Perché lo odiano

Umberto Silva

La parola conta, racconta, testimonia, illumina; soprattutto la parola audace, inaspettata, impertinente. La parola provoca, sollecita altre parole, invita a esporsi. La parola induce a un intendimento spesso doloroso. Per chi teme il dolore, per chi non ne vuole sapere, la parola diventa il demone da esorcizzare con una condanna morale o con un passaggio all'azione che prendono il posto di un pensiero che non si osa pensare.

    La parola conta, racconta, testimonia, illumina; soprattutto la parola audace, inaspettata, impertinente. La parola provoca, sollecita altre parole, invita a esporsi. La parola induce a un intendimento spesso doloroso. Per chi teme il dolore, per chi non ne vuole sapere, la parola diventa il demone da esorcizzare con una condanna morale o con un passaggio all'azione che prendono il posto di un pensiero che non si osa pensare. Delegare, dileguarsi, delinquere: di delega in delega, si è arrivati al punto di affidare a un pazzo con un duomo in mano i destini della nazione. Il bagno di folla si è trasformato in bagno di sangue, la parola si è spenta in una concitazione assordante. Questo si voleva e si è raggiunto; messo a tacere il perturbante siamo pronti a seppellirci in un sepolcro imbiancato.
    “Perché mi odiano?” si chiede attonito il Cavaliere. Perché si uccide? Si uccide tutto ciò che si ama e non si vuole amare, tutto ciò che è vivo. Uccidere il re dà lustro, su di lui ci si scaglia nel miraggio di diventare lui, di rubare al suo corpo e alla sua anima un po' di gloria. Uccidere è quanto di più facile, viene da sé; un tempo era l'attività prediletta degli umani, ora anche, in forme più subdole.

    Se non uccidiamo è per un piacere più forte
    , la gioia della parola per la cui intercessione il sangue non ricade ma ascende ai cieli della poesia. Ben vivo e parlante, Berlusconi fa scandalo fin dalle sue prime apparizioni sulla scena politica e sempre si è cercato di mettergli la camicia di forza o almeno le braghe; perfino lo scapestrato Gianni Agnelli premuroso gli aveva messo accanto, in qualità di ministro degli Esteri, l'ambasciatore Ruggiero che gli insegnasse l'etichetta. Durò qualche mese. Allora si capì che il Cavaliere era proprio un cavallo imbizzarrito, un animale impresentabile, un selvaggio che parla a sproposito: lo si può far tacere solo spaccandogli la bocca. Invano, anche dal letto di ospedale parla eccome. Di questa sua libertà non posso fare a meno di ringraziarlo, di avere scandalosamente preso la parola contro l'ipocrisia che affonda le istituzioni italiane, tra le quali l'attuale normativa che regola la magistratura.

    E subito la prima domanda: la giustizia è da vent'anni il nodo centrale
    della questione italiana, c'è un interesse personale del premier in tutto ciò? Certo che sì. Dall'interesse personale sorgono le imprese più interessanti, dalla volontà di fare l'interesse collettivo le più feroci. Dio ci guardi dai disinteressati, per un pugno di mosche sono capaci di uccidere. Quale poi sia il vero interesse del Cavaliere, è difficile dire. Evitare le leggi o piuttosto… incontrarle?  Neppure lui lo sa e questa è la sua forza, l'audacia così come un giorno di tanti anni fa, mirabilmente anticipando Friedrich Nietzsche e Simone Weil, la celebrò un pari grado del Cavaliere di Arcore, a lui sicuramente caro, il Cavaliere di Seingalt al secolo Giacomo Casanova: “Mi faceva piacere capire che per collocare la ragione sul cammino della verità bisognava incominciare col tradirla. Le tenebre vanno avanti, a precedere la luce”. E quando l'Economist taccia Berlusconi di oscure origini, torbide trame e irriducibile cafonaggine, il saccente giornale albionico si ricordi di quel che disse il magister elegantiarum della sua terra, Lord Brummel: “Il nodo della cravatta va fatto al buio”.

    Lascio intatto l'enigma, così come non mi soffermo a fare il computo delle marachelle e delle benemerenze del Cav, pago di segnalare come in ogni caso egli sia un fenomeno che da quindici anni generosamente ci costringe a interrogarci su noi stessi, sulle nostre ambizioni e dedizioni, sul nostro desiderio di libertà e di prigionia. Berlusconi non è un tiranno; per quanto possa sforzarsi la sua vera natura glielo impedisce. Il tiranno non si sente amato neppure da quelli che lo amano, anche se forse è impossibile amarlo davvero; diffida di tutti il tiranno e quando qualcuno lo attrae, bè, sono guai: “Il mio desiderio è per il suo oggetto una sentenza di morte” lapidario proclama Minsky, l'orco di Mosca caro al Marchese de Sade.
    Berlusconi si sente amato e fin troppo si affida, soprattutto all'indulgenza delle folle e dei folli. Crede ingenuamente nella reciprocità delle passioni ma non si ferma al volere essere amato, al pretenderlo con esiti derisori, poiché l'ingordigia di altrui sguardi costa il proprio, e dietro l'angolo c'è sempre un Jack lo Squartatore. Berlusconi si sente amato, e questo fa la differenza; chi si sente amato non è un tiranno. “Amor ch'a nullo amato amar perdona”: il sentirsi amato non implica che davvero l'altro ci ami, quanto piuttosto che noi lo si ami; il sentirsi amato altro non è che un piacevole ritorno dell'amare, il premio a chi si espone in quel rischio assoluto. Il tiranno è mutacico e torvo, non ha interessi e desideri se non quello di morte, mentre il Cavaliere desidera fin troppo, fino a rischiare l'indigestione, pericolosa anch'essa a dire il vero.

