Schifani avverte: "Se la maggioranza non è compatta si vada al voto"
Perché si è arrivati all'agonia del Parlamento
Con il pragmatismo connaturato alla professione, i lobbysti dicono che ormai è meglio corteggiare il capo di gabinetto di un ministro che un parlamentare, che la tecnostruttura ha sostituito i corridoi di Montecitorio e le anticamere delle commissioni, visto che le stesse si riuniscono raramente e spesso per meno di un'ora, come risulta dai dati dei servizi statistici della Camera e del Senato pubblicati da Repubblica non più tardi di una settimana fa.
Con il pragmatismo connaturato alla professione, i lobbysti dicono che ormai è meglio corteggiare il capo di gabinetto di un ministro che un parlamentare, che la tecnostruttura ha sostituito i corridoi di Montecitorio e le anticamere delle commissioni, visto che le stesse si riuniscono raramente e spesso per meno di un'ora, come risulta dai dati dei servizi statistici della Camera e del Senato pubblicati da Repubblica non più tardi di una settimana fa. “I luoghi sono altri”, ti spiega il lobbysta riflessivo con l'aria di dire una cosa ovvia, senza la solennità di chi intanto sta certificando un'agonia, quella del Parlamento. “Altri” dai due palazzi dove è previsto si facciano le leggi, il che equivale a dire che il potere è altrove. E che l'altrove è Palazzo Chigi. Nemmeno il clamore di iniziative come quella di Gianfranco Fini che, in polemica con il governo, ha bloccato per una settimana i lavori della Camera causa mancanza di materia prima (le leggi) e delle coperture finanziarie, dà il senso della crisi di ruolo del Parlamento quanto il fenomeno sia pure laterale del trasloco dei lobbysti nell'altrove ministeriale.
“Il Parlamento è stato letteralmente espropriato del suo potere perché le leggi le fa l'esecutivo attraverso i decreti ”, ha denunciato sabato scorso l'ex ministro Antonio Martino, a un convegno sulle relazioni internazionali. Ieri alla Camera è stata battaglia perché in un decreto era contenuta la privatizzazione degli acquedotti con il Pd aggrappato alle pregiudiziali di incostituzionalità. Il grido di allarme per la verità è generalizzato e trasversale con gradi di drammatizzazione diversi a seconda che si tratti di maggioranza o di opposizione come è naturale, che si inclini alla nostalgia del parlamentarismo liberale o democristiano (sono diversi a inclinare) e perfino a seconda dei gusti letterari: “La democrazia ai tempi del colera” è il richiamo sudamericano che piace all'ex presidente della Camera Luciano Violante, mentre l'ex premier Giuliano Amato spiega al Foglio che è piuttosto un “declino”, grave, ma “resistibile” quello del Parlamento italiano. “C'è un'asimmetria fra le regole della costituzione e dei regolamenti parlamentari che raffigurano un governo debole e un parlamento capriccioso e il potere politico che il governo ha conquistato in ragione della legge elettorale maggioritaria, potere del quale si è avvalso acquisendo una forza esorbitante”, osserva Amato. “Il paradosso è che chi sta al governo dice oddio come sono debole e chi sta in Parlamento dice mamma mia come è forte il governo”.
Fin qui un aspetto che è storico e testimonia una fisiologia del modello italiano come di quello francese, la competizione fra Parlamento e governo. Con alternanza di vittorie e sconfitte. “Le ragioni di crisi dell'uno sono le ragioni di potenza dell'altro”, riassume Violante. Da sempre. Con il solo paradosso del governo Prodi costretto a ricorrere alla decretazione per la sua debolezza, data l'esiguità della maggioranza. Nell'aprile del 2000, poco prima delle elezioni regionali in cui giocò e perse tutto, Massimo D'Alema premier spiegava che “il governo è un vaso di coccio” e nello stesso periodo l'allora presidente della Camera, Violante per l'appunto, lamentava la modestia dell'impegno dei deputati a Montecitorio “solo tre giorni alla settimana per non più di due ore”, annunciando che ne avrebbe parlato con Ciampi all'epoca al Quirinale. Oggi, sedicesima legislatura, nessuno né a destra né a sinistra nega che la vittoria sia andata tutta all'esecutivo. Il come è l'oggetto del dibattito e la stabilità del risultato, se sia legata o no al ciclo berlusconiano.
E' come se oggi un campionato iniziato tanto tempo fa avesse per la prima volta un vincitore e non un pareggio. E del resto l'esigenza di rafforzare l'esecutivo contro l'instabilità dei governi della Prima Repubblica è stata il tema istituzionale del decennio scorso. A cominciare dalla Bicamerale. Oggi da questo punto di vista c'è anche chi può vedere il bicchiere mezzo pieno: il sottosegretario all'economia Giuseppe Vegas, illustrando ai giornalisti la riforma della Finanziaria, ha potuto ratificare il mutato rapporto fra governo e Parlamento: “Una volta il governo scriveva e il Parlamento faceva gli emendamenti; oggi, coerentemente con il maggioritario, è il governo ad assumere la responsabilità delle decisioni”.
