Tutti gli uomini del segretario
Pier Luigi Bersani ha vinto le terze primarie organizzate dal centrosinistra per scegliersi il leader. Quelle del 2005 costituivano in realtà una sfida nell'Ulivo per la candidatura a premier, solo le altre due si sono fatte per la segreteria del Pd.
Il trionfo di Romano Prodi avvenne sotto il segno della Repubblica, a cui dopo si aggiunse con il noto endorsement il Corriere della Sera.
Pier Luigi Bersani ha vinto le terze primarie organizzate dal centrosinistra per scegliersi il leader. Quelle del 2005 costituivano in realtà una sfida nell'Ulivo per la candidatura a premier, solo le altre due si sono fatte per la segreteria del Pd.
Il trionfo di Romano Prodi avvenne sotto il segno della Repubblica, a cui dopo si aggiunse con il noto endorsement il Corriere della Sera. La vittoria di Walter Veltroni nel 2007 fu costruita in via Solferino che lo candidò in funzione antiprodiana, ma poi fu acquisita anche per la convergenza del quotidiano di Largo Fochetti. Il primato di Bersani invece poggia su due correnti politiche dotate di basi reali interne al partito: la stragrande maggioranza degli ex comunisti che si riconoscono nella leadership “naturale” di Massimo D'Alema (poi trasferita su Bersani) e i prodiani che si articolano nell'ala destra tecnocratica, rappresentata da Enrico Letta ma ben nutrita da Giovanni Bazoli, e nel filone meno dc dei militanti d'antan dell'Azione cattolica (da Rosy Bindi a Franco Monaco). Dario Franceschini e Ignazio Marino raccolgono un bel po' di voti grazie essenzialmente al partito della Repubblica, ostile a D'Alema ma in grado di muoversi politicamente solo attraverso nomenclature senza più radici (gli ex sinistra Dc, gli ex Pci antidalemiani, gli ex Cgil cofferatiani).
Seppur gestite, come nota Arturo Parisi, con stile un po' afghano – chi ha votato, ha potuto ben constatare come i “vecchi” del Pci controllassero “tutto” – le primarie del Pd dimostrano l'esistenza di una solida base per il partito di centrosinistra a cui è affidata l'alternativa a quello del centrodestra che attualmente governa – in alleanza con la Lega – l'Italia.
E' una sciocchezza dire, come fa Francesco Rutelli, che questa base politica sia quella del vecchio Pci: né in Puglia né in Calabria né in Campania i vecchi comunisti ebbero mai il seguito che ha oggi Bersani. La competizione accesa in Toscana e in Emilia mostra come non sia più solo la “vecchia base” quella costitutiva del Pd. Però è vero che la struttura del nuovo partito ha al centro due generazioni che negli anni Sessanta parteciparono a forti movimenti collettivi (studenteschi e sindacali) e che poi negli anni Settanta permisero a Enrico Berlinguer i suoi successi. E' una struttura con cui è facile allearsi – come hanno fatto Prodi, Bazoli e gli ex di Ac in questa occasione – ma difficile da “trasformare” in qualcosa di nuovo: perché le manca la dose di verità necessaria per superare il passato. Né Berlinguer né tantomeno quel demagogo di Achille Occhetto e neppure D'Alema che pure aveva i numeri per tentare l'operazione, e naturalmente neanche gli inconsistenti Piero Fassino e Walter Veltroni l'hanno fatto. L'anima del Pci come di ogni altra organizzazione cominternista era rivoluzionaria e internazionalista: la sua Gerusalemme era Mosca. La grandezza di Palmiro Togliatti fu di integrare questo dato di realtà nella concretezza italiana, ricavandone gli spazi per una crescita economica, civile e democratica ma tutta iscritta nella logica della Guerra fredda: da qui il compromesso incompiuto che è la nostra Costituzione con i suoi annessi pasticci assemblearistici nell'organizzazione del potere, la follia del ruolo dominante della corporazione in toga e così via. E' impossibile passare a una nuova fase se non ci si dice la verità. Ma si ha ancora oggi la radicata paura che dirsi la verità significhi perdere un vantaggio di posizione (tra l'altro è proprio sul mito della Costituzione perfetta che ci si allea con dossettiani come Bazoli e gli ex Ac) non sostituibile. Da qui lo stallo.
E di qui anche il paradosso che non di rado estremisti come quelli del manifesto, però non condizionati da dogmi “politici”, abbiano un approccio critico alla verità delle cose più preciso di quello degli ex realisti ex Pci: così Rossana Rossanda quando dice di non baloccarsi con scemenze sul fascismo ritornante, così Marco d'Eramo quando avverte i rischi di indulgere in pulsioni sessuofobe, così Valentino Parlato che spiega come in Italia non sia tanto in crisi la democrazia quanto lo stato.
Tutti oggi sperano molto nel buon senso di Bersani, e con qualche serio motivo. Naturalmente sarà proprio questo buon senso a spingerlo a fare cose che spiaceranno al centrodestra, sia nel corteggiamento a Pier Ferdinando Casini per cercare di difendere il centrosinistra in alcune regioni chiave, sia nel cercare un rapporto con Antonio Di Pietro e con quel che resta dei paleocomunisti, sempre per lo stesso motivo. Su queste “inevitabili scelte” si consumeranno alcune inevitabili scaramucce propagandistiche. Il problema però è se accanto alla ineliminabile politica politicante si affiancheranno anche riflessioni più sistemiche, del tipo di quelle che chiede Giorgio Napolitano. E se su queste il Pd riuscirà a ritagliarsi uno spazio rispetto ai due partiti, quello della “Repubblica” e quello del “Fatto”, che si sono già messi in movimento: il primo cercando di usare Rutelli come sua sponda nelle file di Casini (contro il quale si usano anche Bruno Tabacci, Beppe Pisanu e si chiede di emarginare l'influenza del suocero Francesco Caltagirone), l'altro tentando di organizzare l'asse del risentimento, con saldatura del giustizialismo dei frustrati a frammenti di rabbia sociale (una sorta di forca & martello). Ci vorrà abilità nel Pd per uscire vivi da manovre che hanno ampie basi nell'opinione pubblica di sinistra, ci vorranno proposte articolate che abbiano chiari gli obiettivi reali. E ci vorrà soprattutto quello spirito di verità che finora è stato largamente carente.
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