I perché del ripiegamento temporaneo di Fini

Alessandro Giuli

Il riposizionamento di Gianfranco Fini non si può rubricare soltanto come un ritorno alle tiepide certezze di An. La convocazione degli ex colonnelli, il richiamo alla compattezza e l'esplorazione di un comune sentire da riproporre all'interno del Pdl a maggioranza berlusconiana vanno letti come la risacca temporanea di un moto culturale che negli ultimi tempi aveva sospinto il presidente della Camera altrove rispetto al nucleo identitario post missino.

    Il riposizionamento di Gianfranco Fini non si può rubricare soltanto come un ritorno alle tiepide certezze di An. La convocazione degli ex colonnelli, il richiamo alla compattezza e l'esplorazione di un comune sentire da riproporre all'interno del Pdl a maggioranza berlusconiana vanno letti come la risacca temporanea di un moto culturale che negli ultimi tempi aveva sospinto il presidente della Camera altrove rispetto al nucleo identitario post missino. Fini sa d'essere diventato interessante dacché ha scommesso sullo scarto improvviso tra se stesso e il proprio partito, investendo più sul peso delle idee personali maturate durante la navigazione in mare aperto che non sulla struttura tradizionale e sulla negoziazione ordinaria. Messo in sicurezza il patrimonio di An, allestita la rete di comunicazione della fondazione FareFuturo e del Secolo d'Italia, dall'alto della presidenza di Montecitorio l'ex capo di An ha potuto prefigurare una via minoritaria ma non banale alla modernizzazione del centrodestra.

    Un tragitto lungo, puntellato dalla presenza solidale di parlamentari stanziati in posti chiave ma lontani dall'evocare una corrente, impreziosito dal lavoro di triangolazione con il Quirinale e con i settori più dialoganti dell'opposizione. Tutto ciò sotto il rassicurante stendardo del patriottismo repubblicano, garanzia della versione italica di una destra forte e calma alla francese, ormai immune da ogni urto di delegittimazione. In questo quadro, a Silvio Berlusconi viene assegnato il ruolo d'indispensabile trompe l'oeil: tanto lui scavalca liturgie e confini costituzionali, altrettanto Fini stabilizza con la semplice presenza centrata sul dettato della Carta e del bon ton istituzionale. Da una parte il carisma prepolitico che eccita animi e produce consenso; dall'altra un “tesoriere” di scuola primorepubblicana chiamato a raffreddare e raccogliere (non soltanto per sé) i frutti del berlusconismo, spostandosi al contempo dalla possibile verticale di caduta dell'albero berlusconiano. Il vantaggio dell'anagrafe, gli infortuni personali del Cav. e la debolezza dei concorrenti incoraggiano Fini a immaginare una successione realizzata sia per attrito sia per affiancamento. Senza troppa fretta.

    Le ultime vicissitudini hanno però accelerato il movimento del paesaggio circostante. E Fini si è reso conto che la prassi democratica da lui pretesa dentro il Pdl lo relega in una posizione incapacitante. Oltretutto non sono stati i suoi colonnelli ad allontanarsi da lui più di quanto lui non li avesse già abbandonati all'altrui orbita. Maurizio Gasparri è certo fra loro il meno distante dallo spirito del Cav. Gianni Alemanno ha perso peso nazionale e fa il sindaco di una città rischiosissima: rimossa l'impalcatura veltroniana, Roma gli è collassata addosso. Altero Matteoli, dirigente della prima ora, ha invano sperato d'impersonare quel che agli occhi di Fini non riesce a essere nemmeno Ignazio La Russa: triumviro del Pdl in perfetta consonanza con le indicazioni del presidente della Camera. Forse il punto è questo. Leale verso Berlusconi nell'essenza, ma più leale ancora verso un sistema bipolare di tipo maggioritario, Fini prova a nobilitare una dialettica già sperimentata con altri e neocentristi obiettivi dal democristiano Pier Ferdinando Casini nella legislatura 2001-2006. Ma allora Casini, da Montecitorio, aveva il vantaggio di controllare per interposto Follini un partito monocratico necessario a quella coalizione di governo, l'Udc. Il che gli consentiva di valorizzare strategicamente se stesso esponendo l'Udc al conflitto tattico con l'asse Lega-Forza Italia e agli occasionali rovesci.

    A Fini questo non è possibile, né gli conviene sgretolare un partito unitario da lui fortemente voluto. Il suo legittimo desiderio di farsi avanguardia autonoma e candidata all'egemonia intellettuale nel Pdl – sulla cittadinanza come sui temi eticamente sensibili o altro – si accompagna ora alla preoccupazione di non smarrire il contatto con le retrovie. Ad acuire l'ansia sono bastati due giorni di vacanza del potere di Berlusconi, costretto in ospedale da un attentato del quale forse sa come giovarsi. Il piccolo e già concluso assaggio di post berlusconismo è stato traumatico per Fini. Lo ha messo di fronte alla certezza che i berlusconiani non saranno mai inclini all'amore come il Cav. e anzi sono portati a inchiodare il nemico interno alla dura legge della minorità. Di qui il passo indietro di Fini, quasi obbligato, ma motivato sempre dalla volontà di usare lo spazio ceduto oggi per spiccare domani un salto più lungo.