Quanto è ganzo Sherlock Holmes

Mariarosa Mancuso

L'uomo che i lettori celebrano come padre del detective raziocinante – e talvolta venerano, innalzando attorno ai quattro romanzi e ai 56 racconti canonici il filo spinato del fanatismo letterario – era un credulone di prima categoria. L'episodio sta all'Inghilterra di inizio Novecento come il caso dei falsi Modigliani sta all'Italia degli anni Ottanta.

    L'uomo che i lettori celebrano come padre del detective raziocinante – e talvolta venerano, innalzando attorno ai quattro romanzi e ai 56 racconti canonici il filo spinato del fanatismo letterario – era un credulone di prima categoria. L'episodio sta all'Inghilterra di inizio Novecento come il caso dei falsi Modigliani sta all'Italia degli anni Ottanta. Arthur Conan Doyle pubblicò due articoli sullo Strand (e nel 1922 un libro, “The Coming of the Fairies”) per far sapere al mondo che finalmente l'esistenza delle fate era stata provata: quattro minuscoli esserini svolazzanti erano apparsi a Cottingley, nello Yorkshire, ed erano stati immortalati in una fotografia.

    All'epoca la lastra fotografica era considerata scientifica e affidabile come oggi la prova del Dna. In un suo racconto, perfino H.P. Lovecraft la usa per certificare che l'orrore indicibile esiste, non è solo suggestione. A dimostrazione che i racconti del terrore funzionano sempre allo stesso modo, uno dei grandi successi cinematografici di quest'anno – “Paranormal Activity”, girato in una settimana dall'israeliano Oren Peli, nelle sale dal 5 febbraio – racconta una coppia che, stufa di sentire rumori e avvertire presenze nella casetta, accende la videocamera e la lascia in funzione tutta la notte.
    I falsi, come le truffe, contano sulla complicità della vittima. Nessuno oggi riesce a capire come mai “La Cena di Emmaus” dipinta per dispetto da Hans Van Meegeren, talentuoso pittore nato quando l'arte figurativa era disprezzata, fu scambiato per un Vermeer. O come uno scherzetto architettato da due ragazzine per evitare una punizione (Elsie Wright aveva sedici anni, Frances Griffith nove) possa aver ingannato colui che inventò la formula: “Eliminato l'impossibile, qualsiasi cosa resti – per quanto improbabile – deve essere la verità”. Le cuginette, tornate a casa zuppe dopo un pomeriggio di giochi, dissero che si erano avvicinate al ruscello per vedere le fate. Quando la zia le accusò di menzogna, presero a prestito una macchina fotografica per fabbricare la prova. Ritagliarono le sagome nel cartone, applicarono le alucce, piazzarono le silhouette nel prato, con un paio di scatti ingannarono la comunità internazionale degli spiritisti e dei teosofi.

    Elsie confessò il misfatto quando ormai era un'anziana signora:
    neppure lei riusciva a capire come un trucco tanto banale non fosse stato smascherato subito.
    Conan Doyle non partì da zero per creare Sherlock Holmes, che come altri grandi successi letterari non si fonda sull'assoluta originalità. Meglio un occhio attento alle cose che sono nell'aria e aspettano soltanto un bel rilancio: l'ultimo esempio conosciuto è Dan Brown, bestsellerista stramiliardario grazie una storia che un bel numero di spostati pubblicavano a loro spese (poi i libri marcivano sugli scaffali delle librerie esoteriche). Il detective raziocinante era stato inventato da Edgar Allan Poe, e già faceva coppia con una spalla meno astuta che consentisse di spiegare al lettore il perché e il percome senza offenderlo. In Holmes Auguste Dupin, gran fumatore di pipa, si fonde con Joseph Bell, il medico che all'università ebbe Conan Doyle tra i suoi allievi e aiutò la polizia nel caso di Jack lo Squartatore, dando origine alla medicina legale (l'Inghilterra vittoriana, che tanto perbene sembra a chi la guarda da lontano, aveva il suo imprendibile serial killer sgozzatore di prostitute, e – per tornare alla fotografia – coltivava l'idea che nelle pupille dell'assassinato rimanesse l'immagine dell'assassino: bastava trovare il modo di svilupparla, e Scotland Yard poteva chiudere bottega).

