Gianni Pennacchi era una vita che si divertiva a fregare la morte

Stefano Di Michele

Non gli somiglia per niente, a Gianni, questa morte dolorosa e scema. Una scala che traballa, la caduta, l'emorragia interna che consuma – e ti porta via. Così. Ma è modo di morire questo? E che, gente come Gianni adesso muore per incidente domestico, come se avesse svalvolato il phon o fosse stata data troppa cera per terra? Non gli somiglia per niente intanto per come Gianni era in vita, ma non gli somiglia per niente nemmeno per come tutte le altre volte la morte l'aveva sfiorato.

    Non gli somiglia per niente, a Gianni, questa morte dolorosa e scema. Una scala che traballa, la caduta, l'emorragia interna che consuma – e ti porta via. Così. Ma è modo di morire questo? E che, gente come Gianni adesso muore per incidente domestico, come se avesse svalvolato il phon o fosse stata data troppa cera per terra? Non gli somiglia per niente intanto per come Gianni era in vita, ma non gli somiglia per niente nemmeno per come tutte le altre volte la morte l'aveva sfiorato – e lui l'aveva mandata a farsi fottere, sempre fregandola sul filo di lana, prima della curva finale e del buio totale. Pure senza prenderla troppo sul serio, quella eterna permalosa rompicazzo – e anzi finora, per farlo morire almeno una volta, l'avevano dovuto far morire per finta, al cinema. Crivellato di pallottole – e almeno era una signora morte, anche se giustamene pure quella, a Gianni, non piaceva per niente. In mezzo al Transatlantico, Gianni ti arpionava con un accento di stupore e un vocione tonante che correva da un capo all'altro dell'immenso salone: aho, ma che dici? aho, hai visto quello?

    Forse credeva a tutto, facendo finta di credere a niente.
    O forse a niente credeva, ma certo si divertiva, ed ecco insieme una risata e uno sbuffare scocciato e un sospirare tonante. Una divertita fatica, quella di Gianni: poteva scrivere di tutti – capi politici, tromboni dimezzati, mezzecalzette impettite di sinistra e di destra – ma nessuno si salvava dallo sberleffo, dallo sguardo da cui traspariva un principio di saggezza alla Totò: lei è un imbecille, s'informi… Mille arrampicate sulle chiacchiere politiche, per poi cadere da una stupidissima scala? Se n'è andato sorprendendo per l'ennesima volta, Sciarpa Bianca. Così lo chiamavano nel '68, quando Gianni era il più bello del movimento (testimoniano quelle che c'erano) e girava con questa stola candida al collo, e trovava pure il modo di fare il maoista – che Pennacchi maoista sarebbe come la Grande Muraglia a Latina. E la storia della sua famiglia che il fratello Antonio raccontò nel bellissimo “Il fasciocomunista”, storia che finì sullo schermo e Gianni diventò Manrico, interpretato da Riccardo Scamarcio – bello sì, ma l'originale, protestò, non aveva “bisogno del soccorso estetico”, e pazienza, ma pure finire steso a terra dai caramba: ecché cazzo!

    Ha avuto momenti duri, Gianni. E molti divertenti. E tanti surreali.
    Quasi un altro romanzo. Come quando fu investito da un'auto e in ospedale gli scoprirono, oltre alle nuove ammaccature, un accidente di vecchio male, e riuscì a scansare pure quello. Raccontava che Antonio aveva scritto un nuovo libro che finiva nel '44, un anno prima della sua nascita. “Nell'altro mi ha fatto morire, in questo non mi ha fatto nascere”, rideva. Ma per nascere era nato, Gianni Pennacchi, e a volte aveva persino fregato la morte. Così quella – proprio tignosa – per averla vinta ha dovuto mettergli sotto i piedi una stupidissima scala.