Seconda parte
La vera storia di un grande carabiniere sotto processo, Mario Mori /2
Dopo essere stato assolto dall'accusa di favoreggiamento aggravato per non aver perquisito l'abitazione – e non il covo, che è cosa diversa – in cui è stato arrestato Salvatore Riina, Mori si trova costretto a difendersi da altre accuse. E da una in particolare. Perché il generale non ci gira attorno, e quando ha saputo di essere indagato ancora una volta per favoreggiamento dice che è stato certamente quello il giorno più brutto della sua vita.
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Dopo essere stato assolto dall'accusa di favoreggiamento aggravato per non aver perquisito l'abitazione – e non il covo, che è cosa diversa – in cui è stato arrestato Salvatore Riina, Mori si trova costretto a difendersi da altre accuse. E da una in particolare. Perché il generale non ci gira attorno, e quando ha saputo di essere indagato ancora una volta per favoreggiamento dice che è stato certamente quello il giorno più brutto della sua vita: perché è come se la procura lo avesse sostanzialmente accusato di essere stato la causa scatenante della strage di via D'Amelio.
Nel processo in cui Mori dovrà difendersi in aula il 29 e il 30 gennaio, il principale testimone dell'accusa è il colonnello dei carabinieri Michele Riccio. L'eroe della procura di Palermo, nonché principale testimone del processo contro il generale Mori, è però un personaggio dal passato molto controverso. Controverso perché il grande accusatore di Mori è uno degli uomini che fu denunciato dallo stesso generale. La storia è nota ma può essere utile ricordarla. Il generale Mori contribuì all'arresto di Riccio e fu uno dei primi a denunciare i reati commessi dal colonnello a metà degli anni 90. All'origine dei guai di Riccio vi fu la famosa Operazione Pantera. In quell'occasione – erano gli anni 90 – fu sequestrata una partita di pesce congelato da 33 tonnellate. Nascosto tra il pesce vi erano 288 chili di cocaina proveniente dalla Colombia.
Tre mesi dopo il pesce fu venduto sottobanco dai carabinieri per 54 milioni. L'operazione Pantera costò a Riccio due reati. Non soltanto contrabbando aggravato ma anche detenzione e cessione di stupefacenti: perché nel corso dell'operazione, secondo l'accusa, il colonnello occultò cinque chili di cocaina sottratti alla distruzione del reperto da uno dei suoi uomini (si chiamava Giuseppe Del Vecchio).
Così, dopo essere stato condannato in primo grado a 9 anni e mezzo e poi, in secondo grado, a 4 anni e 10 mesi, nel 2001 Riccio chiese di essere sentito dal pm Nino Di Matteo su “gravi fatti riguardanti la mancata cattura di Provenzano e la morte di Luigi Ilardo”. E' una storia complicata quella di Riccio: l'ex colonnello sostiene che nel 1995 il suo confidente Ilardo (trovato morto pochi mesi dopo) offrì la possibilità di catturare Bernardo Provenzano; racconta che i suoi uomini avrebbero seguito Ilardo fino al bivio di Mezzojuso – un piccolo comune di 3.711 abitanti a 34 chilometri da Palermo – che si sarebbero appostati in attesa del via libera e che Mori disse di non voler agire. Mentre – dice Riccio – noi “eravamo pronti e non ci voleva una grande scienza per intervenire”. Le deposizioni di Riccio sono però contestate. Uno dei testimoni dell'accusa, l'ufficiale dei carabinieri Antonio Damiano che nel '95 prestava servizio al Ros di Caltanissetta, lo scorso 10 novembre ha raccontato una versione diversa.
Damiano sostiene infatti di essere stato incaricato da Riccio di effettuare “un'osservazione con rilievi fotografici” al bivio di Mezzojuso ma il punto è che in quello che Riccio considera il mancato arresto di Provenzano non solo era già stato concordato preventivamente che l'operazione avrebbe avuto la finalità di studiare il territorio ma il grande accusatore di Mori, nonostante la relazione di servizio di quel giorno riportasse la sua presenza, in realtà – lo ammette Damiano – non era affatto presente: era rimasto in ufficio.
A ogni modo, le parole di Riccio hanno offerto alla procura la possibilità di fare due calcoli rapidi rapidi: la mancata perquisizione del covo di Riina nel 1993 più la mancata cattura di Provenzano nel 1995 sarebbero “strettamente connesse” alla presunta trattativa tra apparati dello stato e Cosa nostra. E' proprio questa la tesi di uno degli uomini che alla fine di gennaio verrà ascoltato come teste dell'accusa nell'aula bunker del carcere Ucciardone: Massimo Ciancimino, figlio dell'ex sindaco di Palermo Vito. Tesi che in sostanza si potrebbe riassumere così: Borsellino sarebbe stato ucciso dopo che il giudice venne a conoscenza della trattativa portata avanti tra la mafia e lo stato condotta in prima persona da suo padre e dal generale Mori. Borsellino era contrario alla trattativa e per questo, per evitare problemi, la mafia lo fece saltare in aria.
La cronaca di quei mesi offre però una storia un po' diversa e gran parte della verità di tutta la vicenda sembrerebbe proprio girare attorno a quel codice lì: 2789/90. Il codice fa riferimento a una delle inchieste più delicate che le forze dell'ordine portarono avanti durante gli anni 90 in Sicilia. Tutto nacque nel corso del 1989: in quegli anni Mori era già a capo del gruppo dei carabinieri di Palermo e sotto la direzione di Giovanni Falcone avviò l'inchiesta sul sistema di condizionamento degli appalti pubblici da parte di Cosa nostra. Il primo plico contenente le informative sull'indagine fu consegnato il 20 febbraio del 1991 da Mori al procuratore aggiunto di Palermo Giovanni Falcone. Ancora oggi Mori ricorda che “Giovanni sollecitò insistentemente il deposito dell'informativa rispetto ai tempi che ci eravamo prefissati per una ragione semplice: perché – diceva Falcone – non tutti vedevano di buon occhio l'indagine, e alcuni sicuramente la temevano”. In quei giorni, il giudice stava però per essere trasferito alla direzione degli affari penali del ministero della giustizia, e da Palermo dunque si stava spostando a Roma. Ma quell'inchiesta – ricorda il generale – lui voleva seguirla lo stesso e per questo Mori continuò a mantenere i contatti con Falcone. E fu proprio il giudice a riferire al generale che l'inchiesta “Mafia e appalti” non interessava più di tanto al nuovo procuratore della Repubblica di Palermo Pietro Giammanco. Era davvero così?
Fatto sta che al termine dell'inchiesta “Mafia e appalti” i Ros di Mori avevano evidenziato 44 posizioni da prendere in esame per un provvedimento restrittivo ma il 7 luglio del 1991 la procura ottenne soltanto cinque provvedimenti di custodia cautelare. Mori si arrabbiò e chiamò subito Falcone. La reazione del giudice è riportata dai diari consegnati alla giornalista di Repubblica Liana Milella, e fu questa: “Sono state scelte riduttive per evitare il coinvolgimento di personaggi politici”.
Non solo. Pochi giorni dopo che Mori e il suo braccio destro Giuseppe De Donno consegnarono il rapporto alla procura di Palermo vi fu una fuga di notizie. De Donno ne venne a conoscenza attraverso il suo informatore Angelo Siino (il così detto ex ministro dei Trasporti pubblici di Cosa nostra) che raccontò ai Ros di aver saputo dell'inchiesta da fonti vicine alla procura. “Mai come in quei mesi – racconta Mori – ebbi la sensazione di agire da solo e senza referenti certi a livello giudiziario”. Successivamente, ci furono altre due valutazioni che fecero infuriare il capitano dei Ros. La prima fu quando il Tribunale del riesame consegnò agli avvocati difensori degli indagati e degli arrestati non uno stralcio dell'informativa relativa ai singoli indagati, come da prassi, ma qualcosa di più: ovvero tutte le 890 pagine di testo. “In quel modo – ricorda Mori – furono svelati i dati investigativi fino a quel momento posseduti dall'inquirente e furono chiare le direzioni che le indagini stavano prendendo”.
La seconda fu quando la procura di Palermo – ravvisando la competenza sul caso di più procure – inviò i fascicoli in mezza Sicilia ottenendo il risultato di moltiplicare il numero di occhi che osservavano da vicino quell'inchiesta. Ecco: secondo Mori il filo che lega le stragi di quell'anno – l'anno in cui furono uccisi nel giro di poche settimane prima Falcone e poi Borsellino e poi ancora un comandante della sezione di Perugia che insieme con i Ros aveva iniziato a lavorare su “Mafia e appalti”: Giuliano Guazzelli – sarebbe legato all'attenzione che Mori e Borsellino credevano fosse opportuno dare a quell'inchiesta, a quel codice maledetto. Poco prima di essere ucciso, infine, Borsellino partecipò a un incontro molto importante. Era il 25 giugno 1992 e il magistrato convocò in gran segreto nella caserma di Palermo – dunque negli uffici dei Ros – Mario Mori e il capitano De Donno. Borsellino confessò ai due che riteneva fondamentale riprendere l'inchiesta “Mafia e appalti”. Perché – sosteneva Borsellino – quello “era uno strumento per individuare gli interessi profondi di Cosa nostra e gli ambienti esterni con cui essa si relazionava”. Qualche anno più tardi, nel novembre 1997, nel corso di un'audizione alla Corte d'assise di Caltanissetta, a confermare che Paolo Borsellino credeva che studiando il filone “Mafia e appalti” si poteva giungere “all'individuazione dei moventi della strage di Capaci” fu uno dei pm che oggi indaga su Mori: il dottor Antonio Ingroia.
Le ragioni per cui l'incontro nella caserma dei carabinieri di Palermo fu mantenuto segreto vennero ammesse in quelle ore dallo stesso Borsellino. Ricorda Mori che Borsellino “non voleva che qualche suo collega potesse sapere dell'incontro”. “E nel salutarci – prosegue Mori – il dottor Borsellino ci raccomandò la massima riservatezza sull'incontro e sui suoi contenuti, in particolare nei confronti dei colleghi della procura della Repubblica di Palermo”. Secondo il generale, in quei giorni Borsellino era molto preoccupato per una serie di fatti accaduti. Uno in particolare era legato a una data precisa. Il 13 giugno 1992 uno dei mafiosi arrestati dalla procura di Palermo nell'ambito dell'inchiesta “Mafia e appalti” – il geometra Giuseppe Li Pera – si mise a disposizione degli inquirenti dicendo di essere disposto a svelare “gli illeciti meccanismi di manipolazione dei pubblici appalti”, ma i magistrati di Palermo risposero dicendo di non essere interessati. “Sì, è vero: i fatti di quei tempi – ricorda Mori – mi portarono a ritenere che anche una parte di quella magistratura temesse la prosecuzione dell'indagine che stavamo conducendo”.
Pochi giorni dopo l'attentato in cui rimase ucciso Paolo Borsellino, Mori iniziò a stabilire contatti con l'uomo che all'epoca impersonificava meglio di tutti la sintesi perfetta dei legami collusivi tra mafia, politica e imprenditoria: l'ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino. Tra il 5 agosto e il 18 ottobre 1992, Ciancimino e Mori si incontrarono quattro volte (prima di quella data con Ciancimino vi furono dei contatti preliminari del braccio destro di Mori, De Donno) e iniziarono così a costruire un rapporto confidenziale senza renderlo però noto alla procura di Palermo. Mori non comunicò subito i contatti che aveva stabilito con Ciancimino per tre ragioni. Primo perché – e lo dice la legge – i confidenti delle forze dell'ordine non devono essere necessariamente rivelati alla procura. In secondo luogo – e queste sono parole di Mori – fu fatto “per evitare premature e indesiderate attenzioni sulla persona e per tentare di acquisire elementi informativi sicuramente nella disponibilità del Ciancinimo e cercare di giungere a una piena e formale collaborazione”. Infine, è ovvio: se ci fosse stato Borsellino, dice Mori, “glielo avrei detto subito”. Ma quando Mori parlò con Ciancimino, Borsellino era già stato ammazzato.
Nonostante in molti sostengano che Mori avesse mantenuto a lungo segreti quei colloqui, in realtà gli incontri tra Mori e Ciancimino non sono una novità di oggi. Nell'autunno 1993 fu lo stesso Mori a raccontare all'allora presidente della Commissione antimafia Luciano Violante non soltanto dei suoi incontri con Ciancimino ma anche della volontà di quest'ultimo di essere ascoltato dalla commissione. Mori lo disse più volte a Violante e ogni volta che Violante se lo sentiva ripetere gli rispondeva più o meno allo stesso modo. Ponendo una condizione: “L'interessato – disse Violante il 20 ottobre 1992 nel corso di un incontro riservato con Mori – deve presentare un'istanza formale a riguardo”. Il 29 ottobre 1992, quindi, Violante convocò la commissione per spiegare qual era il suo programma di lavoro sulla materia che riguardava le inchieste sulla mafia e la politica. Nel verbale di quella seduta, tra le altre cose, si legge quanto segue: “E' necessario sentire quei collaboratori che possono essere particolarmente utili”.
