Maschio, cattolico, italiano, erotomane e papista

Marina Valensise

Avrà letto Joseph de Maistre? Il savoiardo autore delle “Soirées de Saint-Petersbourg”, infernale maestro della controrivoluzione, di cui Baudelaire diceva: “E' l'uomo che mi ha insegnato a ragionare”, sarà fra i prediletti di Camillo Langone? E che dire di Bonald, Chateaubriand, Ballanche, Barbey d'Aurevilly e i tanti profeti disarmati che finita la tormenta giacobina si batterono per restaurare l'alleanza tra il trono e l'altare?

    Avrà letto Joseph de Maistre? Il savoiardo autore delle “Soirées de Saint-Petersbourg”, infernale maestro della controrivoluzione, di cui Baudelaire diceva: “E' l'uomo che mi ha insegnato a ragionare”, sarà fra i prediletti di Camillo Langone? E che dire di Bonald, Chateaubriand, Ballanche, Barbey d'Aurevilly e i tanti profeti disarmati che finita la tormenta giacobina si batterono per restaurare l'alleanza tra il trono e l'altare? Da dove viene la foga apodittica di Camillo Langone, difensore della destra divina, dell'“unica causa incausata esistente, che è Dio”, dell'“unica morale efficace che è quella religiosa”? E da dove nasce l'umore atrabiliare di quest'eccentrico fedele all'autarchia, italiano etnocentrico ma universale, come può esserlo solo un egocentrico che si considera “patriota” non per amor di patria, ma perché ama se stesso e dà valore a se stesso e alle cose che ama, ergo la lingua italiana, e per questo ha deciso di “stare dentro di lei”, figlio improbabile di un paese e di una tradizione che per molti non esiste più, tanto è sconosciuta, offesa e vilipesa, dimenticata e pochissimo rappresentata?

    C'è qualcosa di miracoloso in Camillo Langone,
    che prima di essere un erotomane risolto e dal forte appetito carnale, un peccatore cattolico dal conclamato senso di colpa e un pornografo in grande stile, è un papista di lungo corso che detesta i preti e il mondo senza Dio, ma si professa devotissimo al culto mariano, tanto da frequentare assiduamente tutti i santuari d'Italia – da Loreto a Fontanellato, in provincia di Parma, dalla Madonna delle Grazie a Curtatone alla Madonna di San Luca di Bologna – e ogni domenica alla fine della messa si commuove quando si intona il Salve Regina in latino. C'è il lui qualcosa di classico, nel senso di remoto e primordiale, di essenziale e necessario, che sopravvive alle molte contraddizioni che abitano chi ama il lusso e la ricchezza, la carne e i bei vestiti come lui e si dichiara un esteta, ma sa vivere in ascesi come un francescano, rispettando il digiuno al tempo di Quaresima, rinunciando a bere vino tranne di domenica, e nutrendosi di soli pane e acqua il Venerdì santo, sino a farne del Vangelo e dell'Antico Testamento il perenne serbatoio delle sue invettive, e la ragione ultima e sovrana delle idiosincrasie di un cristiano, che sogna di battersi solitario come un santo, un guerriero, un eroe, nel nostro mondo d'oggi triste e senza luce.

    Ed è per questo che, sia che parli di messe, liturgie e candeline elettriche,
    sia che parli di puttane cocainomani in calore o assatanate ragazze punk, c'è molto più che un retaggio della grande letteratura, che è sempre estrema, violenta e micidiale, nel furor sacro che brucia Langone e lo muove contro l'ovvio, il banale, il conforme, le illusioni emancipatorie del progresso e gli incubi nati da troppo razionalismo, illuminista e ateo.
    Il fatto è che l'uomo non è buono, e lui lo sa. E uno che poco poco lo conosca, sa benissimo che per scrivere quello che scrive Langone non ha avuto bisogno di leggere i libri, di studiare De Maistre e i teorici della controrivoluzione, di spulciare i “Mémoires d'Outretombe”, o “Mon coeur mis à nu” di Charles Baudelaire, di battere tutta la letteratura romantica che arriva dritto fino a Manzoni e ancora oggi respira negli aforismi di Nicolás Gómez Dávila. Gli è bastato vivere e mettersi a leggere la vita, a cominciare da quell'eterna lezione di vita contenuta nei Vangeli, che infatti conosce a menadito e cita sempre a proposito. “L'uomo non è buono”, scrive infatti l'evangelista Marco quando racconta la parabola di quel tizio che corre incontro a Gesù, gli si getta ai piedi e, appena gli domanda: “Maestro buono, cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?”, viene gelato da una risposta feroce: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo”.

