Con un gol al 90' ha portato l'Inter in testa al girone di Champions
Sneijder, il nuovo Matthäus
Wesley Sneijder è il prossimo Matthäus. Si vede da come si muove, da dove gioca, da come calcia. Fa meno gol e più assist, ha un po' meno potenza e un po' più stile. Il numero, la maglia, lo stadio. E' mancato ieri, mancava prima: è il giocatore che non t'aspetti, un trequartista anomalo, mezza ala e mezzo mezzapunta. Dicono servisse e serve.
Wesley Sneijder è il prossimo Matthäus. Si vede da come si muove, da dove gioca, da come calcia. Fa meno gol e più assist, ha un po' meno potenza e un po' più stile. Il numero, la maglia, lo stadio. E' mancato ieri, mancava prima: è il giocatore che non t'aspetti, un trequartista anomalo, mezza ala e mezzo mezzapunta. Dicono servisse e serve. L'Inter c'ha provato per vent'anni a trovare il nuovo Lothar: è passata da uno troppo attaccante come Djorkaeff, a uno troppo centrocampista come Farinos, a uno troppo leggero come Emre, a uno troppo pesante come Dalmat, a uno troppo inutile come Vampeta. Vent'anni per trovarlo e scoprire che c'era, che c'è. Diverso e uguale. Potente, tecnico, intelligente, tattico. Costruito calciatore. Perché Sneijder non è quello cresciuto nei cortili a ubriacarsi di talento: l'hanno messo su un campo e l'hanno creato. Serviva uno che giocasse tra il centrocampo e l'attacco: l'hanno impostato trequartista. E' una creatività telecomandata, una stoffa confezionata: libero, ma impostato come un computer.
E' il paradigma della modernità: uno che sa che o hai il tocco di Maradona, il cervello di Pirlo, l'eleganza di Baggio, oppure devi essere un numero dieci diverso. Allora non s'incaponisce nella raffinatezza, non si intestardisce nell'ossessione della giocata: è una fantasia semplice, ordinata, efficace. E' il nord pragmatico contro il sud brillante: forte, produttivo, utile. Wesley sarebbe diventato uno sportivo di alto livello in qualunque disciplina: però la natura gli ha dato un baricentro basso, le gambe meglio delle braccia, allora è diventato calciatore. Il padre l'ha messo su un campo di pallone a imparare a diventare un campione. Perché va bene il talento, va bene il genio, ma la modernità chiede altro, chiede di più, chiede tutto. Tuta, scarpe, borsone, divisa: nella vita di Sneijder non c'è l'irrazionalità del calcio con i pali fatti con gli zaini di scuola. C'è un'educazione sportiva, ci sono gli allenatori, gli insegnanti, i tecnici, la teoria, le ripetute, i gradoni delle tribune. C'è la preparazione. Prendi le punizioni. Ad Amsterdam dicono tutti così: “Ogni tecnico delle giovanili dell'Ajax gli ha dato qualcosa, ma so per certo che il salto di qualità l'ha fatto fermandosi con Pierre van Hooijdonk dopo ogni allenamento in Nazionale. Può calciare in ogni modo”.
Allora Lothar torna sempre: la maglia che è la stessa e il ruolo snaturato che è simile. Poi il privato, scatenato da quella mezza frase che ha detto qualche tempo fa, quando gli fecero i complimenti per alcune partite: “Può essere che giochi meglio perché ora non esco più così tanto la notte”. Quindi usciva troppo, quindi la discoteca, quindi le donne. Briscola con Matthäus, che alla fine della sua carriera da calciatore e a metà di quella da allenatore è stato raccontato solo come playboy. Due anni fa l'ultima volta, quando fu fotografato con Kristina Liliana, morettona ucraina che morde con uno sguardo, modella di stanza a Monaco, 1.800 euro a ingaggio prima di far lievitare vorticosamente le quotazioni grazie al flirt con Lothar. Lei 20 anni e ancora a casa della mamma, lui 46 e tre mogli alle spalle. Ai tempi interisti raccontava di supersoniche corse in auto fra Milano e Monaco. Allenamento, eppoi subito in auto. “Tutto a 200 all'ora, solo una curva a 150 vicino a Bergamo”, diceva. E la mattina dopo si ripresentava: percorso inverso, ma stesso ritmo.
