La diva rediviva
Non c'è dubbio che la moda androgina non andrà più lontano di questo strano ibrido dall'acconciatura massacrata”. Per paradosso, sono sempre i critici più acrimoniosi ad affibbiare un limite al peggio. Così nel 1954, all'uscita di “Sabrina” di Billy Wilder, l'acido Clayton Cole, con il suo commento agli abiti di Audrey Hepburn nella pellicola sulla rivista britannica Films and Filming, toppò clamorosamente. La moda androgina è andata, come sappiamo, molto più lontano, massacrando ben altro che l'acconciatura. Ma per un certo verso, Cole ebbe un'intuizione geniale.
Non c'è dubbio che la moda androgina non andrà più lontano di questo strano ibrido dall'acconciatura massacrata”. Per paradosso, sono sempre i critici più acrimoniosi ad affibbiare un limite al peggio. Così nel 1954, all'uscita di “Sabrina” di Billy Wilder, l'acido Clayton Cole, con il suo commento agli abiti di Audrey Hepburn nella pellicola sulla rivista britannica Films and Filming, toppò clamorosamente. La moda androgina è andata, come sappiamo, molto più lontano, massacrando ben altro che l'acconciatura. Ma per un certo verso, Cole ebbe un'intuizione geniale: la Hepburn fu, mezzo secolo fa, in straordinario anticipo sui tempi anoressici, tanto da far pensare che sia stata proprio lei una delle muse che hanno suggerito alle ragazze di tutto il mondo che fianchi e seni potevano essere sostituiti con “qualcos'altro”.
Finché fu viva la diva di Holywood (per lei, tra le poche dive che la mecca del cinema sembra aver messo per compagna ai santi invece che trascinato alla perdizione, la elle è una sola: holy, santa), che quando cade da cavallo (trattavasi di Diabolo, stallone arabo bianco, da cavalcare a pelo: una lotta impari) durante le riprese de “Gli inesorabili” a Durango, in pieno deserto del Messico, di ritorno dal Congo Belga de “La storia di una monaca” e dalle foreste tropicali di “Verdi dimore”, si frattura quattro vertebre, si storce un piede, si stira la schiena e ha un'emorragia, sussurra dall'ambulanza agli sconvolti Burt Lancaster e John Huston: “Mi prendo una vacanza. Chi vuole venire con me?”, questo “qualcos'altro” potevano essere spirito di sopportazione, volontà benefica e profili da fatina (mai viste fatine obese, a Holywood).
Finché la Hepburn costituì il simbolo della grazia femminile, in un secolo in cui questa espressione significava ancora qualcosa nella moda e nel cinema, e incarnò quella ventenne che, per intenderci, si scocciò moltissimo quando scoprì che Balenciaga era troppo impegnato nelle collezioni primaverili per disegnare i modelli per “Sabrina” e che aveva spedito a sostituirlo al suo servizio, un suo giovane e talentuoso protegé ed ex apprendista di Elsa Schiaparelli dall'ignoto nome di Hubert de Givenchy (il quale a sua volta si scocciò moltissimo quando scoprì che la “miss Hepburn” che avrebbe incontrato nella sua maison parigina nuova di zecca non era la grande Katharine Hepburn, ma un cosino qualsiasi con gli occhi troppo grandi. Scocciatissimi, si piacquero. Anche se a Audrey toccò prendersi capi della collezioni precedente e tornò in America con schizzi e campioni per imporli alla costumista Edith Head. E' così che nascono le “lunghissime collaborazioni” a Hollywood, con due elle: dall'incontro di due zucconi), questo “qualcos'altro” potevano essere lunghe ciglia da cerbiatta e un incedere in cui ogni passo era un souvenir di danza classica. Il tutto ricoperto di modellini da diecine di dollari a centimetro.
