La presa di Roma

Chi comanda nella Capitale

Claudio Cerasa

E' vero che la tendenza a flirtare con la politica è sempre stata una caratteristica dell'establishment romano, ma la particolarità del progetto messo in pratica da Bettini è stata quella di riuscire a sdoganare definitivamente la parola “sinistra” all'interno dei grandi salotti. E insieme con Letta, Bettini ha fatto di questa conquista un efficace modello di gestione della città. Acquista il libro on line

    Pubblichiamo uno dei capitoli de “La Presa di Roma” (Rizzoli, 9.80 euro, in libreria dal 28 ottobre), il libro inchiesta scritto da Claudio Cerasa che – tra tassisti, post fascisti, comunisti, costruttori, imprenditori, vescovi e assessori – racconta i segreti della Capitale dagli anni di Rutelli e Veltroni a quelli di Alemanno, spiegando che cosa succede davvero quando dopo quindici anni una città come Roma d'improvviso cambia colore.

    La fotografia dei poteri che governano la Capitale è un tappeto rosso disteso ogni dodici mesi lungo i venti ettari del più famoso parco musicale romano. Quel parco – progettato da Renzo Piano, pensato da Francesco Rutelli, completato da Walter Veltroni e conquistato da Gianni Alemanno – si chiama Auditorium e dal 2006 ospita ogni ottobre una delle più importanti rassegne di cinema internazionale, perfetto punto d'osservazione per capire come è nato il patto tra i due uomini che dalla seconda metà degli anni Novanta al 2008 hanno condiviso la gestione del potere della Capitale: Goffredo Bettini e Gianni Letta. Bettini e Letta hanno sperimentato quello schema politico – una condivisione bipartisan delle principali riforme di governo, che all'inizio della quarta legislatura berlusconiana provarono a instaurare il Cavaliere e l'ex leader del Partito democratico Walter Veltroni – conosciuto come “il modello Roma”. Prima di ogni altra cosa, questo schema ha permesso al centrosinistra di trovare ampi spazi di sinergia con gran parte della classe dirigente romana (banchieri, costruttori, imprenditori, industriali, commercianti) e ha creato attorno ai governanti della Capitale un affettuoso consenso bulgaro: era la cosiddetta “pax veltroniana”.

    E' vero che la tendenza a flirtare con la politica è sempre stata una caratteristica dell'establishment romano, ma la particolarità del progetto messo in pratica da Bettini è stata quella di riuscire a sdoganare definitivamente la parola “sinistra” all'interno dei grandi salotti. E insieme con Letta, Bettini ha fatto di questa conquista un efficace modello di gestione della città. (…) Serviva una concessione? Una delibera comunale? Una variante urbanistica? Un contatto con il premier? Una partnership del Comune? Il finanziamento di un assessore? Un incontro con un ministro? L'appoggio di un politico? A tutto questo, naturalmente, ci pensavano Letta e Bettini. (…) Solitamente, Goffredo Bettini riceve i giornalisti nel soggiorno del suo piccolo appartamento romano, al piano terra di un palazzo nel cuore del quartiere Parioli, a pochi passi da piazza Ungheria. A chi lo va a trovare, la scena appare quasi sempre la stessa. L'ex senatore siede su una grossa poltrona rivestita da un tessuto sintetico di colore nocciola. Attorno a lui ci sono quattro persone: i due autisti, il fratello Luan Rexha (ex responsabile dell'agenzia Ansa da Parigi) e il collaboratore-portavoceconsigliere e amico Andrea Cappelli. Dopo aver risposto a un paio di telefonate di alcuni parlamentari (ora Walter Vitali, ora Roberto Morassut, ora Marco Follini), Bettini invita a sedere su una poltrona più piccola posizionata proprio accanto alla sua. Poi ti offre due cornetti, fa preparare un caffè e inizia a parlare. L'ex senatore è vestito con un lungo camicione di lino bianco e sprigiona un forte profumo di creme balsamiche. L'inventore del modello Roma ama i massaggi thailandesi, il thaibox e più in generale ama la Thailandia. Bettini è così famoso a Ko Sa Mui, dove si ritirava ogni agosto per riposarsi e dare nuova linfa alla pax veltroniana, che qualche anno fa il re del paese gli conferì la più alta decorazione, nominandolo “Cavaliere comandante del nobilissimo ordine del regno”. (…)

