Gli artisti di fronte al Giudizio universale

Paolo Rodari

Storico dell'arte formatosi alla Yale University, voce molto valorizzata in Vaticano, lo statunitense monsignor Timothy Verdon dice al Foglio che sabato scorso, incontrando gli artisti nella Cappella Sistina, “il teologo Benedetto XVI ha fatto di più di quanto fece nel 1964 l'esteta Paolo VI”. Ovvero, “mentre Paolo VI parlò nella Sistina senza parlare mai della Sistina, Ratzinger ha spiegato l'arte come espressione della speranza riferendosi direttamente a un'opera d'arte.

Leggi l'intervista ad Angelo Branduardi

    Storico dell'arte formatosi alla Yale University, voce molto valorizzata in Vaticano, lo statunitense monsignor Timothy Verdon dice al Foglio che sabato scorso, incontrando gli artisti nella Cappella Sistina, “il teologo Benedetto XVI ha fatto di più di quanto fece nel 1964 l'esteta Paolo VI”. Ovvero, “mentre Paolo VI parlò nella Sistina senza parlare mai della Sistina, Ratzinger ha spiegato l'arte come espressione della speranza riferendosi direttamente a un'opera d'arte. Ovvero, ha fatto riferimento al ‘Giudizio finale' di Michelangelo che campeggiava sulla parete pochi metri dietro di lui. Ha svolto una catechesi vera e propria basandosi, come spesso gli capita quando incontra persone in luoghi particolarmente suggestivi all'interno del Vaticano, sulle immagini che le opere d'arte che lo circondano gli offrono”.

    Insieme, “facendo guardare verso il ‘Giudizio finale'
    è come se avesse voluto mostrare a tutti gli artisti presenti – credenti e non – un esempio, appunto Michelangelo. Questi si convertì lavorando in Vaticano. La sua conversione fu incontro con Cristo: una possibilità che il Papa ha voluto offrire sabato a tutti gli artisti”.
    Cosa ha detto il Papa agli artisti? “Il Papa aveva davanti persone che hanno ricevuto un grande talento. Li ha invitati a collaborare e ha detto loro di non avere paura della chiesa. Ratzinger ha parlato loro della bellezza, ciò a cui ogni artista si rifà quando crea. Ma ognuno deve riconoscere che la propria bellezza è parziale, che ogni bellezza messa in forma, interpretata in un'opera d'arte, altro non è che un riflesso di una bellezza più grande. Ogni bellezza parziale riverbera l'assoluto. Per la chiesa questa bellezza più grande ha il volto di un uomo, si chiama Gesù Cristo. Egli è la via, è la bellezza che non ruba niente e offre un'opportunità”.

    Ratzinger ha però parlato di due possibili ricerche della bellezza.
    E, dunque, di due tipi di arte. Una non autentica. E' quell'arte che fugge nell'irrazionale o nel mero estetismo. Una bellezza “illusoria e mendace, superficiale e abbagliante fino allo stordimento”, una bellezza “che sfocia nell'oscenità e nella trasgressione”. Una bellezza alla quale negli ultimi anni molta arte si è rifatta. Poi c'è una bellezza autentica “che schiude il cuore dell'uomo alla nostalgia, al desiderio profondo di andare verso l'Altro, verso l'Oltre da sé. Spiega Verdon: “Gli artisti hanno la libertà di scegliere tra l'una e l'altra bellezza. La scelta spetta a loro. In questo senso l'incontro di sabato è stato importante: il Papa ha aperto una strada e chi vuole può percorrerla. E' vero: la realtà intorno è spesso negativa. Anche Ratzinger da bravo filosofo tedesco parte dal fatto che la realtà che abbiamo intorno è negativa. Perché Ratzinger è un realista e non è incline a ottimismi senza senso. Ma insieme è un uomo di fede e sa  proiettarsi su orizzonti più vasti e lontani. Sa che la realtà è spesso malvagia ma sa che si può avere speranza. Questa speranza è la proposta che fa agli artisti. Sabato il modello a cui guardare era sotto gli occhi di tutti: il ‘Giudizio universale' di Michelangelo ricordava come la storia dell'umanità sia una continua ascensione, un'inesausta tensione verso la pienezza. E questo orizzonte ultimo è una meta a cui tutti possono tendere. Questa è la speranza che gli artisti possono cercare di proporre. Una speranza che ha un legame indissolubile con la bellezza, la bellezza piena che per i credenti è Cristo”.

    Leggi l'intervista ad Angelo Branduardi