Ma poi, quando la nobile Audrey Kathleen Ruston, di nascita belga e cittadinanza britannica, si asciugò e poi ritirò fino a sparire, magrezza estrema tornò a significare nulla estremo, che anche a vestirlo di loghi rimane un morboso dito nero che indica il no alla fertilità, alla sensualità e alla seduzione. Negli ultimi mesi, però, la Hepburn è tornata. La silhouette della donna che piace alle donne – sì, non ci mentiamo: agli uomini non faceva tutta questa gola e Tit-Bits, magazine di riferimento delle dee succinte anni Cinquanta e Sessanta, le ritoccò le misure fin dal 1954, in una copertina che piazza la quarta sotto a quel viso d'angelo, con un curioso effetto deformante e antieccitante – si profila di nuovo tra noi e le vetrine. Audrey rivive per vendere: vestiti, film, auto. Ha cortocircuitato media diversi, pronti a sparare di nuovo il suo volto e il suo corpo su schermi e giornali, a farlo muovere di nuova vita digitale, a far indossare i suoi modelli esclusivi ad un'altra nell'ennesimo remake, a battere all'asta a caro prezzo benefico quegli abitini di Givenchy e Balenciaga (vorremmo proprio sapere se qualcuno dei compratori ha le misure adatte per poterne indossare qualcuno o se l'aura di santità che circonda la diva d'antan glielo impedirebbe in ogni caso, come accadrebbe con una tunica di Madre Teresa). Fosse solo questo però, non sarebbe la prima volta.
Resuscitare Audrey è tendenza già spremuta. Oggi è la protagonista di uno spot pubblicitario per lanciare un'auto da femmina. E si suppone che la femmina in questione abbia superato i quaranta, perché altrimenti nemmeno un secondo di quella scena encantadora di “Colazione da Tiffany” manipolata ad uso marchettaro potrebbe rapirne il cuore modaiolo tanto da far scattare il meccanismo “Audrey è vintage, io sono vintage, quell'auto è vintage. Voglio quell'auto!”.
Spot che non a caso viene trasmesso soprattutto su grande schermo, ché l'effetto nostalgia non è mica lo stesso per tutti: c'è a chi viene un prurito alle mani e vorrebbe far partire le sberle sul faccione dell'art director che ha partorito l'idea e c'è chi – visto l'illustre copia e incolla che hanno scomodato ci auguriamo almeno siano tanti – grida alla genialata. Ma già si fece, dicevamo. Chi ne avesse voglia, può scartabellare in Youtube finché non compare lo spot “Skinny Black Pant”, in cui proprio “E' tornata! Semplicemente divina”, urlava il claim GAP che tre anni fa inaugurò la profanazione via pixel della principessina di “Vacanze romane”, incastrando le sequenze del sofisticato folletto di “Cenerentola a Parigi” in un bieco commercial da sabato pomeriggio all'ipermercato. Ci hanno già provato persino i cinesi, rimontando e ricolorando con orientali vernici scatti di “Vacanze romane” fino a poterci sciacquare le tazze di un famoso tè verde.
Qualche settimana fa, poi, l'esprit givenchyste di quella figlia di baronessa-fioraia olandese – chi volesse vedere mamma Ella Van Heemstra sbirci bene ogni shot di “Cenerentola a Parigi” fino a quelli che ritraggono la padrona del caffè sulla strada (nei titoli di coda non la troverete, non si è fatta accreditare. Noblesse oblige) – ha raggiunto a Londra la cifra record di trecentomila euro: tanto ha racimolato l'abito nero in pizzo usato dalla Hepburn al bar dell'hotel Ritz in “Come rubare un milione di dollari e vivere felici”.
Per non parlar del lotto 333, su cui si potrebbe girare una commedia romantica: trattasi dell'abito da sposa in satin avorio che, ventitreenne, Audrey chiese di disegnare alle sorelle Fontana mentre girava “Vacanze romane” per poter impalmare James – futuro Lord – Hanson. Considerato che la fanciulla era gracile solo d'aspetto ma amava imporsi, specie se si trattava di taglio e cucito, non stentiamo a credere alle fughe dal set di cui si racconta per raggiungere la sartoria e discutere l'abito con Micol.
Voleva il final cut e l'ottenne, visto che in poche settimane annullò le nozze e con queste il vestito, chiedendo alla Fontana più anziana, Zoe, di regalarlo alla più bella ragazza italiana che avesse trovato, purché fosse sufficientemente povera da non potersi mai nemmeno sognare di permettersi d'indossarlo. E Zoe la trovò, “nella città di Latina, che era stata fondata dai fascisti” (non si capisce perché il catalogo d'asta faccia una specifica del genere, ma tant'è), dove la povertà perfetta seguiva come un'ombra una giovane fanciulla dall'italico nome di Amabile Altobella, rendendola papabile per il modello che le Fontana adattarono prontamente, senza, si suppone, essere scocciate da troppi “fittings”.
