Diario dell'Elefantino dalla Germania
L'allegra malinconia di Berlino vent'anni dopo
Sono stato qui a Ovest giusto vent'anni fa, fine dicembre, e a capodanno sulla Unter den Linden fui scambiato per Pavarotti da folle ubriache per le quali intonai l'aria ovvia della gelida manina. Era la festa del grande collasso pieno di speranza. Cinque, sei anni prima il soggiorno berlinese era durato due o tre mesi, intento a studiacchiare, a scrivere qualche nota culturale per l'Espresso, a vagabondare felice per Schoeneberg quando dalle case della mia strada uscivano le ragazze con le sedie e si accoccolavano sul marciapiede al grido “die Sonne, die Sonne!”.
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Berlino, 9 novembre. Sabato all'arrivo c'erano il sole e un tramonto temperato nel Tiergarten, domenica piombo nel cielo e buio freddo, stamane piove sulla Porta di Brandeburgo e stasera, per i festeggiamenti, chissà. Sarà una specie di Festa dell'Unità, con salamelle e musica e comizi, ma l'unità tedesca, la Wiedervereinigung. In un settembre di metà anni Ottanta, a un dibattito in un'altra Festa dell'Unità, quella dei comunisti a Roma, ricordo il volto sarcastico cinico e baro di Andreotti che diceva di preferire due Germanie al prezzo da pagare per averne una sola (e fece un botto mai rimarginato). Il prezzo è stato giusto, anche i liberal e i nostalgici dissimulati riconoscono adesso che il capitalismo liberale, beninteso “socialmente orientato” e con l'aiuto di Papi e presidenti cold warrior, sa orchestrare i suoi capolavori. Ma è probabile, date le conseguenze (almeno personali), che fosse ragionevole in lui, in Andreotti, quel disprezzo esibito per la mobilità della storia.
Daniel Barenboim la mobilità simbolica della storia, specie euro-tedesca, la incarna. E' israeliano e cittadino onorario di Berlino, città che negli ultimi vent'anni ha onorato con furia costruttivista ed espositiva i suoi crimini razziali. Alla Colpa è dedicato un monumento claustrofobico e labirintico di rara forza linguistica, inaugurato tre anni fa in un'area sacrale a metà tra la rinata Potsdamer Platz e la Porta di Brandeburgo. Lì il cemento a geometrie pesanti di bare e colonne dispiegate a raggiera in lungo e in largo, attraversate dai soliti sentieri interrotti dell'angoscia metafisica di queste parti, si anima dei volti in fuga di bambini e adulti di oggi a contatto con la memoria marmorea della catastrofe degli ebrei d'Europa. L'ho attraversato di qua e di là al crepuscolo, con gli echi di una folla festante che si aggirava sulla Ebertstrasse aspettando l'ora X del 9 novembre tra gli stand della sagra della Libertà, e ho avuto voglia di uscirne di corsa, di tornare subito ai profumi di Bratwurst e di senape tra le bancarelle disposte lungo la vecchia linea del Muro. Segno che funziona.
Alla Colpa è dedicato anche un molto benintenzionato museo dell'ebraismo approntato da Daniel Libeskind, formidabile architetto postmoderno come tutti gli architetti (con la riserva di un sospetto di fighettismo). La terribile rigatteria superstite della Shoah, vecchie valigie piattini foto ingiallite occhialini da teatro un violino un pacco mai aperto una cartolina postale una lettera ai figli in bella grafia, è messa a fuoco e illuminata in vetrina secondo i criteri di una mostra di gioielli Schlumberger. Ma d'improvviso sei invitato a entrare in una stanza blindata buia, lama di luce al calore bianco da una feritoia altissima, una scala a pioli per la tua salvezza che parte troppo in alto sul muro per essere abbrancata, un freddo bestiale esaltato da proporzioni spaziali di elegante terrore concentrazionario, e anche da questa camera della solitudine e del vuoto di Dio, come dal labirinto, hai una tremenda voglia di uscire. Funziona.
Labirinto e museo sono aperti a ogni interpretazione. La verità non esiste, no pedagogia, no paideia, no storia o poche storie. Verità è un cucciolo caldo, l'emozione adolescente relativa a ciascuno di noi. Vietato razionalizzare: il ricordo è forse religioso, certamente esorcistico, porta con sé l'ipotesi di un Dio personale. Nelle parole filosofiche di Nietzsche, verità è “una moltitudine mobile di metafore, metonimie, antropomorfismi, dunque una somma delle relazioni umane”. Adorato direttore della Staatsoper, il vecchio teatro lirico neoclassico sulla Unter den Linden ricostruito com'era ben tre volte e alla vigilia di un altro rifacimento, Barenboim ha scelto tra le metafore anche un brano dal Lohengrin (pare sia l'avvio del terzo atto, poco prima della banalmente famosa marcia nuziale) per il concerto dei vent'anni dalla caduta del Muro; e in serata sarà il mondo a godersi in collegamento, e noi in tribuna, la struggente coazione alla malinconia di questo luogo straordinario spencolato su quasi tutti gli abissi e i Kabarett d'occidente e d'oriente.