Realtà? Leggenda? Di tutto un po', come ha scritto Riccardo Signori qualche tempo fa: “Matthäus ha corso tanto in campo, ma molto di più dietro le donne. Ha resistito undici anni con Silvia, la prima moglie, bionda appariscente da cui ha avuto Alisa e Viola. Poi, quando stava a Milano e dintorni ed era ancora sposato, è impazzito per Lolita Moreno: bruna, devastante nella sensualità. Non c'è voluto molto per mollare la moglie e risposarsi. E' nato Loris. Ma nel 1999 il fuoco si è spento. Lothar ha cominciato la carriera d'allenatore girovago. Approdo a Belgrado e terzo matrimonio: solo quattro mesi per conoscersi con la bionda Marijana Kostic. Hanno vissuto a Budapest dove Lothar ha allenato la Nazionale ungherese e lei ha aperto una boutique. Poi lui è partito, lei è rimasta, il matrimonio si è sciolto solo quattro mesi fa. E ora Matthäus gira mano nella mano con Liliana, che ha l'età di sua figlia. Però continua a sfogliar donne. Come fosse ancora calciatore, quando litigava con tutti, faceva l'amore sempre. Ma prima di entrare in campo, si raccomandava: ‘Ragazzi, se mi seguite vinciamo'. E vinceva”.
Wesley studia per questo. Non per le donne, per il pallone. Lui dicono sia più morigerato, più controllato. C'è la storia del divorzio, però. “Non leggo le pagine degli spettacoli, a volte mi sono arrabbiato per qualcosa che è stato scritto, ma ora mi sento profondamente felice. E se ripenso al periodo di sofferenza familiare che ho passato mi sembra incredibile: quando stai male non ti importa molto del football e poi ti guardi indietro e pensi che è pazzesco che tu ti sia sentito così. Perché io amo intensamente il calcio e sono venuto a Milano per giocare. Se sto bene posso fare anche dieci partite al giorno. E ho capito che per l'Inter non sarò uno qualunque”. Allora il campo, adesso. Kiev è stata difficile, il resto meno perché ci sarà lui e lui quando c'è fa la differenza. Contro l'Udinese, in campionato, l'ha dimostrato: ultimo minuto, gol decisivo, in mezzo a una furia di cosce, gambe, caviglie; in uno spazio infinitamente piccolo per farci passare un pallone. L'ha messa e ha fatto crollare San Siro. Leader, forse perché era il giocatore che mancava nell'assetto dell'Inter. Leader, forse perché la natura glielo impone. Leader, forse perché lo è sempre stato. Nelle giovanili dell'Ajax è stato capitano praticamente in ogni categoria.
A Milano se ne sono accorti il primo giorno, all'esordio. “Mi sono sentito molto a mio agio perché mi sento bene nel sistema di gioco. Adoro giocare da dieci, è la mia posizione naturale. Poi, ho un allenatore che mi ha voluto e una squadra più forte di quella che avevo. Il Real forse ci batte a livello di qualità individuale, ma noi siamo più squadra”. Il bacio della maglia, prima del derby contro il Milan. Una cosa in stile Ibra, una cosa strana, una cosa forte, magari sbagliata oppure no. “E' un gesto naturale per me, non volevo ingraziarmi nessuno. Infatti l'ho fatto nel tunnel, non davanti a tutto lo stadio. Io con l'Inter? Ho fatto una scelta per il futuro. Ho scelto l'Inter perché posso sentirmi protagonista. A Madrid ero uno dei tanti. Mi hanno trattato come un ragazzino. Dicono che abbia messo tanto tempo per decidermi. Non è vero, è successo tutto in due settimane. Volevo essere sicuro al cento per cento di quello che facevo e due settimane non mi sembrano un tempo lungo per avere certezze. Mourinho mi ha mandato molti messaggi significativi, mi ha detto che voleva costruire l'Inter intorno a me. Ho l'impressione che a Madrid l'allenatore non abbia una grande influenza. Il Real è un mondo a parte: per loro i soldi non sono mai stati un problema e trattano la gente senza molto rispetto. Ma io sono fiero di aver fatto parte della storia del Real Madrid. Vorrei incontrarli in Champions League, mi piacerebbe batterli, però il mio spirito è positivo. Quando sono arrivato a Milano ho provato a trasformare subito la mia rabbia in energia per la mia nuova squadra. Ed è andata bene. So che in Italia si lavora in un altro modo, ma ogni paese è differente, saprò adattarmi”.
S'è adattato. Il Real non era cosa per lui. Troppi fighetti, ha fatto capire. Troppo potere in mano ai due vecchi Raul e Guti. Lui non è andato d'accordo soprattutto col primo, a quanto sembra. Perché sono due filosofie opposte. Sneijder è stato abituato a vincere, mentre Raul ha vissuto una vita da vincente sfortunato. Quello che un paese intero adora, ma poi discute sempre. E' un capro espiatorio quando si perde e non sempre il trionfatore quando si vince. E' anche uno dei migliori del pianeta, ma mai il migliore. Neanche nel Real Madrid. Qui sta la lite, perché lo scherzo che gli tira il destino è brutto assai. Raul deve inseguire se stesso e insieme rincorrere gli altri. Raul è il Real, ma non ne è mai stato la stella più galattica, è l'inamovibile, l'unico spagnolo serio di una multinazionale, l'unico che non si può vendere. Però mai una volta nella carriera il Real è stato suo. Non ha fatto in tempo. All'inizio era troppo giovane. Dopo è arrivato di corsa il futuro: Roberto Carlos, poi Figo, poi Ronaldo, poi Zidane, poi Beckham. Uno ogni anno: un astro sempre più ingombrante, sempre più fastidioso per lui, sempre più costoso. Raul è la stella che brilla, ma viene sempre eclissata e allora la luce si irradia dai bordi. Fioca, debole, leggera.
