La dottrina Fazio

Stefano Cingolani

Un tuffo nel mare della memoria, un balzo nei favolosi anni 60 quando John Fitzgerald Kennedy lanciava la Nep, la nuova politica economica, stesso acronimo ma niente a che vedere con quella leninista. Affetto, nostalgia, nessun rimpianto, tanto meno una futile ricerca del tempo perduto. Antonio Fazio vuole ricordare Paul Samuelson, spentosi il 13 dicembre a 94 anni, il suo maestro, che di JFK fu consigliere.

    Un tuffo nel mare della memoria, un balzo nei favolosi anni 60 quando John Fitzgerald Kennedy lanciava la Nep, la nuova politica economica, stesso acronimo ma niente a che vedere con quella leninista. Affetto, nostalgia, nessun rimpianto, tanto meno una futile ricerca del tempo perduto. Antonio Fazio vuole ricordare Paul Samuelson, spentosi il 13 dicembre a 94 anni, il suo maestro, che di JFK fu consigliere. Nello studio in centro non ancora del tutto allestito, rilassato, asciutto, con l'eterna stilografica che spunta dal taschino, l'ex governatore della Banca d'Italia getta un filo tra le scoperte teoriche di allora e le inquietudini di oggi, le nuove acquisizioni della macroeconomia e la sua capacità di interpretare la realtà, anche quella presente, o di progettare entro i limiti della ragione, il futuro. “Samuelson è stato il maggior economista del secolo scorso e il più influente, dopo Keynes – dice – dietro di lui John Hicks e Milton Friedman; più astratto l'inglese più innovatore in teoria monetaria l'americano”.
     
    Si accusa l'impotenza degli economisti, la loro incapacità di capire la crisi attuale. Piano, piano. In verità, quel che è accaduto nell'ultimo biennio non è poi così incomprensibile. “Non è affatto oscuro come la moneta sfugge di mano, il problema è che, dopo la fine del sistema di Bretton Woods, non c'è modo di regolarla su scala internazionale”. Ci vorrebbe una banca centrale globale, la quale richiede però un governo globale. Utopia, sogno irrealizzabile? Non esattamente. “Un governo mondiale della moneta c'è stato e l'abbiamo abbandonato nel 1971 quando la dichiarazione di inconvertibilità del dollaro ha messo fine agli accordi di Bretton Woods”, insiste l'ex governatore. Ma facciamo un passo indietro, anche per capire meglio dove andiamo a parare.

    Correva l'anno 1962 quando il giovane laureato, appena assunto in Banca d'Italia, sbarcò a Boston e in una piccola aula del Massachusetts Institute of Technology, che sarebbe poi diventato fucina di premi Nobel, vide per la prima volta Samuelson (al quale, del resto, toccò il riconoscimento più alto nel 1970, primo nella lunga serie di americani). L'ultimo incontro è stato nel 2007, in un sentimental journey a Boston con tutta la famiglia. Era il 22 agosto e Fazio non aveva nessuna idea di poterlo trovare nella stanzetta di sempre, immerso nella lettura, alla scoperta di nuove idee. Nel settembre dello stesso anno, in uno scambio di lettere, il grande economista ricordava che il “dear Antonio” era stato il primo governatore tra i suoi allievi, il secondo è Ben Bernanke che Time ha incoronato uomo dell'anno. A insegnare a piccoli gruppi di cinque sei studenti al massimo, erano docenti del calibro di Kenneth Arrow, James Tobin, Franco Modigliani.

    E il modo in cui riuscirono a formalizzare la complessa,
    e per molti versi incompiuta, teoria keynesiana, a renderla uno strumento per comprendere la realtà e trasformarla, Fazio lo rammenta ancor oggi come una illuminazione. E' grazie a quelle ricerche che, tornato all'ufficio studi della Banca d'Italia, Guido Carli gli diede l'incarico di vedere se era possibile realizzare un modello macro dell'economia italiana. I ricordi traboccano dal vaso della memoria. Come quando nel 1966 Ezio Tarantelli, brillantissima mente economica spenta dalle Brigate rosse, fece uscire dal suo magnetofono la voce di Joan Robinson, la keynesiana gauchiste della scuola di Cambridge con la quale proprio Samuelson aveva incrociato i ferri. O gli sforzi con i colleghi, a cominciare da Franco Cotula e Mario Ercolani, per mettere in correlazione l'economia reale e i flussi finanziari. “Samuelson scriveva le sue formule sulla lavagna – ricorda Fazio – ma aveva una capacità unica di calarle nella prassi, facendo capire a noi studenti come potevano essere applicate”.  Possedeva una erudizione che metteva al servizio della sua cultura vastissima. Leggeva il tedesco e l'italiano.