Amabile infatti, folgorata da tanta fortuna, andò a Roma giusto per ritirare la virginea divisa con cui avrebbe portato all'altare Adelino Solda, gesto seguito, oltre che da un solida unione, da tre figli e cinque nipoti: “Il vestito mi ha portato fortuna”, pare abbia dichiarato la ragazza, con cui pure il sindaco della “cittadina fondata dai fascisti” si sbilanciò, regalandole una cucina e un viaggio di nozze a Parigi. Dopodiché l'abito venne reincartato, inscatolato e conservato per gli anni a venire, come in ogni famiglia italiana che si rispetti. Ma Micol, sopravvissuta alle due sorelle, bussò alla porta dei Solda, lo esibì in una retrospettiva e insomma ne inzigò un ritorno di fama tanto che ne fece il lotto 333 che, completo di foto di Audrey promessa sposa che lo indossa e di una lettera che ne conferma la provenienza, è stato battuto per “soli” 14.500 euro. Nemmeno questa è la prima volta: le vestigia di Audrey sono passate per altre aste, tra cui quella di Christie's del 2006 in cui la copia del tubino nero di “Colazione da Tiffany” – l'originale è al Museo del Costume di Madrid – raccolse l'offerta finale di 712 mila euro.
Vogliamo dire due parole anche sul remake annunciato una diecina di giorni fa e che vede la degna erede ossuta di Audrey, Keira Knightley confermata nella parte di Eliza Doolittle? Ci ritroveremo in sala a guardare “My fair lady” e cercheremo lei, la sua fragrante rigidità puritana, il suo glamour anemico, la sua bidimensionalità anacronistica. Ma nessuno, anche facendosi un culto per mesi su quel modello imprescindibile, è riuscito sinora a farcelo dimenticare. La “Sabrina” di Julia Ormond fu un fiasco annunciato e il fatto che Keira, al contrario di Audrey, sappia cantare e abbia già affermato di voler interpretare il musical con la sua voce originale (quelle volgarité), non fa che peggiorare le cose.
Ora, in mezzo a tanti cloni di cloni, alcuni dei quali si trascinano da anni – la detective Julia, il volto fumettistico di Audrey, edito Bonelli, firmato Giancarlo Berardi (quello di Ken Parker), è al 135 numero – una novità c'è. Sarà perché è un suo anniversario, nacque il 4 maggio del 1929, e dunque il mito comincia a diventare attaccabile, ma in libreria qualcuno comincia a grattare l'aureola di quella che negli anni Sessanta era la seconda attrice più pagata al mondo dopo Elizabeth Taylor. Ci ha provato ad esempio un volume fotografico fresco di stampa e messo insieme da Scott Brizel, “Audrey Hepburn, una vita da copertina” (uscito in contemporanea negli Stati Uniti per Chronicle Books e in Italia per Salani). Brizel, professione archivista, anche se il volto è quello di un commesso palestrato di Abercrombie e Fitch, prova, con l'aiuto dei magazine d'epoca raccolti scrupolosamente, testate turche, svedesi, australiane e uruguagie comprese, a scalfire la perfezione logata Unicef e a darci la misura di quanto il caro vecchio marketing abbia contribuito a erigere il piedistallo su cui posava Audrey, “la nuova Hepburn”.
Oltre ai gustosi aneddoti qui narrati e saccheggiati da quelle vecchie pagine patinate, il libro fa abbandonare a Audrey i set, come ogni carognetta hollywoodiana che si rispetti, e le consegna lo scettro della vanitas per eccesso di baggianate. Ricordando ad esempio quanto affermò, nei primi anni Settanta, per la rivista australiana Woman's Own Magazine in occasione del suo divorzio da “quello sconosciuto” di Mel Ferrer: “Pensavo che il matrimonio tra due persone buone e affettuose dovesse durare per sempre. Non potete capire quanto fossi delusa. Provai e riprovai. Sapevo quanto doveva essere difficile per lui essere sposato con una celebrità planetaria, famosa ovunque, e fare sempre la parte dell'eterno secondo, sullo schermo come nella vita. Quanto soffriva Mel! Ma, credetemi, io non ho mai messo la carriera al primo posto”. Altro che Marilyn, oltre Marlene: la vera femminilità di Audrey è tutta da scoprire. E siamo certi che questo sia solo l'inizio. Se a qualcuno non dovesse bastare, per la primavera 2010 è atteso il saggio “Quinta Avenue, cinque del pomeriggio: Audrey Hepburn, Colazione da Tiffany e l'alba della donna moderna”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano