In America lo shopping natalizio strizza l'occhio a Pechino
Oggi in America è Black Friday, inizia la stagione dello shopping natalizio, si digerisce il tacchino di Thanksgiving passando da un negozio all'altro, i saldi sono straordinari. I negozi aprono prestissimo, ma ancora prima, quando è buio, si formano file, piccoli accampamenti per scaldarsi con un caffè caldo aspettando l'apertura delle porte.
Oggi in America è Black Friday, inizia la stagione dello shopping natalizio, si digerisce il tacchino di Thanksgiving passando da un negozio all'altro, i saldi sono straordinari. I negozi aprono prestissimo, ma ancora prima, quando è buio, si formano file, piccoli accampamenti per scaldarsi con un caffè caldo aspettando l'apertura delle porte. Non è un giorno di vacanza ufficiale ma, a parte particolari settori, nessuno va a lavorare e tutti vanno a fare compere. Persino il nome, Black Friday, nome che inorridisce i negozianti – “si può dare un nome così cupo al giorno in cui si fanno più affari di tutto l'anno?” –, pare che tragga origine proprio dal caos di questo giorno speciale: un venerdì nero di traffico. L'anno scorso, dopo appena tre mesi dallo choc finanziario di Wall Street, un americano su due – secondo le stime dei commercianti – ha rispettato la tradizione delle compere: è quasi una questione di orgoglio nazionale, il weekend del Ringraziamento prevede abbuffata il giovedì e shopping il venerdì.
Quest'anno, dopo parecchi venerdì neri, non c'è commentatore che si sia tirato indietro di fronte alla richiesta di previsione: come andrà il Black Friday? I segnali di ripresa, seppure deboli, ci sono, il pil ha qualche sussulto verso la crescita, i consumi sono ripartiti, la vendita di case e auto anche, le banche hanno fatto grandi numeri. Ottimisti e pessimisti si dividono equamente la scena, con i primi che ipotizzano una crescita del 5 per cento rispetto ai risultati dello scorso anno e i secondi che mettono le mani avanti, non immaginatevi una festa dello shopping, e se anche oggi andrà bene, la stagione natalizia potrebbe non riservare piacevoli sorprese.
Quel che è certo è che il Black Friday rappresenta un test nazionale: gli americani hanno ritrovato la fiducia nel loro paese e nel loro sistema? Oppure pesa di più la paura per la disoccupazione a due cifre, per il dollaro ai minimi rispetto alle valute straniere, per il deficit da nove trilioni nei prossimi dieci anni, per l'inflazione che prima o poi dovrà arrivare, per la riforma sanitaria da pagare e per tutti i salvataggi di banche e aziende da ammortizzare? Al di là dell'aria di festa che si respira nelle strade addobbate di rosso, oro e argento e nelle tentazioni a 9 dollari e 99 centesimi, quel che si cerca di capire oggi è se il modello di rilancio economico proposto e applicato dall'Amministrazione Obama e dai suoi cervelloni economisti convince gli americani, e se è destinato a reggere.
Questo è il primo test, e già non è semplicissimo, ma ce n'è un secondo, che nasconde un enorme problema: il suo risultato non è nelle mani degli americani né di Obama né dei suoi cervelloni. La riuscita del secondo test non dipende dal governo di Washington – cosa strana, visto che da lì dipende praticamente tutto – bensì da quello di Pechino. Se il presidente Obama ha passato il suo recente viaggio in Asia a inchinarsi davanti a tutti – passi il re giapponese, ma anche davanti a Hu Jintao, il presidente cinese? – un motivo c'è. Al di là della retorica – sacrosanta – sul fatto che la crisi finanziaria ha costretto gli Stati Uniti a mettere in secondo piano la sua agenda di diritti umani e di stabilità politica per concentrarsi sugli equilibri economici, il modello del G2 starà in piedi senza che nessuno, né la Cina né l'America, faccia polpette dell'altro partner, soltanto in un caso: quello in cui il consumatore cinese comincerà a esistere al di là delle sacche del lusso, che pure in Cina iniziano ad avere un peso, e comincerà a esistere anche a livello globale. Obama scommette sulla possibilità che, entro un tempo ragionevole, ci sia un Black Friday a Pechino, con i cinesi per le strade a celebrare le loro festività acquistando e consumando, magari soltanto prodotti americani.
Come ha spiegato sul New York Times Robert Reich, ex segretario al Lavoro durante il primo mandato clintoniano e oggi professore a Berkeley, la relazione del G2 “è parte del piano per rilanciare la macchina occupazionale degli Stati Uniti”. Oggi la disoccupazione in America è al 10,2 per cento e, nonostante ci siano stati segnali positivi nel settore terziario, il trend resta negativo. Sui posti di lavoro, poi, l'Amministrazione Obama si gioca punti decisivi della propria credibilità. Elencando le motivazioni sottostanti allo stimolo di quasi 800 miliardi di dollari stanziato all'inizio del suo mandato, il presidente disse che, senza l'aiuto del governo, la disoccupazione sarebbe arrivata al nove per cento. Ora è oltre il dieci e, se non è facile valutare che cosa sarebbe successo senza lo stimolo, è pur sempre vero che la promessa occupazionale di Obama è già stata violata.
