La teologia inautentica di Vito Mancuso

Alfonso Berardinelli

Vito Mancuso, docente di Teologia moderna e contemporanea all'Università San Raffaele di Milano ed editorialista di “Repubblica”, ha scritto un libro che, senza ironia, è intitolato “La vita autentica” (Raffaello Cortina, pp.171, euro 13,50). Naturalmente l'ironia non è sempre obbligatoria. Ma quando si tratta, quando uno si mette a trattare di vita autentica, con il proposito di definirla e di dirci che cos'è “un vero uomo”, diventa naturale fare dell'ironia sull'assenza di ironia.

    Vito Mancuso, docente di Teologia moderna e contemporanea all'Università San Raffaele di Milano ed editorialista di “Repubblica”, ha scritto un libro che, senza ironia, è intitolato “La vita autentica” (Raffaello Cortina, pp.171, euro 13,50). Naturalmente l'ironia non è sempre obbligatoria. Ma quando si tratta, quando uno si mette a trattare di vita autentica, con il proposito di definirla e di dirci che cos'è “un vero uomo”, diventa naturale fare dell'ironia sull'assenza di ironia.

    In più, Mancuso è teologo. Essendo io stato teologo da bambino, perché in catechismo davo sempre risposte giuste senza studiare mai, purtroppo ora diffido dei teologi e della loro autenticità. Mi sembrano falsi bambini. Solo un bambino intelligente, innocente e votato al bene (all'ubbidienza) può infatti credere che sia possibile e decente, senza ironie, parlare di Dio e indovinare che cos'è e che cosa vuole da noi. D'altra parte, chi deciderà in modo convincente se un discorso teologico è autentico o no? Forse, come ho detto, si dovrebbe restare bambini da grandi per fare i teologi senza ironia. Questo potrebbe essere un merito. Resta però da stabilire in quale modo e misura si può essere autenticamente bambini da grandi al punto da mettersi a insegnare non solo che cos'è Dio, ma che cos'è la vita autentica di un vero uomo.

    Potrei continuare su questo tono. Ma credo di aver manifestato a sufficienza il mio pregiudizio negativo per la categoria dei teologi di cui Vito Mancuso è un esempio. Beninteso, non è che gli sono ostile. Il fatto è che non lo trovo autentico proprio quando mostra di sapere che cos'è un vero uomo. Se nessuno può permettersi, come credo, di definire che cos'è la vita autentica in generale e come si fa ad averne una, al di là del giudizio su casi singoli conosciuti di persona, credo che il mio vantaggio polemico su Mancuso consista in questo: che lui parla in generale e resta nel generico enunciando principi noti da tempo a chiunque, io invece parlo di lui e del suo libro assumendomi la responsabilità non generica di dire che le sue parole sull'autenticità mi suonano inautentiche.

    Il punto secondo me è questo: che Mancuso scambia la vita autentica con la vita proba, con l'intenzione di fare il bene, con la decisione di essere liberi e giusti, con il desiderio sincero di essere se stessi e insieme di superare se stessi aprendosi agli altri, spogliandosi di ogni legame e di ogni maschera, dicendo la verità e vivendola, senza ubbidire a nessun potere mondano (chiese, partiti, correnti di opinione, gruppi di interesse). Il programma è vasto. Per prudenza, comunque, vieterei a chiunque non appartenga alle schiere angeliche di decidere se la vita di un altro è autentica o no e se un uomo è un vero uomo. Posso giudicare un atto, un gesto, un discorso, un comportamento, un libro: non un'intera vita. Quando alla fine del suo saggio Mancuso sintetizza in una cinquantina di righe ciò che invano ha cercato di dire nelle 170 pagine precedenti, è probabile che alcuni lettori si rendano conto che l'autore si mise nei guai quando decise di trasformare in un libro il suo intervento sulla vita autentica all'edizione 2009 di “Torino Spiritualità”: le ultime pagine, infatti, dicono meno delle prime.

