"La presa di Roma" di Claudio Cerasa
Perché Alemanno dovrebbe trattare questo libro come uno specchio
Se Gianni Alemanno fosse scaltro e svelto come ce lo ricordiamo, si berrebbe in un sorso solo “La presa di Roma” e l'appenderebbe poi sulla parete dello studio da sindaco in Campidoglio. Come fosse uno strano specchio parlante che gli restituisca lacerti della propria verità e lo ammonisca sull'epilogo del veltronismo romano.
Se Gianni Alemanno fosse scaltro e svelto come ce lo ricordiamo, si berrebbe in un sorso solo “La presa di Roma” e l'appenderebbe poi sulla parete dello studio da sindaco in Campidoglio. Come fosse uno strano specchio parlante che gli restituisca lacerti della propria verità e lo ammonisca sull'epilogo del veltronismo romano. Il titolo è potente ma non deve far paura: non evoca la marcia su Roma più di quanto induca a sperare che la conquista dell'Urbe da parte della destra alemanniana si risolva in qualcosa di diverso dal sacco dei Lanzichenecchi (1527). Non c'è alcuna sentenza precostituita. Dopotutto poteva andare peggio, invece Cerasa ha scritto questo suo libro con la testa e non con il cuore rovente di un qualunque animoso ex consanguineo in cerca di guai (altrimenti, per capirsi, si starebbe commentando qualcosa tipo “Le oche del Campidoglio”). Tutt'altro.
L'autore è uno sgobbone straniero al mondo della destra, è uno che ha studiato dall'esterno e infatti, come già rilevato dal finiano Luciano Lanna sul Secolo d'Italia, si nota qui e là qualche veniale sbavatura nella sua rappresentazione del clan alemanianno. Al netto dei pregiudizi di parte, tuttavia, Cerasa è arrivato per primo al bersaglio, per primo ha saputo convogliare in un bacino conchiuso i rivoli della rivoluzione andata in scena quasi due anni fa nella Capitale (la destra alla prova del comando), e sopra tutto ci è arrivato con un'attenzione meticolosa e una curiosità perfino sovrabbondante. Bisogna dargliene atto. Come si deve riconoscere che il lavoro è molto documentato anche quando può apparire molesto agli occhi del sindaco, ritratto come l'amministratore unico dell'insicurezza romana (sia quella percepita sia quella reale) grazie alla quale è riuscito a sbaragliare la concorrenza del pallido Francesco Rutelli. Notevole poi è il racconto delle liaison tra Alemanno e il mondo guelfo che aveva voltato le spalle a Veltroni per via delle sue scappatelle con la lotta di genere (matrimoni omosessuali e relativi registri comunali), un rapporto durevole e antico. Sbaglia, al riguardo, il finiano Lanna quando rivendica polemicamente il percorso di avvicinamento tra missini e ciellini già avviato negli anni Ottanta nelle università romane. Sbaglia, Lanna, perché la filogenesi di questa complicità teorica e pratica che ha portato Alemanno a farsi araldo e operaio della dottrina giudeocristiana nel libro di Cerasa è descritta con precisione. Basta leggere bene, senza diffidarne da lontano.
Eppure la destra diffida e diffiderà di questo saggio che risulta più svantaggioso per uomini di potere come Caltagirone o per altri suoi colleghi palazzinari, per non dire di come esce malconcio lo stesso sistema argilloso messo su da Veltroni attraverso la sua immaginifica mitopoiesi culturale da centro storico. Ma noi conosciamo per esperienza diretta il grado di sospettosità dei dirigenti post fascisti. E' un moto dell'anima spesso comprensibile, poiché maturato in lunghi anni di discriminazione subìta senza poter opporre la propria versione, senza poter spiegare l'ingiustizia della propria minorità. Ma oggi tutto questo non è più. Alemanno e i suoi virgulti ormai cresciuti sono un fenomeno egemonico, non soltanto dal punto di vista elettorale. Non devono prendersela a male se qualcuno ricorda loro che stanno amministrando Roma anche grazie alla falange dei tassisti; in virtù della non belligeranza con la lobby del mattone o dei circoli di canottaggio; forti di un personale interno un po' preso in prestito dalle riserve democristiane, un po' residuato dai rivoli delle catacombe. Giacché né ad Alemanno né ai suoi intimi (come Rampelli, Augello e Croppi) fanno difetto gli strumenti per scendere a patti con certi dati di realtà o la solidità culturale per rendere ragione delle proprie astuzie quotidiane. Cerasa – lo si capisce benissimo studiando il suo libro, ma si può equivocare se lo si scorre a strattoni immusoniti – non ha costruito un lavoro a tesi. Certo non è un simpatizzante alemanniano, ma tradisce semmai un'inquieta fascinazione nei confronti del branco dei Lupomanni che ha preso Roma dopo averla accerchiata e sedotta.
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