Dal reato associativo al concorso esterno
Breve storia di una degenerazione giuridica
“Se gli associati scorrono in armi le campagne o le pubbliche vie, si applica la reclusione da cinque a quindici anni”: con questo lessico da romanzo di cappa e spada, il quarto capoverso dell'articolo 416 del Codice penale introdusse in Italia – unico paese al mondo, o quasi – il reato associativo. Lo stile aulico ha una ragion d'essere: il reato associativo fu introdotto nel codice sabaudo per uno scopo essenziale: arrestare migliaia di contadini meridionali che si sospettava fossero complici dei “briganti”.
“Se gli associati scorrono in armi le campagne o le pubbliche vie, si applica la reclusione da cinque a quindici anni”: con questo lessico da romanzo di cappa e spada, il quarto capoverso dell'articolo 416 del Codice penale introdusse in Italia – unico paese al mondo, o quasi – il reato associativo. Lo stile aulico ha una ragion d'essere: il reato associativo fu introdotto nel codice sabaudo per uno scopo essenziale: arrestare migliaia di contadini meridionali che si sospettava fossero complici dei “briganti”. Il reato associativo nacque in Italia nel pieno di una guerra civile ed ebbe una funzione essenzialmente militare: servì ad affiancare con vere razzie, un'iniziativa armata contro i “briganti”.
Una genesi più che significativa, perché tutta la storia dell'evoluzione dei reati associativi (siamo al 416 ter), si colloca in un contesto simile: si ricorre al reato associativo per contrastare pericolose emergenze nazionali, conflitti sociali, contrasto di organizzazioni camorristiche o mafiose, che non riescono a essere vinti con le armi della politica, congiunte a quelle di un apparato investigativo e giudiziario che sappia portare al processo prove e riscontri obiettivi di responsabilità personali. Nel 1930, col Codice Rocco, il fascismo introdusse l'articolo 270, in cui il reato di “associazione sovversiva” faceva riferimento alla messa fuori legge dei partiti comunisti, socialisti e del movimento anarchico, disciolti con la legge 2.008 nel 1926. Un articolo enucleato in termini, di nuovo, indicativi: “Chiunque nel territorio dello stato promuove, costituisce, organizza o dirige associazioni dirette a stabilire violentemente la dittatura di una classe sociale sulle altre, ovvero a sopprimere violentemente una classe sociale o, comunque, a sovvertire violentemente gli ordinamenti economico o sociali costituiti nello stato, è punito con la reclusione da cinque a dodici anni”.
La dinamica emergenziale, il fiancheggiamento di iniziative repressive di tipo più militare che poliziesco, la riduzione dei diritti del cittadino a vedersi contestata e provata la partecipazione o la complicità a un reato specifico, segnarono l'evoluzione successiva dei reati associativi (siamo all'articolo 270 sexies). Reati in cui basta sia provata la partecipazione all'associazione, senza che l'accusa debba fornire prova di partecipazione a un fatto delittuoso, per determinare condanne superiori a quelle per omicidio. Nel 1982, con la legge La Torre si attualizzò la legislazione contro le organizzazioni mafiose e camorristiche – 416 bis – poi modificata e arricchita di specifiche. Ma è con il maxi processo impostato – e vinto – da Giovanni Falcone, che si impose – contro la volontà dello stesso Falcone – il salto di qualità e si introdusse nella giurisprudenza, mai nel codice, solo nella giurisprudenza, il reato di “concorso esterno in associazione mafiosa” che non è tuttora e per nulla normato, definito, scritto. Falcone contestò in tribunale questo reato mai da solo, ma solo come corollario ad altre e circostanziate e provate e specifiche contestazioni di reati specifici.
Ma, dal 1992 in poi, la rarefazione della cultura giuridica della prova, della definizione specifica del reato contestato diventa assoluta, impalpabile, a disposizione della volontà incontrollata del singolo magistrato, della singola corte. La Cassazione si è più volte occupata del tema, con una serie di sentenze controverse, infine introducendolo nella giurisprudenza con la sentenza delle sezioni unite sul caso Demitry del 1994, salvo poi essere in parte smentita da una sentenza delle sezioni unite, presidente Carnevale, poi corretta da una recente sentenza di avallo, presidente Marvulli. In questo lungo percorso storico, il reato associativo partì dai bifolchi lealisti dei Borboni “che scorrono le campagne in arme” (e questa dizione è riportata ancora oggi), per crescere su se stesso, di astrazione giuridica in astrazione, sino a evidenziare la sua essenza: segnala la necessità politica di sospensione delle garanzie costituzionali quali oggi le intendiamo a fronte di un'emergenza che si ritiene metta in pericolo l'ordinamento costituzionale. E non è un caso che si sia replicato – perfetto e indicativo contagio – nella costruzione giuridica che sottende all'impostazione data da Bush a Guantanamo e alla sua procedura giudiziaria contro al Qaida.
E', insomma, un reato emergenziale, estraneo alla fisiologia di un ordinato ordinamento giudiziario, istituzionale, civile. Fu Falcone a denunciare la potenziale valenza esplosiva di processi impostati solo sulla contestazione di reati associativi nella sua intervista con Marcelle Padovani: “Non sembra che la legge La Torre (416 bis), studiata per perseguire specificamente il fenomeno mafioso e per porre rimedio alla mancanza di prove, dovuta alla limitata collaborazione dei cittadini e alla difficoltà intrinseca nei processi contro mafiosi di ottenere testimonianze, non sembra abbia apportato contributi decisivi nella lotta alla mafia. Anzi, vi è il pericolo che si privilegino discutibili strategie intese a valorizzare ai fini di una condanna, elementi sufficienti solo per aprire un'inchiesta”. Falcone fu lucido anche nello smontare la teoria del “grande vecchio”, il burattino che dall'alto della politica tira – in concorso esterno – i fili: “Non esiste ombra di prova o indizio che suffraghi l'ipotesi di un vertice segreto che si serve della mafia, trasformata in un semplice braccio armato di trame politiche”.
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