“C'era l'amore nel ghetto”. Il libro di Marek Edelman fa bene all'anima

Giulio Meotti

"Ma perché nessuno mi chiede se nel ghetto c'era l'amore?”, domandò un giorno Marek Edelman. “Sull'amore nel ghetto qualcuno dovrebbe fare un film. E' l'amore che permetteva di sopravvivere”. E' da questa domanda che nasce “C'era l'amore nel ghetto” (Sellerio, 11 euro, 176 pagine), il nuovo, bellissimo libro di uno dei grandi insorti del XX secolo.

    "Ma perché nessuno mi chiede se nel ghetto c'era l'amore?”, domandò un giorno Marek Edelman. “Sull'amore nel ghetto qualcuno dovrebbe fare un film. E' l'amore che permetteva di sopravvivere”. E' da questa domanda che nasce “C'era l'amore nel ghetto” (Sellerio, 11 euro, 176 pagine), il nuovo, bellissimo libro di uno dei grandi insorti del XX secolo. Edelman si è spento un mese fa, ultimo dei capi della resistenza ebraica nel ghetto di Varsavia. Questo suo splendido libretto è curato da Vlodek Goldkorn e Adriano Sofri. Il capitolo più bello è proprio quello dedicato all'amore nel ghetto di Varsavia, che Edelman omaggia attraverso queste sue tragiche micro storie. L'impazienza degli anni non consentiva altri rinvii a quello che è stato anche uno dei leader dell'opposizione al comunismo polacco. Bisognava raccontare, come si viveva, nonostante il ghetto, nel ghetto. I medici che curavano i condannati a morte, gli scrittori e gli storici che non smisero mai di lasciare testimonianze, gli insegnanti che volevano salvare la lingua e la cultura dei padri.

    Edelman fa rivivere questo mondo che ci appare irreale, in cui la morte di massa coesisteva con la voglia di vivere. Si organizzavano concerti, si faceva l'amore, si stampavano libri, mentre ogni mese morivano cinquemila persone. “Ho letto che la gente urlava, piangeva, mentre veniva portata via dal ghetto”, diceva Edelman. “Non è vero”. Spinta nei carri merci per il breve tragitto Umschlagplatz - Treblinka, dai vagoni non usciva un grido. “E questa era la dignità, una dignità che sgomentava i tedeschi. Per loro era incomprensibile che nessuno chiedesse pietà”. Forse di tante memorie Edelman ha preferito non fare parola, ha scelto di portarle con sè.

    L'insurrezione ebraica, ebbe modo di ricordare lo stesso Edelman, fu condotta da “220 ragazzi male armati” contro il potente esercito del Terzo Reich ma durò comunque tre settimane. Fu la prima azione armata su vasta scala nella storia delle occupazioni naziste. A Berlino si parlava di loro. Edelman non recita il copione del coraggio, dell'eroismo, di gesta sovrumane, della resistenza. Bronislaw Geremek, altro sopravvissuto al ghetto, di Edelman diceva che è “un eroe che non ama l'eroismo”. Il suo libro parla dell'amore, comune e ordinario, che pervase la vita nel ghetto, fino all'ultimo, fino all'Umschagplatz, dove i treni partivano per le camere a gas. Edelman parla di esseri umani soli e impauriti che si abbracciano, fanno l'amore, si tengono compagnia, si fanno calore, mentre viene loro scavata la fossa, in cielo. Edelman non lasciò mai la Polonia, qualcuno doveva pur restare a vigilare sui 500 mila che vide avviare alla morte. “Quando si è accompagnato un popolo alle camere a gas, bisogna avere il dovere di ricordare. Sotto le macerie del ghetto, ci sono le ossa del popolo ebreo e anche queste ossa vivono finchè c'è qualcuno che ricorda”. Questo medico e resistente faceva parte del ramo dell'ebraismo che non abbracciò mai il sionismo, mentre tutti gli altri leader dell'insurrezione (Yitzhak Zuckerman, Zivia Lubetkin, Simha Rotem, Israel Gutman) costruiranno Israele. Edelman rimase un bundista, il partito socialista dei lavoratori ebrei. E' lì che aveva imparato a fare resistenza: le squadre di autodifesa sorte all'inizio del secolo per contrastare i massacri difendevano le sinagoghe, pur essendo formate da militanti atei dichiarati. Il suo senso radicale dell'ingiustizia lo ha portato ad appoggiare l'operazione Iraqi Freedom e la Sarajevo assediata negli anni Novanta. “Io penso che sempre, quando la vittima è oppressa, bisogna stare dalla sua parte. Bisogna darle una casa, nasconderla, senza paura e sempre opponendosi a coloro che vogliono opprimere”.

    Nel libro scrive crudo e asciutto Edelman, da vero “guardiano delle tombe” come amava definirsi, scrive come uno che voleva ancora bene all'uomo, nonostante Varsavia, Auschwitz e Treblinka. E' passato tanto tempo, ma ricordava tutti i compagni, “non erano poi così tanti per dimenticare le loro facce, i loro nomi”.
    Fra le storie, Edelman ricorda quella di una donna, Ester, che dopo la morte della madre invece di sfruttare la possibilità di vivere fuori dal ghetto ha preferito restare dentro insieme a un fidanzato. Celebra la storia di una ragazzina, che per non lasciare soli i genitori si era rifiutata di fuggire da Umschlagplatz, da dove partivano i treni della morte per i campi dello sterminio. C'è il ricordo di una madre suicidatasi per lasciare alla figlia il documento che “autorizzava” la vita. Fa bene all'anima leggere queste sue paginette immortali.

    • Giulio Meotti
    • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.