Violante fece un lungo elenco di “collaboratori”, e tra questi c'era anche Vito Ciancimino. Ecco però il giallo: giusto tre giorni prima che Violante riunisse la commissione, Ciancimino si decise a scrivere una lettera. Una lettera datata 26 ottobre 1992 indirizzata a Roma, alla sede della commissione antimafia di Palazzo San Macuto. In calce alla lettera – che negli archivi della commissione sarà registrata solo diversi anni dopo con il numero di protocollo 0356 – c'è la firma di Vito Ciancimino. Il quale sostiene di essersi messo a disposizione della commissione già dal 27 luglio 1990, e di aver ormai accettato le condizioni che aveva posto per l'audizione il predecessore di Violante (Gerardo Chiaromonte): audizione sì ma senza quella diretta televisiva che secondo Ciancimino era necessaria per essere “giudicato direttamente e non per interposta persona”. Scrive l'ex sindaco di Palermo: “Sono convinto che questo delitto (quello di Lima, ex sindaco di Palermo ed ex eurodeputato della Democrazia cristiana che il 12 marzo 1992 fu ucciso a colpi di pistola di fronte la sua villa di Mondello) faccia parte di un disegno più vasto. Un disegno che potrebbe spiegare altre cose, molte altre cose. Ancora oggi sono, pertanto, a disposizione di codesta commissione antimafia, se vorrà ascoltarmi”. Nonostante Violante avesse detto che avrebbe ascoltato Ciancimino solo se questi avesse fatto una richiesta formale alla Commissione, la commissione antimafia ricevette la lettera ma decise di non ascoltarlo.
C'è poi un altro aspetto che della storia di Mori non può essere trascurato. Perché la storia di Mori è l'esempio di come una visione burocratica della lotta alla mafia non contempli la possibilità che un super sbirro possa imparare a combattere il nemico studiandolo, osservandolo da vicino, tentando persino di parlare con il suo stesso linguaggio. E con ogni probabilità il grande peccato originale di Mori è stato quello di essere diventato un simbolo della lotta alla mafia senza aver avuto bisogno di indossare l'abito del professionista dell'antimafia. Anzi, quell'antimafia con cui Mori ha lavorato fianco a fianco per anni è stata spesso ferocemente criticata dallo stesso generale. E sulla testa di Mori la scomunica dell'antimafia palermitana arrivò quando il generale testimoniò nel processo Contrada: l'ex agente del Sisde è stato arrestato il 24 dicembre 1992 con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Quando Mori fu sentito come teste non si scompose affatto e, dopo aver detto che Contrada era il “miglior poliziotto antimafia che abbia mai avuto a Palermo”, il generale disse quello che la procura di Palermo non voleva sentire. Gli chiesero se Giovanni Falcone avesse mai sospettato di Contrada e lui rispose secco così: no. La procura aveva un'altra idea e indagò persino Mori per falsa testimonianza.
Ma dietro alle accuse di connivenza fatte nei confronti del lavoro siciliano di Mori esiste anche un filone di critica culturale di cui ultimamente si è fatto portavoce lo scrittore Andrea Camilleri. La visione burocratica della lotta alla mafia ti trascina spesso anche verso conclusioni molto avventate e ti porta a credere che stabilire contatti con il nemico, studiare da dentro il suo mondo, arrivando persino a parlare il suo lessico, significhi sostanzialmente diventare suo complice. In una recente intervista, Camilleri sostiene che Leonardo Sciascia era molto affascinato da quella mafia che sembrava invece combattere. La dimostrazione pratica è nascosta dietro alcune parole del protagonista del Giorno della civetta. Sempre lui: il capitano Bellodi. “Sciascia – dice Camilleri – non avrebbe mai dovuto scrivere ‘Il giorno della civetta': non si può fare di un mafioso un protagonista perché diventa eroe e viene nobilitato dalla scrittura. Don Mariano Arena, il capomafia del romanzo, invece giganteggia. Quella sua classificazione degli uomini – ‘omini, sott'omini, ominicchi, piglia ‘n culo e quaquaraquà – la condividiamo tutti. Quindi finisce coll'essere indirettamente una sorta di illustrazione positiva del mafioso e ci fa dimenticare che è il mandante di omicidi e fatti di sangue.
E il fatto che Sciascia faccia dire dal capitano Bellodi a don Mariano mentre lo va ad arrestare ‘Anche lei è un uomo' è la dimostrazione che in fondo Sciascia la mafia l'ammira e la stima”.
La mafia sembra invece che non apprezzò le inchieste portate avanti da Borsellino e da Mori. Pochi giorni dopo aver tentato di accelerare le indagini sull'inchiesta “Mafia e appalti”, in una 126 rossa parcheggiata in via d'Amelio, nel cuore ovest di Palermo, esplosero cento chili di tritolo e uccisero il giudice Borsellino e i suoi cinque agenti della scorta. Era il 19 luglio 1992. Solo un giorno dopo, quando ancora la camera ardente di Paolo Borsellino non era stata neppure aperta, la procura di Palermo depositò un fascicolo con una richiesta di archiviazione. Sopra quel fascicolo c'era un codice fatto di sei numeri: 2789/90.
Era l'inchiesta “Mafia e appalti”.
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