    Apprezzava molto Luigi Einaudi
    , anche se aveva criticato e sfidato la Teoria generale di Keynes fin dalla sua pubblicazione. “Nel 1997 invitai Samuelson a una delle lezioni Baffi organizzate dalla Banca d'Italia. E lui affrontò il mercato del lavoro, mettendo a confronto il modello americano e quello europeo. Mi ricordo che usò una espressione forte: le società diventeranno feroci, o forse disse spietate, nei confronti del lavoro. E illustrò il modo in cui reagivano gli Stati Uniti. Ebbene, anche quell'analisi diede un contributo alle riforme poi realizzate in Italia”. Non solo. Oggi bisogna dargli di nuovo ragione.

    Si parla di ripresa senza occupazione ed ecco, invece, che gli ultimi dati americani smentiscono anche questa previsione. “Nel modello europeo l'aggiustamento è più lento – spiega Fazio – Il licenziamento non avviene subito, ma nel tempo, perché agisce sul turnover: in sostanza si attende che i lavoratori anziani escano dall'azienda e non li si rimpiazza”. Un altro schema teorico confermato da questa recessione, è il ciclo delle aspettative analizzato da Keynes. All'abbassarsi delle attese rispetto al futuro, corrisponde un calo degli investimenti più che proporzionale, perché si tratta di adattare il livello del capitale, portandolo in linea con la produzione attesa. Il sistema si rimette in moto quando gli imprenditori capiscono che c'è spazio per nuova capacità produttiva. Ecco, quello è il momento di uscire, la exit strategy di cui si parla, può essere avviata quando ripartono gli investimenti. Se lo stimolo viene ritirato prima, si rischia di ritardare la ripresa, dopo di drogarla. In tutto il gran dibattito in corso sull'eccesso di debito pubblico e su come smaltirlo, Fazio è sempre per la politica del rigore, contro gli aggiustamenti una tantum. E ribadisce il ruolo di pungolo che esercita il banchiere centrale. Vale per Jean-Claude Trichet come per Mario Draghi. Ricorda quando il deficit pubblico italiano raggiungeva il 15 per cento del prodotto lordo e il mercato rifiutò le nuove emissioni di bot. Allora venne sfiorato il rischio default. La Banca d'Italia chiamò i principali banchieri e li invitò ad acquistare i titoli pubblici. Si può ancora fare, oggi che la metà dei titoli circola sui mercati esteri? “Quel che conta è sempre la credibilità di chi gestisce la politica monetaria e di bilancio”.

    La componente discrezionale gioca un ruolo importante
    nel momento in cui si parla di controllare la quantità e la velocità di circolazione della moneta. Fazio racconta che nel 1994, quando bisognava gestire la crisi del Messico (prima di una lunga serie che arriva fino a oggi attraverso Russia, Thailandia, Brasile, Argentina), durante il G7 di Toronto si cominciò a discutere se e come controllare la quantità della moneta e la qualità del credito. La Banca d'Italia era per seguire entrambe le strade, appoggiata dalla Bundesbank. La Banca d'Inghilterra si oppose. “Cominciamo con il credito”, disse l'allora governatore Eddie George. E furono gettate le basi per l'accordo sui requisiti di capitale noto come Basilea II. L'Assobancaria teme un impatto negativo dei nuovi criteri. Per Fazio, ci vogliono aggiornamenti, anche più flessibilità, ma salvando l'impianto. E la moneta? Dopo il 1971, quando venne abbandonato il cambio fisso tra dollaro e oro, si è consentito di creare liquidità in modo pressoché  illimitato. Il circuito può essere spiegato così.