Con l'arrivo degli altri Galattici come Kaká, Cristiano Ronaldo e Benzema, il problema Raul è riemerso. Allora Wesley non poteva restare. Impossibile per dignità, per orgoglio e per caratteristiche tecniche. Buono per l'Inter e per la serie A. Ha preso un calciatore diverso, un campione da raccontare. Perché non parla abbastanza per raccontarci chi è. Ha un sito internet nel quale aggiorna la vita. Mette in fila i “greatest moments” della carriera, perché ai fan queste cose piacciono: 2 febbraio 2003, il debutto ufficiale con la prima squadra dell'Ajax. Il 13 aprile 2003, il primo gol con la maglia dell'Ajax nella partita di Champions League contro gli austriaci dell'AK Graz; il 30 aprile 2003 il debutto nella Nazionale olandese, il 12 agosto 2003 il primo gol in campionato contro il Nac Breda; il 4 settembre 2006, la nascita del primo figlio Jessey; il 15 agosto 2007, il debutto con la maglia del Real Madrid; il 29 agosto 2009, il debutto con la maglia dell'Inter. “Il miglior esordio che potessi aspettarmi. L'atmosfera di San Siro è incredibile e non vedo l'ora di gustarmi lo stadio tutto nerazzurro, visto che questa volta eravamo in trasferta”.
Banalità in libertà, ovvietà a ripetizione: è il campionario del calciatore perfetto, da post partita nella zona mista, o da sito personale, appunto. Non fa niente, adesso. A Wesley l'interista perdona ogni cosa, l'ascolta anche se non ha molto da dire. Frasi così: “Sono davvero felice e molto fiero della fiducia che Mourinho mi ha concesso. Prima nel volermi fortemente a Milano, poi per avermi fatto esordire in una gara così delicata. Sono contento per come ho giocato e per l'intesa che ho trovato facilmente con Eto'o. Sapevo che Samuel è un grande calciatore, ma non potevo immaginare che giocargli al fianco fosse così facile”. Il florilegio dell'ovvio non insulta il talento. Sneijder va sul sicuro, va dove ha sentito che vanno gli altri quando vogliono svicolare. Non sarà così per molto. Non lo è stato in Olanda, non lo è stato in Spagna. Per lui garantisce uno come Marco Van Basten che dopo il derby contro il Milan: “Wesley sta girando quattro volte meglio di Pirlo”. Marco è stato il Commissario tecnico dell'Olanda che ha messo Sneijder al centro del mondo.
Da Utrecht alla Nazionale, come Van Basten con venti centimetri di meno. Gli piaceva perché è anomalo. Gli piaceva perché ne parlava sempre con David Endt, il team manager dell'Ajax che ha scoperto Sneijder e l'ha portato in prima squadra. Sono andati a trovarlo per raccontare chi sia Wesley: “Il trattamento del Real Madrid lo ha ferito. Lui è uno che studia, di fatto conosceva già calcisticamente tutti i compagni. Sapeva come Eto'o e Milito vogliono ricevere il pallone. Lui ha uno stile semplice, ma efficace. E' tatticamente intelligente, molto severo con se stesso e cattivo il giusto in campo. Nell'Ajax giocava sia interno sinistro, sia esterno del tridente o trequartista, mentre al Mondiale 2006 Van Basten lo utilizzava alla Pirlo, davanti alla difesa. Wesley era un predestinato. Ricordo che nel '99 mi trovai in tribuna accanto a un osservatore del Parma durante un torneo estivo cui partecipava l'Ajax. Rimase a bocca aperta, ma forse lui come altri non si fidò perché lo vedeva troppo basso”. Non lo presero, lo lasciarono lì. A fare il piccolo Lothar sconosciuto. Lui, Van der Vaart, Heitinga e De Jong. Tutti insieme, tutti sparsi adesso. Wesley il leader, come Matthäus.
Torna sempre tutto. Il tedesco non vede l'ora di poter rimettere piede in Italia, spera in una chiamata, spera in un futuro. Deve aspettare e guardare. Lì c'è un altro numero dieci opposto allo stereotipo: tira forte e lascia perdere il resto. Ad Amsterdam nessuno s'è scordato di lui. Adesso si coccolano tutti Rodney. Ha 17 anni. E' più alto.
Il Foglio sportivo - in corpore sano