Io c'ero quando D'Alema ha detto "inciucio", e vi spiego che cosa intendeva

Francesco Cundari

La polemica sulla riabilitazione dell'inciucio da parte di Massimo D'Alema non era imprevedibile, unico tassello mancante nel mosaico del grande complotto da lui ordito per consegnare l'Italia a Silvio Berlusconi, ricostruire l'Unione per poi consegnarla a Pier Ferdinando Casini, trasformare il nuovo Pd nel vecchio Pci per poi soffiarlo a Pier Luigi Bersani, e così occupare il tempo tra Natale e Capodanno.

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    La polemica sulla riabilitazione dell'inciucio da parte di Massimo D'Alema non era imprevedibile, unico tassello mancante nel mosaico del grande complotto da lui ordito per consegnare l'Italia a Silvio Berlusconi, ricostruire l'Unione per poi consegnarla a Pier Ferdinando Casini, trasformare il nuovo Pd nel vecchio Pci per poi soffiarlo a Pier Luigi Bersani, e così occupare il tempo tra Natale e Capodanno. Dopo tanti sospetti e supposizioni, l'imputato ha finalmente confessato. Accusato per dieci anni consecutivi di tramare inaccettabili “inciuci”, D'Alema ha dichiarato che gli “inciuci” a suo giudizio possono anche essere positivi. E così, il fondatore del giornale che più di tutti ha alimentato quell'accusa, Eugenio Scalfari, domenica ha potuto chiudere su Repubblica la sua annosa requisitoria, che mi permetto di riassumere così: 1. gli inciuci sono una cosa molto cattiva; 2. D'Alema ha detto che gli inciuci gli piacciono; 3. dunque D'Alema è un politico molto cattivo, che ha fatto e intende continuare a fare cose molto cattive.

    L'altezza del dibattito non dovrebbe offuscare l'importanza della posta in gioco, che a mio giudizio riguarda, né più né meno, il diritto di parola della sinistra italiana. Non di D'Alema. Qui però bisogna fare un passo indietro e ricapitolare brevemente i fatti, che posso riportare come testimone oculare, se non come primo responsabile dell'accaduto, visto che le sue sconvolgenti rivelazioni D'Alema le ha fatte alla presentazione del mio libro, “Comunisti immaginari”. Trattandosi di libro sui comunisti, la domanda della moderatrice, il vicedirettore di Europa Chiara Geloni, era stata su per giù la seguente: come ci si sente a essere considerati al tempo stesso come l'ultimo vero comunista, figlio prediletto del Pci, ma anche come il traditore di quella storia, come “quello che fa gli inciuci”? Avesse usato un'altra espressione (compromessi al ribasso, patti inconfessabili, accordi sottobanco), l'intera polemica non sarebbe neanche nata. Fatto sta che D'Alema a quella domanda ha risposto, dicendo che i comunisti italiani hanno sempre dovuto fare i conti con l'accusa di ricercare “inciuci”, a partire da Togliatti, come nel caso del voto sull'articolo 7 della Costituzione. Quindi ha aggiunto che simili “inciuci” si sono dimostrati spesso utili e positivi, al contrario di un certo “radicalismo azionista che per il paese non è mai stato utile”.

    Nel merito, è vero che i comunisti italiani da quell'accusa hanno sempre dovuto difendersi, e non solo sull'articolo 7. Lo testimonia peraltro anche uno splendido sonetto anonimo del 1975 (attribuibile a Maurizio Ferrara), che così difendeva la linea del compromesso storico: “Chi la vo' cruda, ‘mbè, chi la vo' cotta,/ tutti però a volemme sur carvario/ p'isolamme e potemme da' ‘na botta./ Finché ho sbottato e a 'sto catilinario/ j'ho fatto: ‘Però er mio, porca mignotta,/ è un compromesso rivoluzzionario'”.
    Quella di D'Alema è però una verità parziale. Un'impostazione intransigente, ideologicamente ostile a qualsiasi idea di compromesso con l'avversario – oggi diremmo forse, più semplicemente, antipolitica – non apparteneva infatti alla sola cultura azionista. E' vero che i vertici del Pci quelle pulsioni, all'interno del loro partito, seppero anche contrastarle duramente, come fece Togliatti. Ma è la presenza di questa robusta corrente sotterranea al suo interno a spiegare la permeabilità del partito, dalla fine degli anni Settanta in poi, a quel “radicalismo azionista” che D'Alema oggi critica. E forse soprattutto l'assenza di leader disposti a contrastarla.

    A cominciare da Berlinguer e dai suoi discepoli, una volta sconfitta la strategia del compromesso storico, quando il segretario del Pci effettuò una svolta radicale, tanto da permettere proprio a Scalfari di ricordarlo alla sua morte come uno “straniero in patria”, e ai suoi eredi di confermare e alimentare una simile interpretazione (dopo tanta fatica per affermare il carattere “nazionale” del comunismo italiano). E' lì, a mio parere, che comincia di fatto il postcomunismo, con l'accettazione piena e consapevole di quell'impostazione da parte degli stessi dirigenti del Pci. Un sovvertimento politico-culturale capace di trasformare nell'esatto opposto anche il più togliattiano dei leader comunisti, facendo di Enrico Berlinguer quasi un “anti-italiano ante litteram”.
    Di lì in poi, una concezione poco democratica e piuttosto manichea della politica non ha trovato più molti argini, a sinistra. Tanto che ormai chiunque tenti di sollevare la testa appena oltre il pelo dell'acqua, come ha fatto D'Alema venerdì, appare quasi un provocatore. “Vittoria postuma” dell'azionismo o semplicemente trionfo del qualunquismo, resta comunque da capire se in tutto questo non abbia avuto un peso notevole anche l'assenza di intellettuali – e persino di poeti, come l'anonimo romano del “compromesso rivoluzzionario” – capaci di fornire al proprio popolo altre parole, altre speranze, altre e meno cupe illusioni.

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