Per questo l'Amministrazione ha fatto la sua prima scelta: tra il problema inflattivo e quello dei posti di lavoro ha deciso di lavorare sul secondo, un po' perché è di maggior impatto popolare – e tra meno di un anno ci sono le elezioni di mid-term –, un po' perché ha effetti più immediati rispetto all'aumento dell'inflazione. Il segnale di questa scelta strategica è costituito dal dollaro basso e dalla mancanza di politiche effettive per rivalutarlo – a parte le parole del presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, che hanno comunque un peso. Come ha spiegato Simon Johnson, ex economista del Fondo monetario internazionale e oggi commentatore molto di moda, Obama vuole curare la disoccupazione fin da subito in modo da poter registrare risultati elettoralmente utili l'anno prossimo: per farlo è disposto a tutto, anche a vedere la moneta di riserva globale, il dollaro, scambiata a livelli infimi e sotto costante attacco da parte dei cercatori d'oro (che sono soprattutto India, Russia e Cina).
Per questo Obama ha detto che “non possiamo tornare indietro all'era in cui i cinesi ci vendevano qualsiasi cosa, ma noi non vendevamo niente a loro”. Il presidente semplicemente non si può permettere che questo accada: se riesce a stimolare la produttività e a creare posti di lavoro, poi tutti i prodotti creati dovrà pur venderli a qualcuno. Il mercato americano c'è, ma è già invaso dagli stranieri, e quindi non resta che ambire a un'altra, grande piazza: il mitico mercato interno cinese.
Nel 2009, la Cina è seconda soltanto agli Stati Uniti nella vendita di computer, in gran parte acquistati da cinesi che prima d'ora non avevano mai avuto un computer. Lo stesso vale per i telefoni cellulari e, se si escludono le auto a grande cilindrata, i cinesi hanno acquistato nello scorso anno tante auto quanto gli americani (fino al 2006 questi ultimi ne compravano il doppio rispetto ai cinesi). Come spiega Robert Reich, l'impero commerciale di Procter & Gamble è così ben insediato nel mercato cinese che molti sono convinti che i suoi prodotti siano marchi cinesi.
Se la Cina continua a crescere agli stessi livelli di oggi e i benefici di questa crescita ricadono sul miliardo e trecentomila abitanti dell'impero celeste, “il paese diventerà il più grande bazaar della storia”. Questo significa che anche l'America potrà vendere i suoi prodotti nell'immenso bazaar e così la scommessa occupazionale di Obama sarebbe vinta. Ma prima di tutto le relazioni nel G2 devono “rebalance”, come dice il presidente americano, cioè trovare un nuovo equilibrio, cioè deve esserci da parte di Pechino la volontà di creare davvero il consumatore cinese.
Il grande progetto di stimolo adottato dal regime di Hu Jintao in risposta alla crisi economica – 600 miliardi di dollari – è stato pensato più per aumentare la capacità produttiva della Cina che per sviluppare i consumi. Dove andrà a finire tale aumento di produttività se non c'è un consumatore cinese? In Europa e negli Stati Uniti, naturalmente, il che farebbe pensare che il modello di Pechino, basato sulle esportazioni, non è destinato a modificarsi. Se nel frattempo la politica sulla valuta cinese non cambia, nonostante le preghiere di Washington, l'impressione diventa brusca certezza. Se la Cina vuole restare un paese produttore, l'America è costretta a restare un paese consumatore.
Il consumatore cinese è molto parsimonioso, e non soltanto perché non ha dimestichezza con le lusinghe del capitalismo. Nonostante l'impronta comunista, in Cina l'istruzione, la sanità e la pensione sono per lo più a carico delle famiglie. Poiché i giovani maschi sono molti, molti di più delle giovani femmine, se sei padre o madre di un ragazzo devi accumulare parecchia ricchezza per competere in quello che Reich definisce “il mercato dei matrimoni”. In più la popolazione invecchia rapidamente e il ricambio generazionale è distorto dalla politica del figlio unico imposta dal regime. Stando così le cose, il consumatore cinese medio non è destinato a rinunciare al suo risparmio per acquistare beni americani.
Ci saranno nuovi consumatori di lusso, certo, e già le immagini dei cinesi griffati che si mostrano con fare provocatorio alle telecamere straniere stanno facendo il giro del web. Ma se da un lato esiste, secondo gli esperti, una connessione tra ricchezza e nazionalismo – se sei più ricco sei anche più nazionalista e non vuoi parlare con gli americani, li vuoi dominare – dall'altro è il regime stesso a non avere alcun interesse a creare consumatori consapevoli: il modello basato sulla produzione è fatto per creare posti di lavoro, permettere l'arrivo nelle città di milioni di lavoratori che possono così essere tenuti sotto controllo. La politica economica di Pechino è di fatto una politica sociale: soltanto controllando rigidamente il mercato del lavoro, il regime riesce a scacciare lo spettro di una rivolta popolare fatta in nome di una maggiore tutela dei diritti, prima di tutto dei diritti dei lavoratori. Detto in sintesi: la pace sociale cinese si fonda sulle esportazioni.
Quando Obama chiede un nuovo equilibrio nei rapporto esportazioni-importazioni che caratterizza il G2, in realtà sta chiedendo ai cinesi di mettere in discussione il loro patto sociale. C'è da aspettarsi che Pechino continui, cortesemente, a dire di no.
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