    Nessuno dei ragionamenti di Sherlock Holmes ha naturalmente a che fare con la deduzione, essendo la deduzione il più inutile degli strumenti per conoscere il mondo. Dedurre correttamente da premesse certe produce altre certezze, ma non aggiunge nulla a quel che sapevamo. Trattasi semmai di abduzione, che funziona così: guardo il mondo, tento un'ipotesi, spero di azzeccarla. Per capirci: se dalla premessa “questo sacchetto contiene fagioli neri” ricavo che ogni fagiolo estratto dal sacchetto sarà nero, trattasi di deduzione (certissima, non tanto brillante e totalmente inutile). Ma se possiedo un sacchetto con fagioli di colore sconosciuto, ne tiro fuori un fagiolo bianco, e ipotizzo che tutti gli altri siano bianchi, trattasi di abduzione, o di metodo Holmes: rischio molto, ma se azzecco la scommessa so una cosa più di prima. A rigor di logica, comunque, quello estratto potrebbe essere l'unico fagiolo bianco finito nel sacchetto. Se il ragionamento mette sulle tracce di un assassino, il cattivo può tranquillamente farla franca.

    Il metodo holmesiano è più vicino alla diagnosi medica, che cerca di inquadrare i sintomi accertati in un disegno sensato. Infatti l'ultimo erede di Sherlock Holmes si chiama Gregory House, più noto come Dr House e premiato di recente da cronisti spiritosi che inventano fantasiose categorie per le sue “Outstanding Bedside Manners”. Come sta lui al capezzale di un moribondo infatti non ci sta nessuno, nei momenti migliori borbotta “preferisci un dottore che ti tenga la mano mentre muori o uno che ti ignora mentre guarisci?”, poi va segna alla lavagna gli elementi del rompicapo su cui indagare (sarebbe una tavola delle presenze e delle assenze secondo il metodo baconiano, soltanto i telefilm ormai mettono alla prova i nostri studi filosofici). Come Holmes, House intrattiene rapporti difficili con le donne, ha casa al numero 221 B, frequenta un solo amico di nome Wilson (più incline a corteggiare le signore), si droga con il Vicodin, deve vedersela con un cattivo di nome Moriarty.

    La discussione sui metodi non ha impedito a Sherlock Holmes di insediarsi saldamente tra i nostri miti, dai primi film muti all'ultimo “Sherlock Holmes” diretto da Guy Ritchie, nelle sale a Natale. L'investigatore – Robert Downey jr, attenzione ragazze perché crea dipendenza – tra un caso e l'altro si annoia sprofondato in poltrona con la vestaglia di velluto. Vive nel disordine, assieme a un bulldog vittima di esperimenti scientifici, più che altro nel ramo droghe, in cui Holmes si rivela molto esperto per esperienza diretta. Quando lo spleen arriva al massimo, si svaga nei bassifondi combattendo a mani nude con spaventosi energumeni (la versione vittoriana del “Fight Club” di Chuck Palahniuk, che nel film diretto da David Fincher fece diventare un'icona gli addominali di Brad Pitt: anche la tartaruga sfoggiata da Downey non è niente male). Faceva coppia con un dottor Watson reduce dalla guerra in Afghanistan, senza le turbe che di solito affliggono gli ex combattenti. Ora però il fedele compagno di tante avventure ha deciso di sposarsi con una bella rossa dalla pelle trasparente, lasciando l'appartamento finora condiviso, e il perfido Holmes le tenta tutte per mandare a monte il matrimonio. Watson è Jude Law, e in questi casi si fa facilmente bella figura dicendo che non regge il confronto. In realtà se la cava piuttosto bene e la chimica tra i due maschi sta tra le cose notevoli del film.

