No, he can't
Così Obama delude soprattutto i suoi fan
Gli obamiani sostengono che è questione di tempo, il presidente americano vuole cambiare il mondo, ma il mondo lo frena, lo ostacola, lo soffoca, così è costretto a posticipare le scadenze. Gli antiobamiani ribattono che l'inquilino della Casa Bianca è come Icaro, pensa di poter volare, ma le sue ali sono già in fiamme. Tutti registrano un fatto: Barack Obama è un presidente al ribasso.
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Gli obamiani sostengono che è questione di tempo, il presidente americano vuole cambiare il mondo, ma il mondo lo frena, lo ostacola, lo soffoca, così è costretto a posticipare le scadenze. Gli antiobamiani ribattono che l'inquilino della Casa Bianca è come Icaro, pensa di poter volare, ma le sue ali sono già in fiamme. Tutti – favorevoli e contrari, quelli che si sono fatti conquistare dal sorriso smagliante, quelli che non ci sono mai cascati, ma soprattutto quelli che si erano innamorati e ora, piantati in asso, si leccano le ferite – registrano un fatto: Barack Obama è un presidente al ribasso.
A guardare indietro, la barra delle aspettative avrebbe potuto essere posizionata un po' più giù, così oggi Barack Obama avrebbe margine di manovra, potrebbe ribattere ai suoi detrattori che il “change” ha i suoi tempi, datevi una calmata. Ma è stato lui a inaugurare la strategia del tutto e subito, dimenticatevi l'America degli anni 2000 come l'avete conosciuta finora, questo è un “new beginning”, mettetevi comodi e godetevi lo spettacolo. E' stato lui a speculare su quel tasso di aspettativa a livelli esorbitanti, godendo inizialmente di un capitale politico enorme e di una linea di credito da parte del resto mondo davvero corposa. Poi la bolla obamiana è scoppiata, e nulla è stato più come prima.
Negli ultimi giorni sono venute a galla due promesse non mantenute. E' stato Obama neopresidente a dire che avrebbe chiuso Guantanamo per il 22 di gennaio, un anno dopo il suo insediamento, ma i suoi operosi esperti di diritto hanno dovuto ammettere, a due mesi dalla scadenza, che i tempi saranno ben più lunghi.
E' stato Obama a dire che sarebbe arrivato al vertice sul clima di Copenaghen, a dicembre, con un accordo globale per il “nuovo Kyoto” in cui tutti – americani, cinesi, indiani – avrebbero fatto la loro parte. Ma domenica ha dovuto dire che no, per Copenaghen nulla da fare, se ne riparla l'anno prossimo. Parecchi commentatori andavano dicendo da tempo che sul controllo delle emissioni inquinanti non si sarebbe andati molto più lontano di Kyoto: Michael Levi del Council on Foreign Relations, centro-studi dell'establishment non certo reazionario, ha scritto sul numero d'autunno di Foreign Affairs un articolo dal titolo “Copenaghen's Inconvenient Truth”, in cui spiegava che gli Stati Uniti e il resto del mondo avrebbero dovuto sbrigarsi a trovare un piano B per il clima, perché il piano A era già fallito.
Ma con Obama tutto è possibile, e così si è fatto finta di niente, fino a che non è stato lo stesso presidente a rimandare l'appuntamento della rivoluzione ambientale. Il problema è sempre quello, il presidente al ribasso. Con un'aggravante: Obama voleva accontentare tutti e ora tutti sono o arrabbiati o delusi o entrambe le cose. Basta prendere di nuovo la questione climatica – che non è una questione secondaria, è un caposaldo dell'ideologia obamiana e dei suoi tanti seguaci, uno dei più importanti elementi di discontinuità con la presidenza brutta-e-cattiva di George W. Bush. Venerdì scorso, alla vigilia della missione asiatica Evan Osnos, corrispondente del New Yorker dalla Cina, ancora si trastullava nell'illusione che Obama potesse evitare di andare a visitare la Grande Muraglia e piuttosto posasse assieme al presidente cinese, Hu Jintao, per una foto in un campo di pale eoliche o in una fabbrica che produce batterie per auto elettriche.
