La Milano amara di Berlusconi non è quella che lavora, è quella snob
Non si aspettava che una cosa del genere potesse succedere proprio nella sua Milano. De relato, la sintesi di Lino Banfi dello stato d'animo di Silvio Berlusconi è forse la più utile per individuare il seme dell'odio che sta avvelenando Milano. Quel “fetido clima” che a Giampaolo Pansa fa sentire “puzza di anni Settanta” e che mercoledì pomeriggio ha fatto trovare all'Università Bocconi un pacco bomba, due chili di dinamite con una rivendicazione anarchica.
Non si aspettava che una cosa del genere potesse succedere proprio nella sua Milano. De relato, la sintesi di Lino Banfi dello stato d'animo di Silvio Berlusconi è forse la più utile per individuare il seme dell'odio che sta avvelenando Milano. Quel “fetido clima” che a Giampaolo Pansa fa sentire “puzza di anni Settanta” e che mercoledì pomeriggio ha fatto trovare all'Università Bocconi un pacco bomba, due chili di dinamite con una rivendicazione anarchica. Quell'odio cupo che al fratello Paolo ha fatto dire, con sincerità disarmante: “Il primo pensiero che ho avuto è stato un pensiero strano: meno male che mio padre e mia madre non ci sono più”. Silvio Berlusconi di Milano è il simbolo più efficace degli ultimi decenni. Come “uomo del fare”, come sbarluccichio dello showbitz edonistico-sportivo, come esito di uno strappo violento inferto alla vita pubblica che l'ha sbalzato, a un certo punto, sulla scena politica.
Davvero il rapporto si è interrotto tra il presidente-imprenditore e la città? No ovviamente, anche se è vero che il governo di Roma l'ha assorbito e Milano è ormai soprattutto la città che, quando squilla il telefono, o lo vogliono convocare in un tribunale – se non peggio, come è accaduto ieri all'assessore regionale Pier Gianni Prosperini: arrestato – o è per qualche grana nel centrodestra. Eppure il premier l'aveva scelta per il “predellino”, e l'ha scelta ancora domenica per rilanciare l'iniziativa politica del Pdl. Nessun rapporto interrotto se si guardano i voti o se si ascolta la voce produttiva della città, come quella dei commercianti che hanno esposto uno striscione di solidarietà in corso Buenos Aires. Ma ancora di più quella popolare. Un esempio: dopo la bocciatura del lodo Alfano, Radio popolare, il network della sinistra meneghina, aveva spedito i cronisti al mercato di Quarto Oggiaro. Furono sommersi da casalinghe che dicevano: “Ma lasciate in pace il povero Silvio”.
Antiberlusconiani, nella “Milano che lavora”, ce n'è pochi. O come ebbe a dire Michele Salvati al nascente Pd: “Il nord se la cava benone. Siamo noi, che abbiamo una questione settentrionale”. I pozzi avvelenati di Milano sono altrove. Tra i residui della politica ideologia e antagonista, ma ancor più, forse, in uno scollamento tra la città dalla sua radice imprenditoriale, efficentista, riformista. E' la città che non si è mai ripresa da Tangentopoli (“La politica a Milano è morta, Tangentopoli ha distrutto le sue fabbriche”, ebbe a dire il banchiere Roberto Mazzotta) e che cova un masochistico sospetto verso “i daneé” e soprattutto verso la politica, appena le due sfere “minacciano” di incontrarsi. La sospettosità della borghesia meneghina sull'Expo è, in questo senso, un caso da manuale. Forse psichiatrico. E' questo tradimento della borghesia che Berlusconi aveva in mente quando un paio di mesi fa accusò il Corriere della Sera di non essere più “il giornale conservatore della buona borghesia milanese”. Sbagliò bersaglio, forse. Ma non concetto.
Una recente prosa di Federico Orlando su Europa, a commento di una comparsata di Giulia Maria Crespi da Fabio Fazio, è illuminante: “C'è una buona borghesia milanese, quella minoritaria creatrice e pagatrice di tasca sua… e c'è la pseudoborghesia di massa, improvvisata, a volte truffaldina, ammiratrice di bancarottieri ed evasori fiscali, nostalgica – di fronte a vecchi e nuovi sessantottismi – dei cannoni di Bava Beccaris. Purtroppo, il premier, quando parla di buona borghesia, si riferisce anche a quest'ultima”. Questo scollamento, snobistico ma non per questo meno minaccioso, è il sottotraccia dell'antiberlusconismo a cui, non a caso, i primi a opporsi sono proprio commercianti e imprenditori. Paolo Galassi, presidente milanese nazionale di Confapi, lo individua così: “Come imprenditori, abbiamo dato a Berlusconi tutta la nostra solidarietà di fronte a una violenza ideologica senza ragioni. Ma da cittadino e da imprenditore dico che bisogna smetterla con questa cultura, che purtoppo ha radici di generazioni, per cui chi fa reddito, chi dà lavoro e crea ricchezza, è guardato con sospetto”.
Galassi però prova anche a dare un consiglio: “La politica ‘romana' ha forse allontanato un po' troppo Berlusconi da questo tessuto dell'impresa, del fare, che è il suo. Deve tornare qui a Milano, riprendere il filo di questo rapporto”.
Il presidente di Confcommercio nazionale, il milanse Carlo Sangalli, uno dei primi a esprimere solidarietà al premier e a chiedere “di tornare al più presto a un clima più sereno”, al Foglio conferma, facendo quasi eco a Berlusconi: “I milanesi hanno un rapporto di amore e odio con la loro città, ma poi prevale sempre puntualmente l'amore. Non è semplice ottimismo, lo dimostrano i risultati in termini economici ma anche morali di circa 290 mila imprese di Milano e provincia che ogni giorno alzano con fatica la saracinesca e si confrontano con il mercato. Parlo di risultati anche morali perché queste imprese spendono ogni anno un miliardo e trecento milioni di euro per la responsabilità sociale. E chiude: “ E' questa la forza di Milano. Bisogna solo ritrovarla”.
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