    Meno notevoli sono le scene al rallentatore dove Holmes prima di combattere spiega allo spettatore le sue strategie (“ora lo rintrono”, “ora gli tolgo il fiato con un colpo al plesso solare”) sfruttando gli studi di medicina per la prognosi (“tempo di recupero, dieci minuti; guarigione completa: mai”). Per il resto, il film funziona come una doccia scozzese: scambi di battute ora divertenti ora stiracchiate, scene d'azione fantastiche sul Tower Bridge ancora in costruzione, ma anche parecchi tempi morti, e una signorina che proprio non si capisce a cosa serva. Tanto sono azzeccati Mark Strong nella parte dell'arcinemico Lord Blackwood e Eddie Marsan nella parte dello sciocco e sempre ritardatario ispettore Lestrade di Scotland Yard, tanto Rachel McAdams arranca nella parte di Irene Adler, l'unica femmina che abbia mai suscitato in Holmes qualche prurito sentimentale (il riferimento è al racconto “A Scandal in Bohemia”).
          
    Decine di scrittori hanno messo le mani su Holmes: J.M. Barrie, Mark Twain, Stephen King, Michael Chabon, Caleb Carr, per citare solo i più noti. Molti altri si sono attaccati a frasi pronunciate di sfuggita nelle conversazioni con il fido Watson, ricostruendo le avventure del detective che Conan Doyle non raccontò mai per intero. Oppure hanno cercato di ricostruire i tre anni trascorsi tra “L'ultima avventura” (poi soltanto presunta) e “L'avventura della casa vuota”. Lo scrittore, stufo del suo personaggio e deciso a dedicarsi anima e corpo allo spiritismo, decise infatti di far morire Holmes per mano del professor Moriarty – il Napoleone del crimine – dopo un duello alle cascate di Reichenbach. Fu costretto dal furore dei lettori a farlo risuscitare, prima nel “Mastino dei BaskerviIle” e poi adducendo il fatto che il corpo non era mai stato ritrovato, l'investigatore era vivo e in gran forma, e per tre anni dalla clandestinità aveva collaborato con il governo britannico. Da allora la mossa è molto usata nelle serie Tv, quando un attore chiede troppi soldi per rinnovare il contratto, e sparisce dal set finché l'accordo è raggiunto.

    Tra gli scrittori riciclatori, il più accanito è l'americano Nicholas Meyer. Nel 1974 pubblicò “La soluzione al sette per cento”, basato su certe memorie di Watson fortunosamente ritrovate. Il prologo stabilisce che sia “L'ultima avventura” (titolo originale “The Final Problem”), sia “L'avventura della casa vuota” (titolo originale “The Empty House”) sono falsi, fabbricati per nascondere la verità. Il Napoleone del crimine era infatti tale solo nella mente allucinata di Holmes, che faceva largo uso di cocaina (diluita al sette per cento, da qui il titolo). Nella realtà, era il precettore che insegnava matematica al piccolo Sherlock e a suo fratello Mycroft. Moriarty in persona si presenta da Watson, chiedendo che le calunnie cessino immediatamente. In caso contrario, farà causa. Per riparare il guaio, il dottor Watson porta Holmes a Vienna, per farlo curare da Sigmund Freud – a sua volta cocainomane – con l'ipnosi. Viene fuori qualche memoria infantile, assieme a qualche pagina particolarmente nera del romanzo familiare. Ma Holmes si ripiglia dal delirio solo quando trova un delitto su cui investigare: dal lettino di Freud è sparita una paziente. Nel 1976 “La soluzione al sette per cento” diventa un film diretto da Herbert Ross, e Meyer continua il pastiche con “I delitti del West End”: accanto a Holmes spunta George Bernard Shaw che vuole veder chiaro sulla morte di un critico; per contorno, i compositori di operette Gilbert & Sullivan, Oscar Wilde e Bram Stoker. Terzo titolo della serie, “The Canary Trainer”: Holmes e Watson sono all'Opéra Garnier di Parigi, quella con il fantasma nei sotterranei.