Dopo aver promesso il promettibile sulla regolamentazione ecocompatibile, Obama è riuscito a inserire 80 miliardi di dollari nel pacchetto di stimolo per la ripresa in investimenti in tecnologie pulite e a giugno la Camera ha approvato una legge che prevede un tetto alle emissioni che va riducendosi di anno in anno, la possibilità di negoziare l'ammontare di emissioni con il governo e che disincentiva l'utilizzo di inquinanti. Poi la legge è passata al Senato e non è ancora uscita dalla commissione Finanze che si preoccupa per quei costi che – come per i bailout, la riforma sanitaria e gli stimoli all'economia – vengono spalmati su più anni e quindi graveranno ancora per molto tempo a venire. Solito ostruzionismo dell'opposizione? No, ad allungare i tempi è il capo della commissione, il democratico del Montana Max Baucus, che teme che la fretta possa comportare costi (e tassazioni) insostenibili. Così, come ha spiegato l'Economist, il dibattito sul cambiamento climatico è diventata una guerra culturale “tra liberal e conservatori, tra città e campagne, tra coste ed entroterra”.
Anche la riforma sanitaria si è trasformata in una guerra culturale (e civile), riducendo il grande sogno di una copertura per tutti a un più prosaico compromesso che ha comunque scatenato ire trasversali: i repubblicani e i democratici moderati boicottano perché temono un esborso eccessivo e un'ingerenza dello stato distorsiva; i liberal protestano perché la copertura universale la volevano davvero, costi quel che costi, “public option” compresa. Questi ultimi – i disillusi – sono i più agguerriti, basta leggere che cosa scrive l'Huffington Post, il sito molto liberal di Arianna Huffington.
Dalla sanità all'Iraq, dal clima alla regolamentazione dei mercati finanziari, da Guantanamo all'Afghanistan passando per la piazza di Teheran, la sintesi è: “No, he can't”, il sogno di Obama non esiste, “change we can't yet believe in”, il cambiamento non c'è, non possiamo ancora vederlo né crederci (che è anche il titolo dell'editoriale del Guardian di ieri, a testimonianza di quanto sono depressi gli innamorati della prima ora). Ieri, in un impeto di gioia che non capita troppo spesso, l'Huffington Post ha titolato “Obama conquista Shanghai”, celebrando l'incontro del presidente con gli studenti, il suo appello a una libertà di informazione (soprattutto via Internet) e di opinione (comprese le critiche, quelle che fanno grande l'America, ha detto Obama) per tutti, in particolare “per le minoranze etniche e religiose”, cioè i tibetani e gli uiguri – ma Obama non li ha citati – che il governo centrale di Pechino ha massacrato e condannato a morte.
I liberal hanno riservato lo stesso entusiasmo al presidente anche quando domenica ha chiesto alla giunta birmana di liberare Aung San Suu Kyi e di tenere elezioni democratiche, perché quando Obama torna sui passi del suo sogno è irresistibile. Ma quanti imbarazzi quando l'incontro con il Dalai Lama è stato rimandato a dopo la visita cinese per non compromettere le relazioni con Pechino; quanto imbarazzo in quei primi giorni di giugno in cui la piazza iraniana è esplosa contro il regime, rimanendo soffocata per le strade e nelle prigioni, e Washington taceva, o al limite diceva che quelli erano affari interni della Repubblica islamica, cosicché nelle ultime manifestazioni i ragazzi di Teheran alzavano cartelloni con scritto “Obama da che parte stai?”. Con questa nuova presidenza non è cambiato nulla rispetto al passato, Obama è come Bush (e forse persino peggio perché ci illude di essere diverso), scrive da qualche settimana Newsweek, che ha anche pubblicato una guida alla sopravvivenza liberal, ancor più provocatoria se si pensa che un superpotere liberal di questa portata non si vedeva ormai da quasi due decenni.
Certo, Obama può ancora dimostrare tutto, in fondo non è neanche un anno che è alla Casa Bianca. Ma le decisioni che deve prendere – la strategia in Afghanistan, per esempio, o quella con l'Iran, per non parlare delle cure per la disoccupazione e per il deficit – non sono di quelle che aumentano il consenso, piuttosto il contrario. Il suo popolo può anche accettare di rivedere le proprie aspettative, a patto che il presidente non diventi ostaggio della sua stessa bolla, e inizi a giocare al rialzo.
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