    Mancuso spiega nella prefazione: “Riflettere su tale tematica ha significato per me uscire dal mio ambito peculiare, la teologia, ed entrare nel mare aperto della riflessione. Ma è solo così, credo, che la teologia può sperare di tornare a incidere sulla vita concreta: solo se ha il coraggio di entrare nel laboratorio sperimentale della ricerca sulla vita” (pp.17-18). Sancta simplicitas, inquietante candore. Dunque Mancuso, teologo credente, considera la teologia il suo “ambito peculiare”, una specializzazione nel sistema istituzionale delle discipline e non (di per sé) un mezzo sufficiente per avventurarsi nel “mare aperto della riflessione”. Se Mancuso pensa questo, vuol dire che per lui, teologo credente, la teologia è una parzialità subordinata, è un ramo specialistico della filosofia: non è un modo di intendere la filosofia in tutti i suoi rami, dalla gnoseologia, all'ontologia, all'etica.

    Questo rende problematica la cosa. Perché se fare teologia non coincide più con la riflessione sulla vita umana, allora si deve spiegare e giustificare il suo perché e la natura, i limiti del suo oggetto (Dio), si deve dire a che serve, di che parla la teologia e in che cosa crede il teologo credente Mancuso. Se si separa il discorso su Dio dal “sapere umanistico” (Mancuso lo fa) questo vuol dire prendere atto che la teologia in occidente è irreversibilmente finita in quell'“essiccatoio dello spirito” di cui parlò Musil denunciando “l'uomo addestrato” alle specializzazioni. Se cioè il teologo Mancuso per pronunciarsi sulla vita umana sente il bisogno di uscire dalla sua specialità accademica e avventurarsi nel “mare aperto della riflessione”, allora su cosa riflette la teologia? E che cos'è Dio per l'uomo? Se all'uomo “in senso umanistico” il teologo in quanto tale non potrebbe dire niente di congruo, che genere di Dio è quello di cui teologicamente parla? Sarà forse Dio padre, non Dio figlio e incarnato, non il rabbi trentatreenne morto sulla croce.

    Infierisco un po' sulle formulazioni di Mancuso perché credo vera una cosa che lui stesso dice: “E' l'esperienza a dimostrare con pesante evidenza che ci sono parole autentiche e parole che non lo sono, sorrisi autentici e sorrisi che non lo sono…”. Ovviamente non sto giudicando l'autenticità dell'uomo Mancuso, di cui non so niente. Giudico solo l'autenticità delle sue parole nel saggio intitolato “La vita autentica”. Come ho detto, il libro dall'inizio alla fine non fa un passo avanti, anzi peggiora. Il meglio e il peggio, insomma l'essenziale, si trova, mi pare, fra pagina 14 e pagina 15. Purtroppo, con tutte le citazioni colte e nobili che riesce a fare, Mancuso dimostra di non avere abbastanza orecchio per sentire quanto fasulle e sonoramente mafiose siano, come è ovvio, le parole che Leonardo Sciascia fa dire nel “Giorno della civetta” al padrino don Mariano Arena: “quella che diciamo l'umanità (…) la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz'uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà”. Questo orripilante aforisma morale viene offerto dal teologo come esempio analitico di indagine sull'autenticità umana…

    Mancuso aggiunge “Mi chiedo che cosa faccia di un uomo ‘un vero uomo'”. E' questo che intendo con ‘autenticità della vita', ed è questo che indago in questo piccolo saggio. Esso si costituisce intorno a tre tesi: 1. L'uomo autentico è l'uomo libero. 2. L'uomo autentico è l'uomo libero anzitutto da se stesso. 3. L'uomo autentico è l'uomo che vive per la giustizia, il bene, la verità”. Al di là di questo Mancuso non va. Del resto, che cosa mai si potrebbe ricavare da simili enunciati? Sono solo propositi un po' inconsulti di buona volontà. Non aggiungono niente a quello che può pensare chiunque quando fantastica di se stesso come uomo di buona volontà. Io non so che cosa sia essere autentici. Posso solo intuire che cosa non lo è. Le tesi di Mancuso mi sembrano inautentiche soprattutto perché l'autenticità non è un programma volenteroso. Si può essere ottime persone, perfino eroi e santi, senza essere autentici. Il problema su cui riflettere forse è proprio questo.