Domani Barack arriva in Danimarca

Perché Obama potrà fare poco per salvare il summit di Copenaghen

Carlo Stagnaro

L'ultima parola ce l'ha messa Pechino, ed è una parola di onestà e trasparenza: a Copenaghen non si chiuderà nessun compromesso. In queste ore i delegati si stanno accapigliando per coagulare il consenso almeno su una vaga dichiarazione che possa contenere i germi di un trattato futuro, ma le probabilità di costruire un documento che abbia un qualche peso sono più basse che mai. Semplicemente gli interessi in gioco sono troppo distanti. Chi sperava che Barack Obama, che sbarcherà domani nella capitale danese, avrebbe portato gli Usa sulla strada europea, oggi deve fare i conti con la realtà.

Leggi Macché allarme clima, a Copenhagen si decide chi guiderà l'economia - Leggi Schwarzenegger e l'effetto Serra

    L'ultima parola ce l'ha messa Pechino, ed è una parola di onestà e trasparenza: a Copenaghen non si chiuderà nessun compromesso. In queste ore i delegati si stanno accapigliando per coagulare il consenso almeno su una vaga dichiarazione che possa contenere i germi di un trattato futuro, ma le probabilità di costruire un documento che abbia un qualche peso sono più basse che mai. Semplicemente gli interessi in gioco sono troppo distanti. Chi sperava che Barack Obama, che sbarcherà domani nella capitale danese, avrebbe portato gli Usa sulla strada europea, oggi deve fare i conti con la realtà. Come ha scritto Peter Brown su Capital Journal, il blog del Wall Street Journal, sul clima “Obama, il presidente più progressista della storia americana, è una voce conservatrice”. Infatti, “è il leader di quelli che hanno qualcosa nella loro disputa con quelli che non hanno nulla. E rappresentare gli interessi del proprio paese viene prima di qualunque preoccupazione ideologica, almeno se vuole guadagnarsi un secondo mandato”.

    L'ammorbidimento della linea americana è, al momento, un'illusione ottica. Sicuramente, l'amministrazione Obama parla una lingua più simile a quella degli europei rispetto a quella del suo predecessore, George W. Bush. E non v'è dubbio che, a differenza del repubblicano, il presidente democratico dentro di sé vorrebbe poter fare di più. Ma, purtroppo o per fortuna, di più non può fare: non glielo consentono gli equilibri politici, non glielo consentono le pressioni dei suoi preoccupati dalle elezioni di mid term, non glielo consente soprattutto la recessione, che ha travolto l'economia americana e con essa i buoni e verdi sentimenti.

    La carta calata sul tavolo negoziale dal segretario di Stato, Hillary Clinton, è dichiaratamente uno “show off”: gli Usa aggiungeranno la loro fiche al fondo da 100 miliardi di dollari all'anno per aiutare i paesi in via di sviluppo a ridurre le emissioni, ha detto, ma solo se si troverà un “accordo forte”. Il che verrà dopo “a cold day in Hell”, dicono gli anglosassoni. Tant'è che le reazioni sono state tiepide (il Regno Unito), freddine (diversi paesi africani) o freddissime (la Cina), nonostante sia la prima volta che Washington esce allo scoperto. Non è chiaro, al momento, quanto sia gioco delle parti e quanto sia tentativo sincero di salvare il vertice, ma è sotto gli occhi di tutti che, per come si sono messe le cose, le probabilità e il tempo giocano contro il sogno ecologista di un regime post-Kyoto. 

    C'è ancora un margine di successo, naturalmente, e dipende da Obama. Se l'inquilino della Casa Bianca saprà essere abbastanza persuasivo, forse Copenaghen potrebbe, quanto meno, “allungarsi” fino alla primavera, dando così il tempo di cercare una composizione dei conflitti. La domanda, a questo punto, è: Obama vuole davvero raggiungere un accordo di cui sarebbe il protagonista e l'artefice? Già allineare gli Usa dietro l'Europa sarebbe un assist elettorale ai repubblicani, specie negli Stati più fortemente colpiti dalle politiche climatiche. Ma addirittura guidare la marcia di fatto costringerebbe l'amministrazione a ribaltare le sue priorità politiche, spostando il baricentro delle sue attività dalla sanità (e in prospettiva l'immigrazione) e l'economia all'ambiente.

    Davvero lo staff del presidente è pronto a un simile triplo salto carpiato, pochi mesi prima della tornata elettorale che potrebbe restituire ai repubblicani la maggioranza al Congresso? La vera questione aperta al Bella Center (che i mattacchioni hanno già ribattezzato “Balle Center”, in riferimento al climategate) non ha, ancora una volta, nulla a che fare col clima. In ballo c'è la direzione che prenderà la politica americana, e il tipo di direzione che Obama intende imprimere alla sua presidenza, e come voglia posizionarsi rispetto ai nuovi equilibri economici e geopolitici – che verrebbero in parte rimodellati da un esito positivo delle trattative. Solo gli europei possono credere che in Danimarca si parli di ambiente e non di soldi e potere.

    Crossposted @ www.chicago-blog.it

    Leggi Macché allarme clima, a Copenhagen si decide chi guiderà l'economia - Leggi Schwarzenegger e l'effetto Serra