Così anche la Cina fa finta di tagliare i gas serra

Carlo Stagnaro

Warning: in questi giorni leggerete un sacco di balle. Leggerete che il primo ministro cinese, Wen Jiabao, parteciperà al vertice sul clima di Copenhagen, come Barack Obama. E leggerete che, dopo Washington, anche Pechino farà la sua parte nella riduzione delle emissioni di gas serra. In realtà, il Consiglio di stato cinese ha annunciato, come “misura volontaria”, l'impegno a tagliare del 40-45 per cento la quantità di emissioni prodotte per unità di prodotto interno lordo, ossia l'intensità carbonica della sua economia.

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    Warning: in questi giorni leggerete un sacco di balle. Leggerete che il primo ministro cinese, Wen Jiabao, parteciperà al vertice sul clima di Copenhagen, come Barack Obama. E leggerete che, dopo Washington, anche Pechino farà la sua parte nella riduzione delle emissioni di gas serra. In realtà, il Consiglio di stato cinese ha annunciato, come “misura volontaria”, l'impegno a tagliare del 40-45 per cento la quantità di emissioni prodotte per unità di prodotto interno lordo, ossia l'intensità carbonica della sua economia. Poiché si prevede che il Pil cinese raddoppierà tra oggi e il 2020, questo significa che le emissioni totali del paese cresceranno di circa il 10 per cento. Altro che riduzione. Ma la vera balla non è questa: in fondo, un 10 per cento in più è meglio che moltiplicare per due, come accadrebbe in assenza di miglioramento tecnologico. Solo che questo è uno scenario del tutto irrealistico: qualunque cosa decidano i politici a Copenhagen, qualche miglioramento tecnologico ci sarà.

    La Cina si arricchirà, e potrà permettersi tecnologie più efficienti; senza contare gli effetti dell'innovazione, che ci sarà nei prossimi anni in Cina e altrove, come c'è stata altrove e in Cina negli anni scorsi. Il fatto bizzarro è che l'obiettivo di riduzione del 45 per cento, per quanto possa essere enfatizzato, è sostanzialmente in linea con le tendenze in atto, che sono trainate dalla crescita economica, più che da scelte politiche ad hoc. Dal 1990 a oggi l'intensità carbonica cinese si è ridotta all'incirca del 45 per cento, ed è tornata ad aumentare solo negli ultimi anni come conseguenze dell'entrata in funzione di un poderoso parco elettrico a carbone. E' probabile che, nel medio termine, questo “scarto” si riassorba, man mano che a tali impianti si aggiungeranno quelli in costruzione o pianificati alimentati da altre fonti a basso o nullo contenuto di carbonio, come il nucleare, il gas e le rinnovabili.

    Nei prossimi tre anni, per giunta, Pechino ha annunciato la chiusura di vecchi impianti a carbone per una capacità complessiva di 31 gigawatt (il 5 per cento dell'intero parco elettrico esistente), che saranno sostituiti da centrali più pulite e sofisticate. Da qui al 2020, si prevede poi l'apertura di centrali atomiche per un totale di 60-70 gigawatt, e massicci investimenti sono previsti nell'eolico e nell'idroelettrico. La risultante di queste dinamiche, assieme alla modernizzazione del settore industriale, sarà appunto una significativa riduzione dell'intensità carbonica, che non porterà lontano dall'obiettivo del 45 per cento in meno. Anzi: una semplice estrapolazione dei trend esistenti sembra spingere verso risultati ancora più stellari, mentre uno studio eseguito da Geoffrey Blanford, Richard Richels e Thomas Rutherford per la Fondazione Eni Enrico Mattei indica, nello scenario di riferimento, una riduzione più contenuta ma comunque significativa (circa 35 per cento – si veda anche il grafico).

     

     

     

     

     

     

     


     
    Intensità carbonica in Cina (1980-2006) e proiezioni (2005-2020). Fonte: elaborazione Ibl su dati Eia (2009) e Feem (2008).
     
    Di fatto, dunque, il premier Wen a Copenhagen non farà quasi concessione, rispetto alla linea tradizionale del paese, che rifiuta di aderire a obiettivi quantitativi, come quelli che invece l'Europa vorrebbe. Del resto, al di là del valore simbolico della sua presenza, non potrà portare valore aggiunto neppure Obama, il quale – come ha scritto ieri Il Foglio – vola nella capitale danese con una promessa di modesta entità (taglio delle emissioni del 17 per cento sotto il 2005, pari al 4 per cento rispetto al 1990) e senza alcuna delega negoziale dal Senato. Quindi, parole tante, ma fatti – al di fuori dell'Unione europea, che si è impegnata unilateralmente a far crollare le sue emissioni di almeno il 20 per cento al di sotto del 1990 – pochi. Se dunque la retorica verde continua a imperare, solo gli europei tentano di dare sostanza politica alle loro preoccupazioni. Per il resto, si registra la vendetta postuma della dottrina Bush: massima enfasi sulle tecnologie, poca attenzione agli andamenti di breve termine delle emissioni.

    Quando, nel 2006, George W. lanciò la Asia-Pacific Partnership aveva in mente esattamente il tentativo di coniugare in maniera virtuosa lo sviluppo economico col rallentamento dei tassi di crescita delle emissioni, e infine l'inversione di rotta, grazie al progresso e al trasferimento di tecnologie. In questo modo, sperava di poter perseguire l'obiettivo ambientale senza danneggiare l'economia. All'epoca venne fischiato dalle lobby ecologiste, e dalla stessa Ue, che lo accusarono di tramare l'anti-Kyoto. Oggi, il mondo è sempre fermo attorno al dilemma da lui posto, e sembra orientarsi proprio in quella direzione. I paesi in via di sviluppo – lo dimostrano le dichiarazioni cinesi – non hanno alcuna intenzione di sacrificare le loro prospettive di crescita: quindi, taglieranno le emissioni solo se il mondo industrializzato metterà a disposizione delle forme di compensazione finanziaria. Obama ha farfugliato il minimo sindacale per tener fede alla sua immagine environment-friendly, ma in realtà gioca a carte scoperte: tant'è che proprio dal fronte ambientalista arrivano le critiche più feroci. “Il vertice di Copenhagen – ha scritto Greenpeace in una nota molto acida – non riguarda l'opportunità di scattare delle foto, ma il tentativo di chiudere un accordo globale per fermare il caos climatico”.

    Solo l'Europa resta aggrappata a un obiettivo vincolante e, dal punto di vista economico, masochistico. Ma le pressioni di un partecipante non bastano a garantire il successo del meeting. E, soprattutto, è chiaro che lo spazio negoziale è strettissimo: tutti i principali attori portano i loro doni a Copenhagen, ma si tratta essenzialmente di decisioni già prese secondo logiche e interessi nazionali. Quello in programma a dicembre non è il vertice da cui nascerà Kyoto 2: è un incontro in cui i governi si scambieranno opinioni sulle rispettive politiche, e cercheranno una quadra per far apparire coerente e coordinato un insieme di scelte individuali. Questo ha qualcosa a che vedere con la salvezza del mondo? Se davvero credete che il pianeta sia sull'orlo della catastrofe climatica, è meglio non chiederlo. Qualcuno potrebbe rispondere. 

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