Perché la comunicazione ha bisogno della rete
Il pregiudizio sui sociologi è sempre forte. Anche ieri era in atto, quando si ascoltava parlare Manuel Castells, che però ha pubblicato il suo ultimo libro (“Comunicazione e potere”, quasi 700 pagine, prezzo non economico di 34,50 euro) con la casa editrice dell'Università Bocconi, insegna alla University of southern California, ha insegnato a Berkeley. Un nome di richiamo.
Il pregiudizio sui sociologi è sempre forte. Anche ieri era in atto, quando si ascoltava parlare Manuel Castells, che però ha pubblicato il suo ultimo libro (“Comunicazione e potere”, quasi 700 pagine, prezzo non economico di 34,50 euro) con la casa editrice dell'Università Bocconi, insegna alla University of southern California, ha insegnato a Berkeley. Un nome di richiamo.
Il seminario, nella cornice del chiostro del Bramante a Roma, partiva da un titolo troppo ambizioso: “La comunicazione nella me-society: traiettorie di accesso al palinsesto personale”. Idea interessante: la comunicazione si crea e si trasforma anche (forse soprattutto?) in relazione al me, all'io che scrivo e segnalo su Facebook, mi creo il mio giornale in rete selezionando le notizie e le fonti che mi interessano, mi guardo i video che voglio, in una parola creo il mio palinsesto dell'informazione. Dire qualcosa di nuovo e originale non è facile e infatti il professore ci è riuscito fino a un certo punto. Ha sollevato problemi, soluzioni poche. Ha detto che le aziende, e quelle editoriali prima di tutte, dovranno trovare nuovi modelli di business, altrimenti non sopravviveranno a lungo se non grazie ad aiuti pubblici. Non ha però indicato come fare: “Ci sto studiando su”.
Ha detto che la politica non può fare a meno di fare i conti con la rete e le reti, ma per ora i politici considerano Internet un mezzo di propaganda, non ancora una piattaforma propositiva da cui lanciare e realizzare idee. Ha detto che “il sogno di un politico è essere proprietario dei mezzi d'informazione, e qualche genio dell'umanità ci è riuscito” (parlava di Murdoch o di Berlusoni?). Poi ha aggiunto che in Italia esiste il monopolio dell'informazione, mentre i media devono essere plurali e autorevoli. Non come la Fox americana, che dà ai suoi telespettatori quello che questi vogliono sentirsi raccontare. Analisi appena riduttiva, se non altro.
Le due idee più stimolanti sulla comunicazione del futuro erano invece nel discorso di Massimo Micucci, presidente di Reti, società organizzatrice dell'evento e della ricerca Anteprima, sul tema principale del prossimo anno, cioè la comunicazione. Nello spiegare che responsabilizzare è meglio che vietare, Micucci ha citato l'esempio del chiosco pirata. Con un computer ci si connette (wi-fi) al chiosco pirata e si accede a un immenso database zeppo di file (pirata). Della serie: non tentare di bloccare la rete perché è inutile come arginare l'acqua del mare. Nel dimostrare come la comunicazione, ma forse la vita, si stia iphonizzando, con un mix sempre crescente tra informazione, pubblicità, servizi, personalizzazioni, ha raccontato l'idea di un'agenzia di pubblicità giapponese che fa scandire il tempo da bellissime ragazze glamour fotografate in un luogo della città con un cartello che indica l'ora esatta. Ottima idea, di questi tempi.
Il Foglio sportivo - in corpore sano