    Per uno che dice di non aver mai creduto nel prossimo,
    di conoscere solo il male, il peccato, la colpa, e di aspirare alla redenzione, è evidente che bisogna credere nella parola di Cristo, il Dio incarnato. “Il Vangelo non è una favoletta”, dice Camillo, guardando un po' schifato chi si fa addirittura vanto di non averlo mai letto. “E' essenziale per capire la vita, per vaccinarsi contro l'utopia, contro l'ottimismo del progresso, contro l'illusione della ragione”. Non per niente, “Maschio, cattolico e italiano”, Langone esordì come scrittore con il racconto autobiografico di un erotomane disperato, che si intitolava proprio così, e ebbe scarsa fortuna. Più di un editore lo lesse, più di un editore sembrò interessato, ma alla fine nessuno lo stampò. Langone ci rimase un po' male, ma non si fece scoraggiare. Era all'epoca, e continua a esserlo ora, un animale solitario. Una sera, alla libreria Feltrinelli di Bologna, davanti alle Due Torri, ebbe la sua rivelazione: era andato alla presentazione dell'ultima edizione di “Fratelli di Italia”, di Alberto Arbasino, e in un colpo solo incontrò il grande scrittore e su due piedi decise quale sarebbe stato il suo destino, strinse amicizia col filosofo Stefano Bonaga, il quale, all'epoca assessore alla Cultura del comune di Bologna, nonché fidanzato di Alba Parietti, con pochi altri maestri, come Piero Buscaroli, Alfredo Cattabiani e Vittorio Sgarbi, lo instradò al gusto per le grandi idee.
    Niente infatti predisponeva alle lettere questo figlio di un'Italia umile e povera, remota e dimenticata, che ancora negli anni Sessanta piangeva la miseria dell'emigrazione, fra cugini malati tornati dalle miniere del Belgio, bisnonni operai morti in America costruendo ferrovie, nonni carabinieri emigrati a Cremona e contadini analfabeti ma operosi. Educato a una vita frugale da una madre abruzzese di Picciano, provincia di Pescara, trasferitasi con tutta la famiglia a Casal Maggiore, provincia di Cremona, e da un padre di Picerno, provincia di Potenza, Langone ha vissuto un'infanzia e una giovinezza itineranti, vagando da una città all'altra al seguito del padre, ufficiale dell'aviazione leggera dell'esercito (altra stranezza langoniana: anche l'esercito vola), e cambiando scuola e classe persino due volte l'anno, e dunque sempre molto solitario, introverso, attratto dalla lettura, e specialmente quella del “Don Camillo” di Giovanni Guareschi, che gli servì da antidoto sin dalla più tenera età all'intossicazione filocomunista allora imperante. Si spiega dunque come mai Langone oggi non nutra alcuna nostalgia per la sua infanzia, né alcun rimpianto per gli anni del passato, e soprattutto nessuna indulgenza per la Fgci, per la militanza comunista o di sinistra che irretì invece tanti dei suoi coetanei. “La stagione migliore della mia vita è l'anno in corso”, dice sempre Langone che da uomo senza tempo e fuori dal tempo, spregiatore di orologi e mezzi di trasporto veloci, è convinto fautore della cultura dell'oblio, del “bisogno di dimenticare per reinverginarsi”. Sua madre, donna semplice ed economa, fu la prima a instillargli il gusto paradossale dell'antifrasi, del non conformismo. Leggenda vuole che quand'era piccolo la madre cucinasse per lui, tenendolo lontano dai vizi dei bambini del boom. Mai visto un barattolo di Nutella o una lattina di Coca-Cola in casa loro. Per merenda, bastava una semplice fetta di pane.

