Bye bye Copenaghen
La convergenza parallela tra il presidente americano, Barack Obama, e quello cinese, Hu Jintao, ha travolto ogni speranza di chiudere gli accordi sul regime post-Kyoto, durante il vertice delle Nazioni Unite previsto a dicembre nella capitale danese. Obama ha gettato la spugna: il Congresso non approverà il “climate bill” che lui sperava di portare in dote a Copenaghen. Non lo approverà perché non vuole approvarlo: al Senato non ci sono i numeri.
La convergenza parallela tra il presidente americano, Barack Obama, e quello cinese, Hu Jintao, ha travolto ogni speranza di chiudere gli accordi sul regime post-Kyoto, durante il vertice delle Nazioni Unite previsto a dicembre nella capitale danese. Obama ha gettato la spugna: il Congresso non approverà il “climate bill” che lui sperava di portare in dote a Copenaghen. Non lo approverà perché non vuole approvarlo: al Senato non ci sono i numeri. I democratici moderati non sono disposti a prendersi la responsabilità di quello che l'opposizione definisce già ora “the biggest tax increase in American history”, in riferimento agli aumenti dei costi energetici che sono la necessaria conseguenza del taglio delle emissioni. Già alla House, del resto, la proposta è passata di stretta misura, tra le defezioni democratiche e il soccorso rosso di una piccola frangia repubblicana.
Intanto, se a Washington gli ambientalisti non ridono, a Pechino ormai piangono a dirotto. La Cina ha di fatto confermato la sua politica tradizionale, per cui la priorità è quella di soddisfare il bisogno di energia, condizione per mantenere un tasso di crescita economica comparabile a quello degli scorsi anni. Naturalmente, i cinesi – che sono uomini di mondo – destineranno un po' di investimenti alle fonti rinnovabili e in tutte le sedi ufficiali si diranno preoccupati del global warming. Non una centrale a carbone, però, verrà cancellata per ragioni ecologiche. Per il resto, se l'Occidente vuole che il gigante asiatico faccia dei sacrifici, metta mano al portafoglio – questa è la logica di Hu.
In questo scenario, a rimanere spiazzata è l'Unione europea, che su Obama – e sull'effetto trascinamento che la sua leadership avrebbe potuto esercitare sui paesi dell'estremo oriente – aveva giocato tutte le sue carte. Con gli Usa in retromarcia e la Cina al finestrino, l'impegno di Bruxelles a ridurre di almeno del 20 per cento le proprie emissioni del 2020, e addirittura del 30 per cento se si raggiungesse un compromesso globale, rasenta il suicidio economico. La ragione è evidente tanto dall'ultimo rapporto dell'Agenzia ambientale europea, quanto dal “World Energy Outlook” dell'Agenzia internazionale per l'energia: da prospettive diverse, emerge come il principale driver delle emissioni, nel breve-medio termine, sia la crescita economica. Quindi, che il 2009 sia stato segnato dalla recessione e che le emissioni siano crollate non sono due fatti scorrelati. Sono l'uno la conseguenza dell'altro. E sono il presupposto dello scetticismo cinese e della ritrosia americana. La recessione ha avuto lo stesso effetto su Washington e Pechino: l'economia americana è in ginocchio e non è in grado di sostenere un ulteriore colpo. Quella cinese ha superato la crisi e non vuole giocarsi l'opportunità di raggiungere un reddito pro capite simile a quello dei paesi Ocse. Lo scontro di queste due placche tettoniche è all'origine dello smottamento europeo.
Il viaggio diplomatico del primo ministro danese, Lars Rasmussen, per salvare il salvabile è stato, probabilmente, più inquinante che utile. Il punto di mediazione che, grazie alla sua presenza, è stato raggiunto prevede la formula di “un accordo in due passi”. Il primo passo, che verrebbe appunto percorso a Copenaghen, consiste nella stesura di un protocollo che sia “politicamente”, ma non legalmente, vincolante. Come dire: aria fritta. Tutto sommato, dal punto di vista economico è il risultato meno indesiderabile: il mondo soffrirà l'usuale ondata di retorica prenatalizia, ma almeno per un altro anno non dovrà inginocchiarsi al dio buddista dell'ambiente.
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