Perché si può criticare Tettamanzi senza malizia
Ambrogio è imparagonabile, si sa, non per niente è santo e dottore della chiesa. Ma una questione ambrosiana esiste, e pesa nel mondo cattolico come un segno di contraddizione, un segno che avrà anche i suoi significati positivi, non c'è da dubitarne, ma non manca di lati negativi, fiacchi, ipocriti, insipidi, tiepidi. Se fosse possibile criticare la curia milanese e i suoi recenti titolari, senza malizia e senza vedersi attribuire malanimo, ragioneremmo così.
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Ambrogio è imparagonabile, si sa, non per niente è santo e dottore della chiesa. Ma una questione ambrosiana esiste, e pesa nel mondo cattolico come un segno di contraddizione, un segno che avrà anche i suoi significati positivi, non c'è da dubitarne, ma non manca di lati negativi, fiacchi, ipocriti, insipidi, tiepidi. Se fosse possibile criticare la curia milanese e i suoi recenti titolari, senza malizia e senza vedersi attribuire malanimo, ragioneremmo così. Partendo, per esempio, dal fatto storico che Ambrogio era un santo statista, un facitore di civiltà e rito e territorialità felice, come i suoi successori della Riforma cattolica cinquecentesca, e così occupava con estrema autorevolezza uno spazio pubblico di cui la chiesa, divenuta religione di stato nella sua era, non aveva paura.
Quella bella ma fragile persona che è Dionigi Tettamanzi, invece, in una con testimoni altrettanto autorevoli, per esempio il cardinal Martini, per esempio il priore di Bose Enzo Bianchi, dello spazio pubblico della religione diffida. Non importa che gli ultimi due papi si siano consacrati anima e corpo alla riaffermazione della libertà di culto e di pensiero e di prassi cristiana; a Milano la fede autorizzata dal clero (e da Massimo Cacciari) si spiritualizza ogni anno di più, la materialità anche civile della presenza religiosa, così corposamente e sapidamente evocata nelle splendide memorie del cardinale Giacomo Biffi, uno straordinario parroco lombardo e un grandissimo italiano, si dissolve in prediche solidaristiche, sociologiche, pauperistiche, povere di visibilità cristiana e ricche di suggestioni tipiche dell'establishment politico cattolico-democratico, ma senza più il genio religioso e politico dei Lazzati.
Così Tettamanzi è e resta quello del convegno di Verona, che cita contro Ruini e Benedetto XVI Ignazio d'Antiochia per affermare il bello di un cristianesimo che preferibilmente ha pudore nel dire sé stesso, e infatti il sagrato del Duomo di Milano è ospite solitario e muto delle bottiglie d'acqua per Eluana Englaro, ma tribuna possente e recettiva per le preghiere islamiche di protesta religiosa e politica. Bianchi addirittura vuole tenere il Crocefisso nel cassetto, perché appeso a un muro gli sembra un'arma brandita dai finti devoti che vogliono disfare Cristo e agitarlo come clava nel nome di una religione civile. L'ideologia liberale ambrosiana avrebbe radici serie e profonde, specie nel grande apostolato moderno di un Montini, poi Paolo VI, che fece della contraddizione e della complessità, da arcivescovo della città e poi da Papa, una ricchezza teologica ed umana da coltivare di fronte alla grande deriva della seconda metà del secolo scorso. Ma anche lui, come Ambrogio, sebbene nel pieno della secolarizzazione e della rottura dell'antico patto costantiniano della cristianità, agiva, diceva e significava qualcosa, non si limitava a ostentare il pudore di una cultura sociale spesso debole, banale.
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