compositore. Il quale deve qualcosa al vero compositore Hans Werner Henze, che da sempre abita in Italia – ora ha più di ottant'anni – prima a Ischia e ora a Marino, e che ha scritto anche cinque lieder napoletani, ‘Fünf neapolitanische lieder'. Arbasino non scriverebbe certo cose popolari ma piuttosto maliziose e sfottenti. Sarebbe il compositore che vorremmo esistesse e che non c'è. Qualcuno che è passato vicino all'espressionismo tedesco, a Schönberg e ai suoi allievi, con rispetto ma stabilendo anche una distanza senza limiti. Se fosse un compositore, insomma, Arbasino sarebbe il primo vero compositore postmoderno, il primo per cui questo termine così abusato potrebbe avere un senso”. Per Bortolotto, infatti, “di postmoderni in giro non se ne vedono. C'è solo il più triste ‘modernoso'. Il vero postmoderno dovrebbe aver imparato, assimilato e inglobato tutto, per diventare altro rispetto al già noto”. Si capisce, allora, l'entusiasmo di Arbasino per “L'angelo di fuoco” di Prokoviev, alla cui prima mondiale (alla Fenice di Venezia, il 14 settembre del 1955) lo scrittore assistette, nelle sue “vacanze post-laurea”, come lui stesso rievoca nella Cronologia del Meridiano. Spiega Bortolotto che Prokoviev “prende per il bavero le figure magiche del racconto di fate russo e le trasforma in tutt'altra cosa: in suore prese da raptus erotico che ululano sul palcoscenico, per esempio. Arbasino si sarà divertito moltissimo, e magari le avrà paragonate a quelle monache che lui dice cattivissime, e che affollano la sua famiglia, sia nel ramo paterno sia in quello materno”. Un Arbasino compositore userebbe poi “tutti gli strumenti oggi a disposizione di un'orchestra, ne aggiungerebbe probabilmente altri e agirebbe in piena libertà. Come hanno tentato di fare, a volte meravigliosamente, musicisti come Richard Strauss, molto amato da Arbasino. Nel ‘Rosenkavalier', per esempio, siamo in una Vienna settecentesca. Eppure Strauss immette nell'orchestra vampe di valzer, cioè un tempo musicale che nella realtà sarebbe arrivato un secolo dopo l'epoca del racconto. Arbasino potrebbe fare la stessa cosa, se fosse compositore. La fa, da scrittore, portandoci a spasso attraverso diversi tempi ed epoche nelle stesse pagine. Avrebbe continuamente riscritto e aggiunto, e non si sarebbe negato nessuno strumento esotico”.
Inaudita freschezza, tono generale rallegrante: “Chi si è mai avvilito al mondo leggendo Arbasino?”. Per questo, continua Bortolotto, “se dovessi dire qual è il tempo musicale prevalente in Arbasino, direi che bisogna contemplare tutte le danze possibili. Tempo di valzer, tempo di minuetto, rondò: ogni forma ciclica, che torna sempre sui suoi passi, è una forma arbasiniana. Come Ravel, Arbasino può parlare del Madagascar come della monarchia francese, come delle danze medioevali. Non si tratta di copiare ma di rivivere, e Arbasino è capace di farlo, di trasformare e trasfigurare”. Si capisce anche così la predilezione per Richard Strauss, “perché lì c'è il glorioso passato”. E si condivide la voluttà con cui Arbasino, in “Marescialle e libertini”, stronca gli stroncatori del ‘Rosenkavalier'. I quali, scrive, “si sputtanano con ‘pietas' non disgiunta da ‘horror', man mano che quelle stronzate storiche e ridicole si riesumano nelle imprudenti sillogi postume”.
Bortolotto dice che proprio il ‘Rosenkavalier' è l'opera che più gli sarebbe piaciuto vedere e commentare con Arbasino in prima mondiale (avvenuta nel 1911, a Dresda, troppo presto per entrambi): “Quando entra in scena il protagonista, Octavian, una specie di arcangelo con la sua rosa d'argento in mano – il ruolo è interpretato sempre da una donna, un contralto – non si può fare a meno di pensare: ecco il giovane Arbasino”.
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