Faceva una certa impressione, domenica pomeriggio alla Staatsoper, stringere nella propria testa le parole e il cavo musicale che innalza al Graal il figlio di Parsifal. Era la terza rappresentazione di una rilevante edizione del Lohengrin, con il pubblico in visibilio a celebrare le sue divinità in questo tempio est-ovest dell'arte musicale di stato. Ancora oggi, con i suoi eroi argentei e grassi, la sua comicità involontaria e l'ironia dell'interpretazione, le sue note portentose e lacrimanti, la rognosa lotta tra la Fede e il Dubbio, tra un cristianesimo di ascendenza mitologica e pagana e la demoniaca promessa del faustismo che tutto nega, il dramma romantico di metà Ottocento strugge e frigge i cuori fino alla demenza felice e finale di un pubblico che si pensa chiassosa comunità di destino più che somma di theatergoers.
Certo, lo spettatore disimpegnato e solitario, italiano per di più, si strania nelle metafore metastoriche del Lohengrin, quando il signore del Brabante promette a Enrico l'Uccellatore che “le orde dell'oriente non avranno mai più la vittoria sulla Germania” e poi ascende tra gli dei dicendo: “Eccovi il signore del Brabante, zum Fuehrer sei er euch ernannt!”. Hitler prese buona nota, raccontano, di quella impossibile vittoria delle orde orientali (operazione Barbarossa, I presume) e della differenza non solo lessicale o storica tra Herzog e Fuehrer nella connotazione di un Capo, di un Duce. Come antropomorfismo veritativo, tutto sommato, un Fuehrer wagneriano a celebrare la libertà sotto la Porta di Brandeburgo è un segno di versatilità simbolica mica male. (Anche se il brano musicale scelto è ovviamente un altro, perché anche il niccianesimo commemorativo ha i suoi limiti).
Berlino vent'anni dopo è semplicemente magnifica nella sua allegra malinconia. Vuota nello spettrale ordinario quotidiano come sono piene Parigi Londra Madrid Praga Milano e Monaco. Sempre più astratta e sospesa ai limiti del mondo per via della sua geniale ascesi architettonica fatta di vetri e cupole trasparenti, superfici di luce sproporzionatamente grandi, colori acrilici e materiali costruttivi che sembrano marmo-giocattolo, Lego, forma autorevole e peso leggero. Donna cara da sempre, effimera mantenuta del Principe e del Reich, e ora della Costituzione patriottica, Berlino è abituata a vivere in affitto con i prezzi dell'immobiliare sotto le scarpe, a sentirsi avamposto e terra di guarnigione con lo stato nel sangue, oggi una specie di Israele d'Europa, furiosa capitale del correttismo ideologico con il grande parco oscurato a notte per proteggere gli scoiattolini (Kaninchen), una monumentalizzazione per ogni vittima ispirata a un nobile senso di Colpa.
Sono stato qui a Ovest giusto vent'anni fa, fine dicembre, e a capodanno sulla Unter den Linden fui scambiato per Pavarotti da folle ubriache per le quali intonai l'aria ovvia della gelida manina. Era la festa del grande collasso pieno di speranza. Cinque, sei anni prima il soggiorno berlinese era durato due o tre mesi, intento a studiacchiare, a scrivere qualche nota culturale per l'Espresso, a vagabondare felice per Schoeneberg quando dalle case della mia strada uscivano le ragazze con le sedie e si accoccolavano sul marciapiede al grido “die Sonne, die Sonne!”. Erano i pieni anni Ottanta, altro che collasso, quando a Est si contavano due milioni e mezzo di iscritti alla Sed (ora sono cinquantamila, però che tenacia), e la Repubblica democratica tedesca, impicciona delle vite degli altri, costruttrice di speranze e di Muri, viveva ancora rispettata tra le nazioni.
La Staatsbibliotek era un edificio di periferia, dalle sue finestre si vedeva il Muro, con le impalcature costruite a Ovest per guardare gli inferni degli altri, oltre che le loro vite piuttosto appassite, poi si stagliava la brutta ma efficiente fisionomia della Philarmonie di von Karajan (così gialla nel verde), e nulla più se non altri simboli cementati. Ora la rinata Potsdamer Platz è tutto un centro di commerci e di frenetici movimenti nello spazio pubblico metropolitano, stazioni e alberghi e mall, a circondare le mie un tempo solitarie vedette della frontiera più incredibile del mondo. Che crollò con un avverbio pronunciato in conferenza stampa, secondo lo Spiegel per errore, da un funzionario comunista del Politburo, Guenter Schabowski, nella serata del 9 novembre 1989, appena in tempo per infilarsi nel bicentenario della Rivoluzione Francese. “A partire da quando si può passare dall'altra parte?”, domandò un giornalista pragmatico dell'agenzia Ansa. “Sofort, ab sofort”. Subito, da subito.
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