Il modello Kyoto deve saltare
Ecco come superare il fallimento di Copenaghen
Tentano di riparare, ma il buco è fatto. Il presidente americano, Barack Obama, adesso dice di aspettarsi un accordo “con effetto immediato”, dal vertice di Copenhagen. E' normale dialettica politica, cioè, in italiano corrente, balle: l'asse tra Washington e Pechino avrà conseguenze pesantissime, sulle prospettive del meeting di dicembre. Semplicemente, ne uscirà l'ennesima dichiarazione di principio, piena di auspici e belle parole, ma priva di sostanza politica.
Tentano di riparare, ma il buco è fatto. Il presidente americano, Barack Obama, adesso dice di aspettarsi un accordo “con effetto immediato”, dal vertice di Copenhagen. E' normale dialettica politica, cioè, in italiano corrente, balle: l'asse tra Washington e Pechino avrà conseguenze pesantissime, sulle prospettive del meeting di dicembre. Semplicemente, ne uscirà l'ennesima dichiarazione di principio, piena di auspici e belle parole, ma priva di sostanza politica – tranne, beninteso, l'impegno a trovare una quadra definitiva al prossimo incontro, impegno che si ripropone con sospetta coerenza da troppi anni di fila. Proprio questa costante incapacità di concludere desta un sospetto sulle modalità e gli obiettivi negoziali delle “Cop”, le conferenze delle parti contraenti il protocollo di Kyoto, ormai a un soffio dallo scadere del trattato (2012) e ancora prive di una idea, pur vaga, di come sarà il “dopo”.
Ammesso e non concesso che quella climatica sia effettivamente una priorità, dunque, sarebbe il caso di chiedersi se non sia il metodo, a prevenire i risultati. Fino a oggi si è seguita la via europea: obiettivi di riduzione vincolanti, verificabili, con scadenze e tabelle di marcia e un “giudice” sovranazionale a controllarne l'applicazione. Bruxelles su questo processo ha messo il proprio bollino blu, al punto da avervi costruito attorno parte della propria identità politica prima e a prescindere dal coinvolgimento altrui. Ha buon gioco, allora, il presidente della Commissione, José Manuel Barroso, quando si vanta della leadership comunitaria. Peccato che manchino i “follower”.
Forse è giunto il momento di esplorare strade alternative. Lo hanno suggerito, sul Financial Times di oggi, Nancy Birdsall e Arvind Subramanian, rispettivamente presidente e fellow del Center for Global Development. “Il focus – scrivono – non dovrebbe essere sulle emissioni, neppure quelle pro capite, ma sull'accesso della gente, ovunque nel mondo, ai basilari servizi energetici quali la possibilità di cucinare a casa in modo sicuro e appropriato, il mantenimento di temperature accettabili negli ambienti chiusi e forme decenti di trasporto”. Tutto questo allo scopo di “consentire ai paesi in via di sviluppo un accesso a tali servizi energetici comparabile a quello raggiunto dai paesi ricchi a uno stadio di sviluppo comparabile, sfruttando però le migliori tecnologie disponibili”.
In altre parole, non si può chiedere ai paesi in via di sviluppo di rinunciare alla crescita economica; ma, al tempo stesso, se non lo si fa, le emissioni continueranno a crescere inesorabilmente (al netto della crisi economica). Quello che si può fare è accelerare il loro sviluppo tecnologico, in modo che, a parità di tenore di vita, abbiano un impatto ambientale ridotto. Questa logica, però, fa saltare completamente il “modello Kyoto”, che non si pone il problema del “come” ma solo quello del “cosa”. E' ovvio, un intervento mirato sulla tecnologia non farebbe, nel breve termine, calare le emissioni (anche se ne rallenterebbe l'aumento). Però potrebbe essere, oltre che economicamente sostenibile, politicamente possibile. E soprattutto una simile strategia avrebbe necessariamente natura inclusiva, trovando nei paesi in via di sviluppo un partner interessato, anziché farne una controparte riottosa e poco malleabile. L'Europa è disposta ad abbandonare il suo unilateralismo?
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