    Il sistema americano comincia a far credito con grande liberalità.
    Non riesce a finanziarlo, quindi vende obbligazioni alle società di assicurazioni le quali hanno un'ampia liquidità, ma non oltre un certo limite, raggiunto il quale esse emettono obbligazioni sui mercati internazionali. Alcune banche che operano in titoli e hanno avuto la possibilità di abbassare i loro coefficienti di capitale dall'8 al 2 per cento, si riempiono di bond. Quando sono troppo piene li impacchettano e li collocano sul mercato, creando titoli derivati i quali aumentano la velocità di circolazione della moneta fino al punto di rottura che avviene allorché qualcuno, anche nel luogo più periferico del sistema, non è più in grado di alimentare questo meccanismo. Come è accaduto con i subprime. L'abbondanza di liquidità spinge gli equilibri al di là della prudenza e finanzia tutto, anche ciò che non meriterebbe. I derivati non sono la causa della crisi finanziaria, semmai l'hanno accelerata. Sono strumenti utili, ma vanno maneggiati con cura. “Si possono usare per ridurre il rischio o per fare una scommessa. L'assicurazione sulla mia vita è una riduzione di rischio, se la stipulo sulla vita di un altro, faccio una pura e semplice scommessa”.

    Il ciclo finanziario è intrinsecamente instabile,
    anche su questo Fazio la pensa come Keynes. Il mercato è sottoposto a continue scosse telluriche e l'equilibrio viene raggiunto a prezzo di grandi rovine. “La moneta come segno, la moneta fiduciaria, non il puro mezzo di scambio, non ha un valore intrinseco e quindi prezzo di equilibrio. Esiste la quantità di moneta ma per trovare un punto di equilibrio occorre che essa sia fissata da qualcuno, esogenamente, per esempio dalle banche centrali. Se ciò non accade, poiché la moneta crea credito e il credito crea moneta, all'infinito, il sistema è soggetto a inflazione, questa abbassa la qualità del credito e si generano le crisi con una sequenza di inflazione-deflazione. Per questo motivo occorre controllare la quantità di moneta, governarla a livello mondiale, un'àncora alle economie nel mare della liquidità. Prenda Leon Walras, il maggior teorico dell'equilibrio generale, alla fine, nel suo modello il valore intrinseco è l'oro. Anche per questo ho sempre rifiutato di vendere le nostre riserve”.

    Se l'instabilità è inscritta nel meccanismo di mercato
    , ecco che occorre un soggetto esterno. Per Fazio, è la banca centrale. Ma quando anch'essa sbaglia? La crisi odierna non è a sua volta figlia degli errori nella politica monetaria? Prendiamo Alan Greenspan. Non ha insistito troppo nel tenere i tassi di interesse vicini allo zero? Fazio non biasima l'ex presidente della Fed per il quale nutre grande stima e amicizia. Ricorda un altro vertice a Montreal nel 2000 in cui per affrontare l'incipiente crisi high tech e poi l'11 settembre. La politica monetaria riuscì ad affrontare lo shock politico che si combinava con l'esaurirsi del ciclo precedente. E a riavviare la ripresa. La moneta conta, in questo Fazio ha assorbito la lezione di Friedman. E si è comportato da monetarista nel 1997 quando rivalutò la lira, prima di cominciare l'accidentato percorso verso l'euro. Ma è sempre difficile stabilire il momento giusto per tirare le redini, mentre, in fondo, è più chiaro quando bisogna far piovere bigliettoni.

    Parlando di sbagli e abbagli, l'errore capitale del 2008 è stato far fallire una grande banca. “Si fanno fallire i banchieri, non le banche. Senza il fallimento di Lehman, la crisi ci sarebbe costata molto, molto meno”. E l'azzardo morale? E il meccanismo perverso di diventare troppo grandi per fallire? “Lei sa che io non ho mai pensato che le banche dovessero essere troppo grandi – risponde Fazio – E credo che il banchiere si giudica sulla sua capacità di far credito. Un mestiere difficile perché bisogna saper valutare il merito di credito. Oggi si lamenta una stretta, in realtà c'è poca domanda qualificata di prestiti, la richiesta serve soprattutto per ricostituire le scorte. Bisogna aspettare che ripartano davvero gli investimenti”. E la banca centrale che ruolo ha? “Quello di prestatore di ultima istanza, come diceva Walter Bagehot nel 1873. Lo stesso ruolo che eserciterà la Bce in Europa, ora che si manifesta il pericolo di una crisi del debito a partire dai paesi più fragili come la Grecia”. Senza la moneta unica la crisi greca sarebbe stata puramente locale, tuttavia l'euro rappresenta un salvagente perché chiama in campo una istituzione sovranazionale come la Banca centrale. La sua funzione non è solo tecnica, ma psicologica: è ridare fiducia. E l'iniezione più grande di fiducia, sarebbe proprio la capacità di fare politica monetaria su scala globale. E' possibile, insiste Fazio. Tornando ai fondamentali. Tornando alla lezione di Samuelson.