    Il capostipite degli Sherlock Holmes cinematografici – prodotto dalla North American Edison Company, la ditta a cui dobbiamo il l'ur-gay movie (due cow boy che ballano insieme) e il primo Frankenstein – esce nel 1900. L'ostinazione con cui i pionieri del cinema mettevano in scena storie, in questo caso storie gialle, dovrebbe bastare a sfatare l'idea – molto posteriore e avanguardistica – secondo cui il cinema deriva dalle arti visive e non dalla narrazione. Da allora gli Holmes movie sono almeno duecento, roba da Guinness dei primati alla voce “personaggio più sfruttato dai registi”. Cinquanta attori hanno indossato la mantellina e fumato la pipa di Holmes: il più famoso è Basil Rathbone, apparso in quattordici pellicole, poi ci sono John Barrymore, il Raymond Massey di “Arsenico e vecchi merletti”, Peter Cushing, Christopher Plummer. Billy Wilder girò nel 1970 “La vita privata di Sherlock Holmes”, mostrando tutto l'editing che Watson faceva alla personalità del capo. Gene Wilder raccontò nel 1975 “Il fratello più furbo di Sherlock Holmes”. Thom Eberhardt in “Senza indizio” (1988) avanzò l'ipotesi che il genio fosse Watson-Ben Kingsley: siccome non aveva il fisico adatto al ruolo, fu costretto ad arruolare come controfigura pubblica un attore sciocco ma di bella presenza (Michael Caine, con mantellina e cappello).

    Il film di Guy Ritchie ha avuto una gestazione tormentata
    , il che spiega le incertezze e un horror vacui che spinge a battere tutte le piste: la complicità tra maschi, le arti oscure praticate dal cattivo Blackwood che dopo l'impiccagione spacca la tomba e persegue i suoi loschi piani, il complotto terrorista, la voglia di trasformare Holmes in un supereroe, il dandismo. Il produttore Wigram amava il personaggio fin da ragazzino, ma i suoi capi alla Warner Bros non ne volevano sapere: cosa ce ne facciamo di un investigatore tutto cervello, ora che al cinema ci vanno solo i ragazzini? Quando si mise in proprio nel 2006 portò con sé il progetto, e tornando ai testi scoprì che Sherlock non era affatto un tipo alla Dupin, chiuso in casa anche di giorno chiudendo le finestre (molto contribuì, alla trasformazione del personaggio, l'atmosfera inglese dei primi film e l'idea che i gentiluomini vittoriani non avessero un corpo). C'era parecchia azione, sia pure fuori scena, e il nemico giurato Moriarty veniva sgominato a colpi di bartitsu, una specie di ju-jtsu.

    Basta come pezza d'appoggio il primo titolo della serie
    , “Uno studio in rosso”, quando Watson compila la pagella di Holmes. Zero in letteratura, zero in filosofia, in botanica voto variabile (sa tutto sulla belladonna, l'oppio e i veleni, nulla di giardinaggio), conoscenza profonda della chimica, dieci e lode in cronache criminali (“sa ogni particolare dei misfatti più orrendi perpetrati in questo secolo”), esperto in combattimenti con il bastone, pugile, spadaccino. Buon violinista, aggiunge Holmes, dimenticando l'abilità nei travestimenti (una vera e propria fissazione per molti scrittori di successo prima di Holmes, ad esempio Wilkie Collins). Entrambi i dettagli tornano nel film di Guy Ritchie. La scena imperdibile mostra Robert Downey nudo, ammanettato alla testiera del letto con un cuscino tra le gambe aperte, e lo sguardo sperduto di chi non sa come è finito lì.