    Altra ansiosa premura del tiranno è offrire il miraggio del benessere e della sicurezza, dispensando risposte e soluzioni; toglie così quanto di più vitale negli umani, quell'istanza di desiderio che la mancanza ospita. Ma il popolo del premier già si sarebbe stufato se altro non si aspettasse da lui che il benessere; in realtà quel che il Cavaliere non si risparmia è la parola, quella che nonostante le migliori intenzioni non riesce proprio a trattenere, a costo di mettersi nei pasticci. Di lui non attira la padronanza che travolta dalla pulsione vacilla a ogni istante, quanto l'imprendibilità, il suo essere e non essere in contemporanea quella cosa là, il suo minacciare nel mentre ride delle sue stesse minacce. E' un bersaglio mobile, mobilissimo, quindi nobilissimo, il trofeo più ambito dai cacciatori di streghe, che un tempo venivano uccise perché parlavano con arguzia. Naturalmente i suoi cacciatori non si proclamano diavoli ma angeli, sterminatori ma pur sempre angeli. Nei moti sovversivi di quarant'anni fa c'erano gli angeli del ciclostile, ora ci sono quelli di Facebook e stuoli di arcangeli vendicatori su giornali e tivù.
    Si credono creature divine mandate in terra con la missione di scaraventare Lucifero nelle tenebre, ma il diavolo sta proprio in chi fa l'angelo stuprato. Nessun diabolico ipnotista; ci si ipnotizza da soli pur di addomesticare lo sguardo e indirizzarlo là dove più fa comodo, dove può soddisfarsi la voglia di niente. Meglio il Cav. che passa le serate con le escort o i suoi denigratori che le passano parlando di lui che passa le serate con le escort? E' la differenza tra il re e i suoi cortigiani, ché tanti suoi sedicenti oppositori altro non sono, vittime non del Grande Mago bensì di quell'edipismo per cui, invece di vivere la propria sessualità, spiano ininterrottamente quella del Padre, rimbrottandolo e accusandolo senza sosta. “Disgraziato, perché salti la cavallina invece di farti Mamma che è tanto brava e buona? D'accordo, forse un tantino morta ma è pur sempre Mamma”. Chi è Mamma? Un mucchio di cose: il decoro alto borghese, la lingua a posto, il rispetto per le istituzioni, il non fare le corna ai potenti della Terra, il non farsi le mignotte o almeno il non farsi vedere, il non chiamare comunisti tutti gli altri, il non mettersi le dita nel naso, lo starsene seduti fino alla fine del pasto e in ogni caso lo starsene al proprio posto, il non andare alle feste napoletane ma a quelle partigiane, il non porre la fiducia per la Finanziaria ecc. ecc. Ma dice sempre no questa santa Mamma!!!? Il Cavaliere non ama proprio Mamma. Chi ama? Vallo a sapere. I figli edipici – alcuni sopra gli ottanta – fanno mille ipotesi e tutte le odiano: l'idea che il Padre possa desiderare risulta intollerabile, dal momento che essi altro desiderio non hanno all'infuori della sua morte. E' triste invidiare chi si ammira, ma invidiare chi si disprezza, cos'è?
    E' in nome della Giustizia, di una Giustizia Superiore, che si cerca di accoppare il cittadino Berlusconi. Addentriamoci quindi nella giungla giudiziaria, dove un raggio di sole è talmente inatteso da fare paura. Ma quale ebbrezza ritrovarsi in una selva oscura ove, stregate, neppure le stelle indicano la rotta. Non la diritta via, con tanto di targa e lampioni, porta lontano, quanto la via del diritto, che spetta a ciascuno illuminare con la sua audacia e intelligenza. Stanotte mi è parso chiaro che quello di giudice non è un titolo o una carica ma uno statuto che ci si conquista minuto per minuto, procedendo in un arrischiato percorso di pensiero che approda a una conclusione, a sua volta aperta ad ogni nuovo evento. E il famoso pregiudizio, di cui tutti quanti siamo contaminati? E' ineludibile; impossibile parlare in sua assenza, sarebbe fare il puro, lo schizofrenico. Nessuno sa quale sia il proprio pregiudizio; quando si dice una cosa un'altra se ne dice e quando si crede di nascondere una verità altro viene celato; nè la menzogna è mai quella che proclamiamo al fine di prendere qualcuno per il naso, ma quella che ride alle nostre spalle. Inutile che Amfortas sosti in attesa di una purificazione, meglio fare i Casanova e addentrarci nella sporcizia, in un attraversamento del pregiudizio verso qualcosa di nuovo, di sconosciuto, di altro. Cercare la verità? Lei ci trova, ci percuote, ci accarezza. E' l'autorità della parola in cui il giudizio si svolge a determinare se si è in presenza di un giudice o di uno che bara non sviluppando un pensiero ma limitandosi ad adeguarlo a un ordine, alla propria pigrizia, a un calcolo. Tutti incontriamo prima o poi il giudizio con la tremenda difficoltà che porta con sè, é quando ci rifiutiamo di ammetterlo e di assumerne l'onore e l'onere che ci mettiamo a giudicare con la ferocia dell'irresponsabile.