    La loro era una casa povera, frugale, senza grilli per la testa,
    dove il pane era pane e si impastava una volta al mese con farina di crusca e panelle di patate, si cuoceva in grandi forme rotonde nel forno a legna,  lasciandole asciugare lentamente, per farle durare più a lungo possibile. Di quel tempo remoto, resta oggi il gusto per i sapori genuini, per i piatti arcaici, senza contraffazione come gli strascinati, parenti stretti delle orecchiette, o i ferretti, sorta di bucatini che più a sud chiamano ziti, e così detti per il ferro da calza intorno ai quali si avvolgevano, altro prodotto di pasta fresca fatta a mano, specialità della nonna analfabeta e inurbata a Potenza, presso la quale visse lunghi periodi della sua vita da bambino. Il mondo di Camillo era tutto molto povero, un mondo autarchico, amico della ristrettezza, dove per nutrirsi si doveva mangiare qualsiasi cosa e fino all'ultima briciola e soprattutto molta verdura. Poteva succedere che uno zio andando a caccia anziché un coniglio prendesse una volpe, animale incommestibile? Benissimo, si cucinava anche la volpe, ingentilendola magari con un soffritto di carote. Poteva succedere che la nonna d'improvviso vedesse entrare in cucina un uccellino? Caspita, che fortuna! La nonna lo prende, lo uccide e lo mette nel sugo.

    “Quel mondo è ancora intatto dentro di me, non è cambiato niente”, confessa oggi Camillo che appena arriva in casa di un amico vuol subito mettere mano ai fornelli, anche se finge di odiare cucinare, e dice di preferire bere solo vino da vitigni italiani. Nasce così la sua passione esclusiva per l'autoctono, che domina sia i gusti del palato, sia l'uso della lingua, e ha radici antiche, consustanziali alla sua prima esperienza. Se oggi Langone non beve Chardonnay, Cabernet, Sauvignon e guarda con commiserazione chi si abbevera di quegli innesti fasulli; se insiste con ossessiva perseveranza a scovare in ogni lista di vini l'originario Gaglioppo, che anticamente era il Magliocco, l'autentico Sangiovese oppure il Montepulciano; se confessa una passione smodata per l'Aglianico quando si trova al sud e per il Lambrusco quando si trova a nord; se odia l'esotismo al punto da ignorare fieramente tutti i prodotti stranieri, dal Burberry al Suv, dal Cointreau alla Vodka, al punto da ostinarsi a professarsi monoglotta restando sempre dentro le frontiere italofone, e coltivare con la stessa devozione con cui studia i segreti dei vitigni autoctoni gli innesti che nei secoli hanno trasformato la lingua di Dante, grazie ad Ariosto, Boccaccio, Gioacchino Belli, Manzoni, ma anche Arbasino e Gianni Brera; è ché Langone è un italiano vero, uno che ha vissuto un'infanzia senza contraffazioni in una casa povera, ma piena di grazia, fra gente semplice, ma pronta alla gratitudine, e per la quale ogni gesto quotidiano era espressione di civiltà, e traduce il sentimento antico e quantomai desueto che la vita è fragile e sacra al tempo stesso, e per questo va protetta e conservata, amata e difesa. “Io vengo dall'Italia, e l'Italia è un'altra cosa”, proclama oggi Langone che da abruzzese-lombardo-lucano si vanta di aver vissuto in tutta Italia, isole escluse, visto che non prende l'aereo, e nemmeno in Calabria, visto che per la sua distanza è quasi un'isola. E la cosa può sembrare strana, perché oggi, come dice lui, il grosso del sistema mediatico italiano è per lo più romano e milanese, ma l'Italia è un'altra cosa.