Un genere giornalistico a volte confinante con l'antipolitica e anche la concretezza dei numeri effigiano l'aspetto ozioso, il fannullonismo, per la verità questione ottocentesca tramandata dalle generazioni, le esasperazioni dell'assenteismo come il fenomeno dei pianisti oggi tuttavia ridotto alla Camera dal sistema di voto con le impronte digitali voluto dal piglio vagamente law and order degli esordi della presidenza Fini. In realtà sia il tema ovviamente sostanziale dell'eccessivo ricorso alla fiducia (34 volte in due anni il governo Prodi, 27 in uno e mezzo il governo Berlusconi) sia la pigrizia secolare sono letture riduttive. Gli aspetti sistemici sono più istruttivi così come le opacità e insieme l'inventiva degli esecutivi per aggirare le paludi del Parlamento.
La rivista Quaderni costituzionali edita dal Mulino ha raccolto con spirito enciclopedico le tecniche a volte al limite della Costituzione per evitare le secche del Parlamento o le sabbie mobili degli emendamenti. Ci sono funambolismi nelle leggi di conversione di altre leggi, maxiemendamenti del governo a decreti che già sono forzature in se stessi, mille proroghe, la letteratura è vasta e pirotecnica. Ma c'è dell'altro, luoghi nuovi.
“La conferenza stato-regioni sostituisce il Parlamento in modo oscuro”, sostiene Violante. Dalla fine degli anni Novanta il suo potere è andato crescendo. Si riunisce a Palazzo Chigi, con il presidente del Consiglio e tutti i governatori, dà pareri, scrive delibere, ha un potere vincolante nei fatti sul Parlamento e lavora insieme al Cipe. Le materie sono importanti a cominciare da quello che si muove intorno al sistema sanitario. E la trattativa è spesso one to one. La conferenza stato-regioni interessa ai lobbysti, i pareri riguardano anche il ruolo dei privati nei servizi. “Le regioni sono sempre più importanti e lo saranno sempre di più anche nella relazione con l'Unione europea”, dice Claudio Velardi nella veste di fondatore di Reti, società e scuola di lobbying . Per questo lo stesso Violante aderisce con entusiasmo all'idea del Senato delle regioni: un luogo trasparente e titolato a esercitare il potere legislativo.
Ancora più prevaricante o aggirante nei confronti del Parlamento il sistema delle ordinanze della Protezione civile. Amato la chiama “la Bertolasocrazia che neanche Bertolaso vorrebbe”. Il sito della fondazione Astrid di Franco Bassanini le ha pubblicate tutte rendendo evidente che contengono di tutto e che all'emergenza vengono delegate materie ordinarie. Prodi inserì il traffico a Roma, Berlusconi i mondiali di nuoto. “Me ne sono avvalso anch'io quando ero ministro dell'Interno”, confessa Amato. “Avevo bisogno di fondi per un viaggio del Papa a Napoli. Ho tampinato Prodi che era anche restio, poverino, alla fine ha accettato”. Il metodo è dilatare la nozione di grande evento – “quella di catastrofe no, sarebbe iettatorio” – osserva Amato. Ultimamente si è largheggiato, specie per le opere pubbliche. Le ordinanze della Protezione civile sono tutte della presidenza del Consiglio e fuori da ogni meccanismo di controllo: non le firma il Quirinale, non hanno bisogno dell'imprimatur della Corte dei Conti, tantomeno del Parlamento. Se a questo si aggiungono i vincoli degli organismi sovranazionali, in testa l'Unione europea, al Parlamento resta poco. Tanto da far parlare Violante di un cambiamento necessario di ruolo: che il Parlamento debba rassegnarsi a essere luogo di indirizzo e di controllo?
L'opacità e la fantasia nel dribblare le Camere non sono solo parte del braccio di ferro fra i poteri dello stato. Rispondono a un'esigenza fondamentale, quella della rapidità delle decisioni a fronte della competizione internazionale. La lentezza della democrazia contro la velocità della globalizzazione. Più o meno.
“Ma è poi così vero che nella Prima Repubblica il Parlamento era molto più lento? Quando si doveva decidere sui fondi di dotazione dell'Eni o dell'Iri, che erano pubbliche, lo si faceva in quattro giorni”, osserva un democristiano e parlamentarista doc come Guido Bodrato. “La rapidità c'era, il problema si poneva in presenza di contrasti politici, certo, ma il rovescio della medaglia era la maggiore influenza dell'opposizione. Andreotti e Ingrao riformarono insieme i regolamenti parlamentari…”. Sono, erano, le gioie e i dolori di una stagione che aveva il limite del consociativismo, ma che – questo lo spiega un altro ex dc come Gerardo Bianco – assegnava al Parlamento un ruolo di composizione dei conflitti tra le forze politiche e tra la maggioranza e l'opposizione. “Il Parlamento di oggi o è obbediente o è ribelle. Non ha più la funzione dialettica di armonizzazione dei punti di vista”, dice al Foglio. Più in generale i nostalgici del Parlamento d'antan, dell'arte democristiana del compromesso, del potere di mediazione delle Camere fanno coincidere la crisi del Parlamento attuale con quella dei partiti.