    I facebook imperversano; accusano il premier d'impunità nel momento stesso in cui di essa fanno la più sordida rappresentazione. Di proiezione in proiezione, scaraventando sull'altro quel che di noi non vogliamo intendere, ci si assorda per non intendere altro che il nulla, per farsene padroni, in una miserabile parodia del Cavaliere. La droga viaggia sull'etere; fonte di vita la parola viene degradata a morte. Occorre che i cittadini partecipino alacremente alla giustizia, astenersene comporta il mugugno e la rivendicazione. Ubbidire alla Legge sprona a non indugiare nel soppesare la responsabilità ma a incontrarla nel fare, “l'antimafia dei fatti” la chiama il premier. Leggano le motivazioni delle sentenze i cittadini, entrino nel merito, motivazioni che innanzitutto hanno il dovere di essere chiare, appassionanti e brevi, poiché  solo Dostoevskij e Tolstoj  hanno il diritto di superare le trecento pagine. I cartafasci logorroici e malscritti sono tentativi d'intorbidire le acque, nessuna verità dove non c'è semplicità; per evidenziare una verità bastano poche righe, sennò è inganno e autoinganno, del tipo praticato da quei teologi che passano la vita a dimostrare l'esistenza di Dio. Dio esiste perché non ha bisogno d'essere provato e nemmeno creduto; Dio esiste e basta, come chi davvero esiste.
    Quella bocca spaccata! Le prime parole dall'ospedale parlano d'amore. Il referendum popolare sui temi della giustizia è qualcosa, ma non finisce lì; la conquista della parola non può limitarsi al voto. Se l'esigenza di giustizia non parte dai cittadini, è naturale che sorga una casta. Con un processo riformato, aperto e ben svolto, si può fare a meno dei tre gradi, infantili esami di riparazione, come se si dovesse fare male una cosa per dar spazio alla sua correzione. Per snellire i processi tocca farli bene una volta per tutte. A tal fine occorre che all'imputato venga data più parola per raccontare la sua versione dei fatti e per replicare; che un professionista possa sostituirlo in tutto e per tutto priva la verità di una grande chance. Nel racconto e nel tono dell'imputato il giudice può percepire qualcosa di quel reale che, nella parola del suo avvocato, inevitabilmente diventa altro. Anche al Giudizio Universale ci sarà un arcangelo che parlerà al nostro posto? Il Cavaliere non lo sopporterà, prenderà la parola per vantare le sue imprese e non la mollerà più. Nessun legittimo impedimento da quelle parti eterne. Per sedarlo il Buon Dio lo manderà tra i beati, ma anche lì…
    In un processo il giudice non decide solo della sorte dell'imputato o delle parti lese, decide innanzitutto della propria: l'impegno ne sentenzia la riuscita o l'autocondanna. Ecco perché il primo dovere di un giudice costituzionale è di lavorare alla Costituzione. Limitandosi a custodire il “fanum”, il tempio della Legge, si rischia di diventare fanatici. La Costituzione è il frutto di anime che, in un confronto difficile e articolato, produssero un testo autorevole. Quanto affanno ora perché niente più accada. Fare della Costituzione un feticcio intoccabile, un tabù da preservare, è vilipenderla, trattarla alla stregua di un'incapace, incapace di trasfomarsi, di crescere, di vivere.  Pensiero e scrittura, la Costituzione invoca altro pensiero ed altra scrittura. Non per rabbia Mosè alla vista del vitello d'oro infranse le Tavole della Legge, ma perché dalle loro schegge nascessero altre leggi, altro pensiero, così come il Nuovo Testamento eredita dal Vecchio e crea di suo. Non erano tutti santi gli uomini che scrissero la Costituzione, alcuni di loro erano assai discutibili, ma un merito tutti lo ebbero perché s'impegnarono a fondo, incontrando così una redenzione. Anche oggi può accadere qualcosa di simile, con l'impegno di… chi? Di chi comincia a scrivere, parlando e scrivendo i miracoli accadono. Non occorre un accordo preliminare e bla bla bla, basta la penna, il foglio e il desiderio.
    Nel momento in cui scrivo Silvio Berlusconi sta uscendo dal San Raffaele mentre Massimo Tartaglia sta per entrare in un ospedale psichiatrico. Che anch'egli lì possa trovare la parola.