Rohmer, il maestro dell'amore alla francese

Mariarosa Mancuso

Era il maestro dell'amore alla francese. Interminabili chiacchiere, molte infedeltà, fanciulle quasi sempre imbronciate, l'ossessione per il ginocchio di una ragazza di nome Claire, l'ostinazione di una signorina che vuole convolare a nozze con André Dussolier, passeggiate interminabili ai giardini del Lussemburgo.

    Era il maestro dell'amore alla francese. Interminabili chiacchiere, molte infedeltà, fanciulle quasi sempre imbronciate, l'ossessione per il ginocchio di una ragazza di nome Claire, l'ostinazione di una signorina che vuole convolare a nozze con André Dussolier, passeggiate interminabili ai giardini del Lussemburgo. Sapeva come irritare i non adepti, deliziando invece i suoi fan: noi che stiamo nel mezzo, ogni tanto uscivamo dal cinema contenti per la sua bravura nei dialoghi fatti di nulla, ogni tanto uscivamo infuriati, per la sua ostinazione a costruire film intorno a maschi e femmine che nella vita cerchiamo di evitare. Vinse un Leone d'oro a Venezia nel 1986 con “Il raggio verde”, e nel 1976 un premio speciale della giuria a Cannes per “La marchesa von O.”, tratto dal racconto ottocentesco di Heinrick von Kleist: uno dei suoi film più belli, dove perfino Bruno Ganz trova la sua perfetta misura. Tra i titoli che si ricordano con piacere, anche “La nobildonna e il duca”, tratto dall'autobiografia della contessa inglese Grace Georgina Elliot, abbastanza abile e fortunata da sopravvivere alla rivoluzione francese, mentre Maria Antonietta finì sulla ghigliottina e la sua amica principessa di Lamballe ebbe la testa mozzata esposta al pubblico ludibrio (i critici duri e puri storsero il naso, troppa simpatia per i controrivoluzionari, mentre il maestro sperimentava le nuove tecnologie digitali: case e strade di Parigi erano esattamente come nei quadri dell'epoca).

    Dallo scaffale dei classici aveva ricavato anche l'ultimo film, “Gli amori di Astrea e Celadon”, seicentesca passione pastorale firmata Honoré d'Urfé. E aveva annunciato il suo ritiro dai set, dopo 24 lungometraggi girati in mezzo secolo, organizzati in cicli: prima i racconti morali, poi le “commedie e proverbi”, poi i racconti delle quattro stagioni. Eric Rohmer era nato nel 1920 a Nancy, registrato all'anagrafe come Jean-Marie Maurice Schérer. Lo pseudonimo, a dar retta alla leggenda, viene dal nome di Eric von Stroheim combinato con quello del romanziere Sax Rohmer. Come i compagni d'avventura della nouvelle vague – Truffaut, Godard, Rivette, Chabrol – aveva cominciato come critico sui Cahiers du cinéma (i suoi scritti sono raccolti in volume sotto il non esaltante titolo “Il gusto della bellezza”), sfinendosi di film visti alla Cinémathéque diretta da Henri Langlois, dove i più fanatici si sedevano in prima fila: la luce e la magia emanata dallo schermo dovevano colpirti senza interferenze. Era molto capriccioso, sul set e fuori, come spesso accade ai venerati maestri. Era un ambientalista (modello aristocratico) prima che dell'ambiente si occupassero le star di Hollywood.

    Si vantava di non aver mai guidato un'automobile, e di non essere mai salito su un taxi.
    In casa non aveva telefono (figuriamoci il cellulare). Ritardò le riprese di “La mia notte con Maud” perché aveva deciso che certe scene potevano esser girate solo la notte di Natale, facendo fare gli straordinari agli attori e alla troupe. Pretendeva raffinatissime colonne sonore mixate così basse che a malapena lo spettatore riusciva a sentirle. Rifiutava le interviste, i film dovevano camminare da soli. Odiava gli americani, e gli americani ricambiavano. Arthur Penn, in “Bersaglio di notte”, perfidamente mette in bocca al detective Gene Hackman la battuta: “Una volta ho visto un film di Rohmer. Era come vedere la pittura asciugare”.