    Bettini non lo dice in modo diretto, ma il capolavoro del centrosinistra romano è stato proprio quello di aver creato un rapporto stretto con quelli che fino a poco tempo prima erano i nemici: gli imprenditori. “Noi” ha detto Bettini a Carmine Fotia nel libro Roma città futura (Manni, 2006) “non abbiamo mai avuto nel mondo imprenditoriale amici e nemici. Eppure ci poteva convenire: avere un nemico aiuta a compattare le proprie forze. L'indiziato numero uno a ricoprire il ruolo del nemico pubblico era Francesco Caltagirone. Ma sarebbe stata una scelta errata e infatti non fu compiuta. Per chi governa una città gli imprenditori sono tutti uguali finché agiscono nelle regole e aiutano la crescita. Niente nemici e niente patti oscuri”. (…) Dopo la morte di Enrico Berlinguer, Bettini diventò per quattro anni (dal 1986 al 1990) segretario comunale del Pci, e fu proprio qui che creò i presupposti per realizzare una nuova strategia di partito che prevedeva di recuperare i rapporti con l'area socialista e con le cosiddette “forze di democrazia laica e progressista” tentando di convincere i ceti moderati e borghesi della piena affidabilità politica del Pci e riorganizzando così le relazioni tra la sinistra e la borghesia laica (quella meno vicina al Vaticano). Il risultato fu che, a poco a poco, Bettini divenne il primo comunista in grado di disinnescare il richiamo dell'anticomunismo a Roma e a far registrare da parte di ampi settori dei poteri moderati una disponibilità concreta a dialogare con la sinistra. (…) Gianni Letta riceve la mattina presto in un ufficio silenzioso al primo piano di palazzo Chigi. La sua stanza si affaccia su una piazza rettangolare costruita attorno a una colonna realizzata tra il 176 e il 192 dopo Cristo per celebrare le vittorie in guerra dell'imperatore Marco Aurelio.

    All'ufficio si accede percorrendo una lunga scalinata rivestita di tappeti rossi, progettata nella seconda metà del Seicento dall'architetto Felice della Greca. Lo studio del sottosegretario si trova all'estremo opposto delle stanze in cui alloggia il presidente del Consiglio, in un'ala del palazzo eretta successivamente, nella seconda metà del Settecento, non distante dalla cosiddetta Sala verde (uno stanzone rettangolare con pareti e sedie tappezzate di verde dove periodicamente il governo riceve i rappresentanti sindacali, i presidenti delle Regioni e gli amministratori comunali). Gli ospiti attendono il sottosegretario in una delle poltroncine disposte lungo il perimetro di un immenso tavolo in legno di ciliegio collocato al centro di una spaziosa sala piastrellata di marmo. L'anticamera viene chiamata Sala delle Repubbliche dai quattro stemmi delle Repubbliche marinare (Venezia, Genova, Pisa e Amalfi) dipinti, alla fine degli anni Quaranta (quando queste stanze ospitavano il vecchio ministero delle Colonie), proprio sulla piccola volta di fronte alle stanze del sottosegretario. L'interno dello studio è molto sobrio – due plichi di cartelline posati sulle estremità del tavolo, un computer collegato con le agenzie, due telefoni bianchi posizionati accanto al pc, due poltroncine per gli ospiti, una bandiera della comunità europea e una dell'Italia appoggiate sul muro dietro la scrivania. Gli appuntamenti di lavoro durano non più di quindici minuti e Letta (mani curate, capelli bianchi tagliati corti, tocco di cipria a ingentilire il viso) ascolta i propri interlocutori guardandoli dritti negli occhi, accennando impercettibili movimenti con la testa dall'alto verso il basso e poggiando la mascella tra il pollice e l'indice disteso della mano sinistra.

    Il tutto con una gestualità assai simile a quella usata dal suo maestro Giulio Andreotti. E proprio come Andreotti ai tempi della presidenza del Consiglio, Letta è sempre il primo a entrare a Palazzo Chigi ed è sempre l'ultimo a uscire: lo trovi in ufficio anche il sabato e la domenica, a volte da solo, senza nemmeno segretarie. E' vero che non concede interviste da quindici anni e non ama veder riportati i suoi virgolettati sui libri o sui giornali, ma se le conversazioni richieste sono di carattere informale con i giornalisti è molto difficile che non parli. La riservatezza è uno dei tratti proverbiali del suo carattere e, come scritto da Giorgio Dell'Arti nel suo Catalogo dei viventi (Marsilio, 2009), “la discrezione gli consente di non apparire ma di essere sempre presente. E anche dove non c'è tutti immaginano che ci sia”. Dietro al suo passo felpato, e dietro al suo leggendario profilo ecumenico, si nasconde però un potere che non viene esercitato soltanto nel contesto nazionale e internazionale, ma anche in quello locale. Dal primo giorno in cui arrivò a Palazzo Chigi (nel 1994), Silvio Berlusconi (di cui è stato testimone di nozze nel 1990) ha sempre affidato a lui il compito di rappresentare il governo nei salotti buoni della Capitale. La rete di contatti costruita nel tempo da Letta deriva soprattutto dalla sua particolarissima storia personale.

