Allora togliete anche De Amicis dai programmi di scuola
Via il crocefisso dalle scuole, via finalmente l'Italia di un tempo: non solo quella del “giogo pretesco” (Croce) imposto dai Patti Lateranensi, ma anche l'Italia di don Camillo e del suo crocefisso davanti a cui persino Peppone toglie cappello. Più di un commentatore ha celebrato in questa chiave l'evento di Strasburgo, come il ritorno alla laicità risorgimentale e alla scuola “degli italiani” che ne era nata: la scuola di De Amicis, che “non prevedeva affisso alle pareti alcun simbolo religioso”.
Via il crocefisso dalle scuole, via finalmente l'Italia di un tempo: non solo quella del “giogo pretesco” (Croce) imposto dai Patti Lateranensi, ma anche l'Italia di don Camillo e del suo crocefisso davanti a cui persino Peppone toglie cappello. Più di un commentatore ha celebrato in questa chiave l'evento di Strasburgo, come il ritorno alla laicità risorgimentale e alla scuola “degli italiani” che ne era nata: la scuola di De Amicis, che “non prevedeva affisso alle pareti alcun simbolo religioso”. Il costituzionalista Michele Ainis sulla Stampa ha insistito sul punto che l'obbligo di esporre il crocefisso negli istituti pubblici risale “agli anni Venti, quando l'Italia vestiva la camicia nera”. Nient'altro che un retaggio clericofascista, dunque, tanto più che nell'Italia unitaria la scuola era libera da simboli religiosi e lo Statuto albertino, che riconosceva il cattolicesimo religione di stato, tenuto in sonno. Fino al fascismo, appunto.
Ma basta scorrere le pagine di “Cuore”, ed è tutto un incontrare suore che staccano crocefissi dalla parete per offrirli ai moribondi, e madri devote che piangono: “Ha buttato via il crocifisso! Mi muore come un disperato!”. Il simbolo cristiano è così connaturale all'ethos “civile” di cui il libro deamicisiano doveva essere l'abbecedario per le nuove generazioni che se ne incontra a ogni racconto del mese. E sulla simbologia cristiana dell'altro grande libro educativo dell'Italia unitaria, “Pinocchio” il cardinale Giacomo Biffi ha scritto pagine illuminanti. Biffi, che nel suo “Risorgimento, stato laico e identità nazionale”, cita una frase di Francesco Crispi: “Il cattolicesimo, oltre la potente e mirabile gerarchia che tiene stretti i fedeli attorno al Capo, ha, ai fini della sua missione, l'educazione, l'insegnamento, la beneficenza, l'apostolato”.
Da consuetudine a obbligo: il crocifisso nelle scuole è imposto ufficialmente soltanto con un Regio decreto del 1924, esteso nel 1928. E il riferimento è addirittura alla legge Lanza del 1857. Ma non si tratta solo della scuola “in camicia nera” adombrata da Ainis (del resto siamo in anni precedenti il Concordato). Del resto, c'era un ministro dell'Istruzione che si chiamava Giovanni Gentile, il quale già all'inizio degli anni 20 andava sostenendo (“Discorsi di religione”) che la nazione italiana aveva bisogno di religione prima che di cultura.
Molto interessante, in materia, è la ricostruzione che lo storico Sergio Luzzatto ha offerto di questa cruciale evoluzione della storia culturale italiana, consentendo di cogliere che la valorizzazione della religione nella scuola non fu solo frutto di una connivenza tra poteri forti. Scrive, in un capitolo della sua biografia di Padre Pio, che “Gentile condivise con Malaparte un'intuizione decisiva, l'idea che il ‘cattolicesimo reale' andasse riconosciuto come la religione ideale per gli italiani. Da qui, la scelta del ministro di introdurre l'insegnamento della dottrina cristiana in una scuola profondamente riformata”. E conclude Luzzatto: “Da qui, inoltre, la successiva disposizione relativa all'obbligo del crocefisso fra gli arredi di ogni classe”.
Dunque una presenza che attraversa la storia italiana con un continuo sconfinamento, o contaminazione, tra dimensione religiosa e civile, e che ancora oggi rende la stoffa italiana diversa da quella di altre nazioni, anche nel sentimento e nella valutazione del rapporto tra stato e chiesa. Una laicità meno dogmatica di quella scritta nelle tavole di Strasburgo. Resta evidente ancora nei decenni repubblicani, come testimonia il celebre articolo di Natalia Ginzburg sull'Unità, nel 1988, allorché la questione del crocefisso era già arrivata in tribunale, ricordato ieri anche dall'Osservatore Romano: “Il crocifisso non genera nessuna discriminazione – scrisse – a me dispiace che il crocefisso scompaia per sempre da tutte le classi. Mi sembra una perdita”.
Ma con la Ginzburg siamo già nell'epoca successiva alle modifiche apportate al Concordato con l'Accordo del 1985. Sul filo del paradosso giuridico, con quell'accordo nulla viene stabilito relativamente al crocefisso nelle scuole e, più in generale, negli uffici pubblici, lasciando invariata e affidata ad antichi “regolamenti regi” la consuetudine di far convivere nella scuola pubblica l'insegnamento laico e la presenza sul muro dietro alla cattedra del simbolo di una religione non più di stato, ma avvertita come parte integrante dell'identità nazionale. Un compromesso, forse, dal punto di vista formale. Ma ancora nel 2006 il Consiglio di stato stabilì che il crocefisso, “a parte il significato per i credenti”, rappresenta un “valore universale, indipendentemente”. Ieri sul finiano e laico il Secolo si poteva leggere che la sentenza di Strasburgo è “così lontana dal vissuto quotidiano” degli italiani da avere in sé “qualcosa di torvo e disumano”. Una minaccia culturale non disinnescabile “ope legis”.
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