Bodrato arriva quasi a rifiutare l'idea di un limite dell'istituzione Parlamento in sé. “Senza partiti efficaci che abbiano programmi diversi, che siano distinguibili e rappresentativi, il Parlamento non funziona“. E' la linea sostenuta anche dalla politologa Nadia Urbinati. Che legge la crisi della rappresentanza come crisi dei partiti, mediatori efficaci tra governanti e governati: “Senza i partiti il Parlamento democratico cessa di essere rappresentativo della società e i parlamentari diventano rappresentanti di se stessi o di gruppi di amici”, scrive. La crisi del Parlamento italiano è per unanime riconoscimento crisi di rappresentanza. Poi si possono incolpare alternativamente la fine dei partiti novecenteschi e/o la legge elettorale attuale come fanno Violante, Amato, l'intero Pd, lo stesso Martino e parte del Pdl, Pier Ferdinando Casini e in generale tutti quelli che sarebbero teoricamente favorevoli a correggerla.
Sul banco degli imputati le liste bloccate (“non il principio maggioritario, per carità, basterebbe il collegio”, è la linea Amato-Violante) che hanno creato una generazione di deputati e senatori nominati, del tutto distaccati dal collegio o come si dice dal territorio. Parlamentari, peraltro deboli, hanno perso potere anche nei confronti del capogruppo o dei leader. “Non puoi più dirgli guarda che con questo provvedimento perdiamo il collegio la prossima volta”, spiega Violante. Anche perché personalmente non si perde nulla. Visto da lontano con gli occhi di chi è fuori, Bodrato sottolinea il carattere oligarchico: “Nessuno va a casa per ragioni elettorali, ma solo per le dinamiche di potere. Nella Prima Repubblica c'era già la polemica sul sistema bloccato, ma oggi lo è molto di più, ognuno dei leader attuali ha perso almeno due elezioni”.
Per Gerardo Bianco, capogruppo del Partito popolare negli anni di Tangentopoli, ha pesato anche la delegittimazione del Parlamento come istituzione consumatasi allora. “Dal mio punto di vista si sarebbe potuto evitare se i leader di allora, di destra e di sinistra, avessero fatto la distinzione. Non era giusto confondere il ruolo del Parlamento con gli inquisiti. Napolitano lo disse. Le forze di opposizione non avrebbero dovuto permettere che si gettasse via il bambino con l'acqua sporca. Destra e sinistra avevano cultura anti parlamentare e ora riscoprono il Parlamento…”
Il Parlamento è diventato il ruolo dove si comincia la carriera politica, le cooptazioni nelle liste lo consentono. Sono ancora gli uomini della Prima Repubblica a puntare il dito contro una transizione incompiuta. “Nessuno ha il coraggio di chiedere allora di completare il percorso verso modalità presidenziali”, dice Bianco.
Perché la contraddizione fra regole e prassi è che il capo del governo non è eletto, ma si sente tale e soprattutto sceglie la sua maggioranza. I parlamentari sono eletti perché sulla scheda c'è il nome di quel candidato premier e perché, last but not least, è lui che li ha scelti, si è scelto la sua maggioranza. Certo il limbo della transizione o meglio di un sistema che non ha ancora una fisionomia chiara non è solo italiano. Lo descrive molto chiaramente, attraverso una tripartizione, il politologo francese Bernard Manin: se l'Ottocento è stato il secolo del parlamentarismo e il Novecento quello della democrazia dei partiti, il Ventunesimo secolo è il secolo della ‘democrazia del pubblico', dell'opinione pubblica che tende alla personalizzazione. La quale deve ancora trovare la sua forma e i suoi equilibri, mescolare aspetti democratici e non democratici, ma che tuttavia si riavvicina al parlamentarismo originario il cui tratto costitutivo è il carattere personale della relazione rappresentativa, spiega Manin. Accettando i connessi rischi oligarchici. Decaduta la democrazia dei partiti, oggi la democrazia italiana delle fondazioni di destra e di sinistra (o trasversali come Italiadecide) studia le riforme possibili e le usa per l'interlocuzione tra maggioranza e opposizione. Laboratori che ancora una volta sono fuori dal Parlamento e dunque ne attestano ulteriormente la debolezza. Ma intanto lo studiano o lo rimpiangono perché, come sentenzia Violante: “Il parlamentarismo va spremuto fino in fondo prima di mandarlo via”.
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