    La nascita del network lettiano a Roma avvenne negli anni in cui lavorò al primo piano della redazione romana del quotidiano “Il Tempo” (il cui palazzo si trova giusto di fronte alla finestra dello studio in cui Letta lavora oggi). Qui è stato collaboratore, redattore, segretario di redazione, direttore e amministratore delegato della società editrice del giornale (ma la sua discrezione era tale che da direttore non firmò mai neppure un editoriale). In quegli anni, intensificò i rapporti con il Vaticano (all'epoca, se “Il Messaggero” era considerato “il giornale dei senza Dio”, “Il Tempo” era per tutti “quello dei preti”) ed entrò sempre più in contatto con alcune potenti famiglie romane. Una su tutte quella di Renato e Maria Angiolillo. L'ex senatore Renato Angiolillo fu l'editore del “Tempo” che nel 1971 nominò Letta alla direzione amministrativa del giornale. Dopo la sua morte (il 16 agosto 1973), Letta iniziò a guidare il quotidiano fino a quando, nel 1987, fu assunto da Berlusconi al Gruppo Fininvest (entrando nel tempo così tanto in confidenza con il presidente del Consiglio che non soltanto è l'unico ad avere la facoltà di fumare il sigaro nelle stanze private di Berlusconi ma è anche l'unico da cui il Cavaliere, qualche volta, si fa letteralmente mandare a quel paese). (…)

    Chi conosce bene la morfologia del potere lettiano, inoltre, racconta come dietro vi sia una lunga frequentazione degli ambienti di quella corrente della Dc chiamata Dorotea, nata nel 1959, contraria a una svolta a sinistra del partito e che nel 1975, durante la corsa per eleggere il nuovo segretario, appoggiò Arnaldo Forlani contro Benigno Zaccagnini. Anche per il suo stile da perfetto democristiano del Duemila, Letta è considerato il volto più presentabile del berlusconismo ed è uno dei pochi uomini che nell'entourage del presidente riesca ad avere contemporaneamente buoni rapporti con la magistratura, con la Corte dei conti, con il Consiglio di Stato e con la Corte costituzionale. (…) La vocazione a una gestione comune del potere, in effetti, è sempre stata nel suo Dna e nell'unica intervista rilasciata negli ultimi quindici anni (a Luigi Tivelli nel libro Chi è Stato?, Rubbettino, 2007) il sottosegretario, con queste parole, ha confessato il desiderio di arrivare a forme di governo trasversali: “Occorre definire insieme le regole del gioco, risolvere alcuni dei problemi fondamentali dai quali dipende il futuro del paese. E' questo l'appello che mi piacerebbe sentire con una voce sola, destra e sinistra per una volta insieme. Si sa: mai un romanista diventerà un laziale, eppure nessuno, neanche il tifoso più accanito, ha mai gridato all'inciucio se e quando la sua squadra o la sua società contribuisce, insieme alle altre, a definire le regole del gioco, a stabilire il numero e le caratteristiche dei partecipanti, l'organizzazione del campionato, il campo e l'ora della sfida”.

    L'unico contesto in cui Letta è riuscito a sperimentare questo modello di governo è stata proprio la Roma di Walter Veltroni e Goffredo Bettini. Sotto molti punti di vista, le biografie dei due “gemelli diversi” della politica romana non potrebbero essere più distanti: Bettini è cresciuto nelle sezioni di partito e ha avuto la tessera prima nel Pci, poi nei Ds, quindi nel Pd. Letta si è invece formato in grandi aziende come la Fininvest, e a differenza dell'ex braccio destro di Veltroni non è mai stato militante di nessuno dei partiti fondati da Berlusconi (né di Forza Italia né tantomeno del Popolo della Libertà). Ma è stato proprio con l'arrivo di Alemanno che la prova di forza di Gianni Letta è apparsa ancor più significativa. Perché dopo la sconfitta di Veltroni era prevedibile che quell'universo a metà tra la politica e il business legato a Bettini e a Letta scegliesse il nuovo sindaco come suo punto di riferimento. Molti imprenditori, banchieri, industriali e costruttori hanno invece fatto un'altra scelta e sono così rimasti fedeli all'unico volto sopravvissuto alla presa di Roma.

    E il difficile rapporto nella Capitale tra Letta e Alemanno è una storia tutta da raccontare. (…) Come spiega l'ex governatore della Regione Lazio Francesco Storace, “A Roma è noto che non puoi fare una cosa che Letta non sappia e dall'altra parte è noto che se Letta sa che c'è una cosa che si fa senza che lui la conosca ti si mette di mezzo, e ti rende la vita impossibile”. (…) Il più importante terreno di dialogo tra Letta e Bettini è stato costruito alla Festa del cinema. I protagonisti del modello Roma hanno trasformato la rassegna di cinema internazionale anche in un efficace strumento di potere e di consenso. E dietro alle immagini di un Robert De Niro premiato in Campidoglio, dietro a una Monica Bellucci sorridente sul red carpet e dietro a un George Clooney a braccetto con il sindaco, si è nascosto per molto tempo un vero e proprio progetto politico.