    Eccentrico, refrattario ai maestri, agli esami, alle accademie,
    animato da una sorta di furore iconoclasta e paesano che lo porta a irridere i famosi, gli arrivati e gli intoccabili (il suo “Manifesto per una destra divina” ne offre una lista lunga e dettagliata) Langone è soprattutto un magnifico autodidatta. Lui che scrive un italiano scolpito nei classici, non ha mai studiato il latino. Anzi non ha mai veramente studiato. Ha frequentato un istituto tecnico agrario, ma sporadicamente, stando spesso a casa, andando volentieri in giro, o sedendo sempre all'ultimo banco impegnato a leggere per conto suo piuttosto che a seguire la lezione. Per non gravare sul bilancio familiare ed evitare di farsi mantenere dai genitori, cosa indegna agli occhi di un fautore della virilità, Langone ha fatto mille mestieri. Il disc jockey, il commerciante di abbigliamento, il venditore ambulante di “abitacci”, cosa che da esteta aborriva, e dovette abbandonare, e poi il barista, il gestore di discoteche, qualcuno aggiunge anche il tenutario di casini, o meglio l'organizzatore di orge con ragazze slave, ma sono le malelingue che confondono la verità della vita con la verosimiglianza della letteratura e pensano al suo esordio narrativo, “Scambi di coppia con uso di cucina”, che oggi è considerato un piccolo classico della letteratura pornografica contemporanea e gli editori ristampano di continuo senza che all'autore sia mai arrivata una royalty.

    Certo è che quando nel 2000, segnalato da Pietrangelo Buttafuoco
    , Langone si presentò al Foglio con un ritratto portentoso di Emilio Colombo, colto fra i centrini di merletto del suo salotto buono di Potenza, rinfrescato dal vento che batte sul ponte di Montereale, aveva l'aurea sulfurea, incerta e molto ambigua di un oste dell'Oltretorrente di Parma, che aveva deciso di lasciare la pubblicità, schifato dal  dover scrivere asservito a Mammona, dai viaggi in treno da pendolare a Milano, dall'intimità forzata con altri maschi – lui che essendo un uomo virile odia la vita tra maschi, il parlare coi maschi, le tavolate di maschi. Tentato da Cl, rinunciò ad entrare nel movimento di Giussani perché c'era già Formigoni, ricorda oggi Langone, che sin dall'ora aveva chiarissima l'incompatibilità mentale in seno alle famiglie della destra italiana. Allora, però, nessuno sapeva che fra i tanti mestieri aveva fatto persino il bagnino, nella riviera romagnola, al Lido del Savio di Milano Marittima. E se uno, conoscendo un po' la sua avversione per la fitness e per ogni tipo di sport, al di là degli amplessi carnali, gli avesse chiesto incredulo se sapesse anche nuotare: “Evidentemente un pochino sapevo”, avrebbe risposto Langone, alludendo a quel tanto di nuoto che basta non per salvare le ragazze da morte sicura per annegamento, ma più modestamente per andare a recuperare i pedalò di quei furbi che per non pagarli li abbandonavano al largo, rientrando a riva a nuoto, o di quei deficienti che colti all'improvviso dal Gherbino, vento ostile che batte da terra sull'Adriatico centro settentrionale, non riuscivano più a rientrare…”. Era una vita molto avventurosa”, ricorda oggi Camillo indulgendo ironico alla fantasmagoria poetica.

    E fra i pochi episodi sottratti al culto dell'oblio gli piace ricordare il servizietto reso a Mogol, che all'epoca era già il famoso paroliere di Lucio Battisti, e un giorno, arrivato in spiaggia con una donna molto bella, chiese al bagnino che era il giovane Langone di andargli a comprare le sigarette, ma non avendo spiccioli, si fece anticipare i soldi, e alla fine scomparve. Langone ci rimase malissimo: sperava di riavere soldi e mancia, ma non ebbe né gli uni né l'altra. Nessuno è buono. Nemmeno Gesù, figuriamoci Mogol che anni dopo di qull'infelice episodio nemmeno si pentì, perché non ricordava più nulla.