Obama, il "realista cristiano"
Barack Obama non è né bushiano né nixoniano, non è né integralmente idealista né perfettamente realista. Il quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti ha una sua specificità politica e filosofica, anche generazionale, che sfugge alle categorie del recente passato, ma che ha radici ben salde nella tradizione politica americana. “E' un realista cristiano”, ha scritto l'editorialista del New York Times David Brooks, fine osservatore della società e della politica del suo paese.
Barack Obama non è né bushiano né nixoniano, non è né integralmente idealista né perfettamente realista. Il quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti ha una sua specificità politica e filosofica, anche generazionale, che sfugge alle categorie del recente passato, ma che ha radici ben salde nella tradizione politica americana. “E' un realista cristiano”, ha scritto l'editorialista del New York Times David Brooks, fine osservatore della società e della politica del suo paese. Il suo pensatore di riferimento, ha detto Obama a Brooks due anni fa, è il teologo protestante Reinhold Niebuhr, studioso della relazione tra politica e fede cristiana, teorico moderno del concetto di guerra giusta (“ci serviamo sempre del male per prevenire un male più grande”) e ispiratore di Martin Luther King.
La politica estera di Obama, ha scritto Brooks, non è guidata dalla cultura antagonista del Sessantotto e non è influenzata dalla tragedia del Vietnam. Obama si ispira a quel liberalismo della Guerra fredda che nell'ultimo quarantennio la sinistra americana ha scelto di trascurare. Dopo il Vietnam, a sinistra è diventato sconveniente parlare di “evil”, del “male”. I liberal hanno cominciato a “credere nell'intrinseca bontà dell'uomo e nelle infinite possibilità della trattativa. Alcuni hanno pensato che la causa delle guerre fossero i programmi militari e si sono impegnati a ridurre le armi. Altri hanno costruito la loro politica estera in opposizione a qualsiasi cosa facesse Bush. Se Bush era un idealista impegnato nella ricostruzione delle nazioni, loro diventavano realisti nixoniani”.
Barack Obama non è così. Anche per la sua esperienza personale di intellettuale di colore, secondo Brooks, riconosce l'esistenza del male, “conosce fin da giovane il cristianesimo profetico, la tendenza umana verso la corruzione, la tragica sensibilità di Abramo Lincoln e il pessimismo guardingo di Niebuhr”. Obama ha detto a Brooks che dal teologo cristiano ha tratto l'idea che nel mondo “esistono il male, gli stenti e il dolore”, ma anche la consapevolezza che “dobbiamo essere composti e umili nel pensare che possiamo eliminare queste cose, senza però usarle come scusa per giustificare cinismo e inattività”.
Con questo bagaglio filosofico sulle spalle, Obama ha ridato vita a quel realismo cristiano che ai tempi della Guerra fredda aveva fornito supporto morale al pensiero liberal e di sinistra e che, paradossalmente, negli anni di Reagan e Bush è stato mantenuto vivo dal movimento neoconservatore. Il discorso sull'Afghanistan a West Point di due settimane fa, ma soprattutto quello pronunciato alla premiazione del Nobel per la pace a Oslo mercoledì scorso, secondo Brooks segnalano in modo plastico la particolarità del pensiero di Obama, quella di un politico intento a trovare una soluzione al paradosso della guerra, ritenuta giustamente una follia ma anche necessaria. Quando nel 2002, Obama ha fatto un discorso contro la guerra in Iraq, ha parlato da “cold war liberal”. Non ha criticato la guerra in sé, ma soltanto quella che considerava “stupida” e per questo allora è stato fischiato.
“Altri esponenti del Partito democratico sanno essere inflessibili in modo laico – ha scritto Brooks – I discorsi di Obama invece sono ampiamente teologici”, perché affrontano il cuore della lotta della natura umana, quella tra il bene e il male. La dottrina Obama, secondo Brooks, ormai è chiara, malgrado qualche passo falso iniziale, quando ha valutato male la portata delle proteste di piazza di Teheran. L'America di Obama vuole mantenere il ruolo storico di strumento per la diffusione della democrazia, della ricchezza e della salvaguardia dei diritti umani, ma ha anche un interesse strategico a non allontanarsi da certe regole di condotta. Obama sente il dovere morale di promuovere la libertà, ma come diceva Niebuhr “sorvegliando i nostri eccessi”, in modo umile, senza essere travolti dal fervore, dai toni eccitati e grandiosi.
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