    La Festa del cinema ha così fotografato un processo di lungo corso che ha accompagnato l'evoluzione della sinistra nella Capitale, e il modo scelto dalla classe dirigente postcomunista per entrare a stretto contatto con i volti più influenti della città si è manifestato con chiarezza lungo i venti ettari dell'Auditorium. (…) Non è un caso che a capo della Festa del cinema ci sia stato per tre anni proprio lui, Goffredo Bettini, l'uomo che aveva più peso nel Lazio; e non è un caso che la prima spallata politica messa in atto da Alemanno sia stata proprio quella di rivoluzionare gli equilibri all'interno della gestione del parco musicale romano. Questo perché – che si tratti di feste del cinema, di salotti, di fondazioni per la musica – in questi luoghi vi è spesso la tendenza a creare una sorta di supplenza delle classi dirigenti romane. (…)  La Festa del cinema è stata il laboratorio finale in cui è stato sperimentato il nuovo centrosinistra ideato da Goffredo Bettini e Walter Veltroni. Qui i due hanno messo in vetrina il sistema di relazioni costruito nel tempo. Qui, prima di tentare l'avventura a livello nazionale, Veltroni ha testato per l'ultima volta da sindaco il rapporto con il mondo dell'establishment e quello della cultura. (…) Questo raffinatissimo modello di gestione della politica culturale della città rappresenta una sorta di versione aggiornata di uno schema governativo comparso per la prima volta a Roma alla fine degli anni Settanta. Rutelli, Veltroni, Bettini e oggi Alemanno hanno scelto di vestire i panni degli intrepreti unici del pensiero della Capitale ispirandosi al motore del primo grande evento politicoculturale della città: quell'Estate romana ideata dal primo assessore alla Cultura di Roma, Renato Nicolini. (…)

    La vera risposta offerta da Alemanno a quella rete di potere messa in piedi da Letta e Bettini è arrivata il pomeriggio del 7 giugno 2008. Dopo aver sostanzialmente sottratto alla sinistra il controllo della Festa – sostituendo il vecchio management organizzativo, snellendo il numero dei membri del consiglio di amministrazione, investendo meno risorse finanziarie e convertendo la rassegna da palcoscenico cinematografico internazionale a manifestazione di carattere prevalentemente nazionale –, l'immagine più limpida del nuovo universo romano è la cosiddetta Commissione per le riforme voluta da Lupomanno: una realtà in cui il sindaco ha cercato di replicare il modello di trasversalismo prosperato nel quindicennio bettinian-lettiano dando ai volti più influenti della città una nuova vetrina in cui misurarsi e confrontarsi. (…) Il tentativo di ridisegnare i confini dei poteri romani è una manovra che ha notevolmente avvicinato il sindaco Alemanno a uno dei principali esponenti dell'opposizione: Massimo D'Alema. La caduta prima di Veltroni e poi di Bettini ha avuto l'effetto di far saltare quel tappo che aveva tenuto sotto pressione ogni tentativo di ribaltone: la pax bettiniana e lettiana aveva limitato il raggio di azione dei due politici impegnati più degli altri a trovare una buona strategia per tentare di “develtronizzare” Roma.

    In una regione come il Lazio, il confronto tra dalemiani e veltroniani era stato strozzato da quel “blocco di solidità imbarazzante” (le parole sono di D'Alema) che è stato per anni nelle mani dell'ex sindaco. I segnali della maggior presenza sul territorio di un Pd legato a D'Alema sono però oggi molti. (…) In questo senso, il laboratorio della tentata alleanza romana tra D'Alema e Alemanno è stato senz'altro l'Acea: l'azienda controllata al 51 per cento dal Comune di Roma, che ha come azionista di riferimento la famiglia Caltagirone e che, quando a metà aprile del 2009 doveva scegliere un membro del consiglio di amministrazione da riservare all'opposizione, decise di non ascoltare la richiesta ufficiale del Pd e si affido proprio a un dalemiano di ferro come Andrea Peruzy, tesoriere e direttore della Fondazione Italianieuropei. Dopo di che, Alemanno ha continuato a muovere le sue pedine sullo scacchiere politico romano e ha deciso di puntare ancora più in alto. E di indirizzare il mirino direttamente sul cuore sacro della città.

    Leggi Perché Alemanno dovrebbe trattare questo libro come uno specchio di Alessandro Giuli

    Leggi la recensione di Repubblica

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    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.