Discorso da Nobel
Obama spiega che per fare la pace a volte serve la guerra
Il primo commento della Cnn è stato: “Unusual”, insolito. Barack Obama è andato a Oslo a ritirare un Nobel per la pace che lui stesso pensa di non aver meritato, rispetto ai risultati ottenuti da altri grandi uomini politici e da quegli sconosciuti militanti della libertà che ogni giorno si battono per un mondo migliore. Alla platea norvegese e ai giornalisti accreditati che dal suo discorso di Oslo si aspettavano un inno ai buoni sentimenti e magari qualche frecciatina ai predecessori guerrafondai, il presidente ha preferito parlare di guerra anziché di pace.
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Il primo commento della Cnn è stato: “Unusual”, insolito. Barack Obama è andato a Oslo a ritirare un Nobel per la pace che lui stesso pensa di non aver meritato, rispetto ai risultati ottenuti da altri grandi uomini politici e da quegli sconosciuti militanti della libertà che ogni giorno si battono per un mondo migliore. Alla platea norvegese e ai giornalisti accreditati che dal suo discorso di Oslo si aspettavano un inno ai buoni sentimenti e magari qualche frecciatina ai predecessori guerrafondai, il presidente ha preferito parlare di guerra anziché di pace, di come talvolta l'uso della forza sia necessario a raggiungere una pace duratura.
E' sembrato un Obama diverso quello di Oslo: emozionato, ispirato, idealista, più simile al George W. Bush del discorso di inaugurazione del secondo mandato – quello con l'obiettivo di cancellare la tirannia dal mondo – che a un posato accademico a suo agio nei salotti buoni della politica estera di Washington. Il gran discorso del Nobel va letto assieme a quello della settimana scorsa sull'Afghanistan e nei prossimi giorni andrà verificato se i due testi in realtà segnalano una svolta politica, ideologica ed esistenziale del presidente. Quando Obama ha annunciato l'escalation militare a Kabul era sembrato troppo tecnico e poco appassionato, inappuntabile ma incapace di mobilitare le coscienze su una guerra che ormai dura da oltre otto anni. Eppure, anche se riluttante, ha scelto l'impervia strada dello scontro diretto con il nemico islamista, piuttosto che un'altra più accomodante.
A Oslo non ha fatto finta di niente, non ha negato il paradosso del Nobel per la pace impegnato a fare la guerra, anzi ha fornito le motivazioni morali della guerra giusta, ha spiegato che purtroppo il male esiste e va affrontato, se necessario con la forza militare, così come nel passato hanno fatto i suoi predecessori. Obama, soprattutto, ha ribadito l'essenza liberatrice del ruolo e della missione americana nel mondo e l'irrinunciabilità alle azioni unilaterali in difesa del suo paese. E' ancora prematuro dire se qualcosa sia cambiato in Obama, se questo primo anno di presidenza marchiato dalle dolorose decisioni di non scappare dall'Iraq, di mettere pressione sul Pakistan e di combattere sul serio in Afghanistan, lo abbiano convinto che una cosa è invocare la pace quando non si hanno responsabilità di governo, un'altra è battersi per la sicurezza del mondo libero da presidente degli Stati Uniti e da comandante in capo dell'esercito americano.
Lo si capirà nei prossimi mesi, anche se già adesso – per la prima volta, dopo mesi di eccessiva cautela da Realpolitik – si è rivolto ai manifestanti democratici iraniani ricordando loro che il mondo libero li sostiene, sta dalla loro parte. A Oslo, da Nobel per la pace, Obama ha detto che il mondo deve ricordarsi che la stabilità post Seconda guerra mondiale non è arrivata soltanto grazie alle istituzioni internazionali e alle belle parole, perché “qualsiasi errore possiamo aver commesso in passato, la pura verità è che l'America ha aiutato a garantire la sicurezza globale per più di sessant'anni con il sangue dei suoi cittadini e la forza del suo esercito”.
Obama ha ricordato inoltre che “il servizio e il sacrificio dei nostri uomini e donne in uniforme ha promosso pace e ricchezza dalla Germania alla Corea e ha avviato la democrazia in posti come i Balcani. Ci siamo accollati questo peso non perché cerchiamo di imporre la nostra volontà. Lo abbiamo fatto per un egoismo illuminato, perché cerchiamo un futuro migliore per i nostri figli e nipoti e crediamo che le loro vite saranno migliori se i figli e i nipoti degli altri popoli vivono liberi e ricchi. Quindi sì, gli strumenti della guerra hanno davvero un ruolo nella salvaguardia della pace”. Il presidente Barack Obama non è diventato un propagandista della guerra. L'esempio non violento di Gandhi e Martin Luther King resta un modello. Ma da capo di stato che ha giurato di proteggere e difendere la sua nazione, Obama ha spiegato che non può essere guidato solo dal loro esempio: “Un movimento non violento non avrebbe fermato Hitler. I negoziati non possono convincere al Qaida a deporre le armi. Riconoscere che la forza qualche volta è necessaria non è cinismo, è conoscere la storia”.
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