La funambolica visita di B-XVI

Paolo Rodari

Non c'è soltanto il vertice della comunità ebraica, ovvero il consigliere e i presidenti degli enti ebraici italiani, ad attendere domenica Benedetto XVI nella sua prima visita alla sinagoga di Roma. C'è anche la pancia, la base del ghetto romano, a prepararsi ad accogliere Ratzinger, un Papa tedesco in visita in sinagoga quasi 24 anni dopo l'arrivo del Papa polacco, Karol Wojtyla (era il 13 aprile 1986). Una base, un popolo, che mostra differenti sensibilità e sentimenti.

Leggi Un altro Papa in Sinagoga di Giuliano Ferrara

    Non c'è soltanto il vertice della comunità ebraica, ovvero il consigliere e i presidenti degli enti ebraici italiani, ad attendere domenica Benedetto XVI nella sua prima visita alla sinagoga di Roma. C'è anche la pancia, la base del ghetto romano, a prepararsi ad accogliere Ratzinger, un Papa tedesco in visita in sinagoga quasi 24 anni dopo l'arrivo del Papa polacco, Karol Wojtyla (era il 13 aprile 1986). Una base, un popolo, che mostra differenti sensibilità e sentimenti. Come eterogenea è la percezione che gli ebrei hanno della chiesa cattolica e in particolare di questo pontificato. Difficile trovare univocità di giudizio. “Abbiamo parlato molto dell'arrivo del Papa”, dice un ragazzo ebreo che gestisce uno dei tanti fast-food ebraici di via del Portico d'Ottavia. “Alcuni non volevano questa visita. Altri sì. Io dico che se il Papa è stato invitato significa che ogni cosa è stata ponderata. Non lo si è invitato al buio: sappiamo chi è Ratzinger, cosa ha fatto e cosa fa. A me il fatto che sia tedesco non dà fastidio. Mi sembra che abbia fatto molti gesti verso di noi. Solo per quelli è degno d'essere accolto”. Così anche Giuliana. All'angolo tra via del Portico d'Ottavia e via Sant'Ambrogio gestisce la sua Yud Judaica, gioielli etnici e d'antiquariato: “Wojtyla aveva un suo carisma. Riuscì a fare molto sulla strada dell'unità tra diversi credo. Ma siamo contenti che domenica arrivi Benedetto XVI. Una visita è sempre gradita”.

    Le pietre, ogni pietra di questa piazza e di queste strade, trasudano sangue, ricordano le sofferenze del popolo ebraico di Roma”, dice Georges De Canino mentre assieme a Rina Menasci Pavoncello, moglie dell'indimenticato rabbino Nello Pavoncello, si gode le ultime ore di luce a due passi dalla sinagoga. De Canino, artista e storico della Shoah, è un'istituzione al ghetto. Ricorda date, nomi, episodi. La visita di Wojtyla, ovviamente, è il suo cavallo di battaglia: “Per noi significò tantissimo”. E ancora: “A Wojtyla donai nel 1986 una Menorah, un candelabro a sette braccia di colore giallo e bianco, i colori pontifici. Dopo la visita mi ricevette in Vaticano. Gli dissi che era arrivato il tempo per il Vaticano di riconoscere lo stato d'Israele. E così è avvenuto. L'ha fatto davvero. Giovanni Paolo II non è stato un Papa riformista. E' stato un conservatore. Forse è per questo che lo sento vicino, amico. Ma nella chiesa cattolica ho tanti amici. Domenica però non accoglierò il Papa al ghetto. Andrò alle fosse ardeatine per commemorare i giusti, coloro che pur non essendo ebrei morirono per gli ebrei. Tra questi anche tanti cattolici. Perché è importante non dimenticare e insieme stare vicini ai fratelli che non ci sono più”.

    Certo, poi ci sono le colpe del passato. Il passato che sempre ritorna sui volti degli ebrei. Anche a Roma. De Canino si augura che il dialogo tra le due parti avvenga senza dimenticare questo tremendo passato: “La chiesa cattolica ha avuto in sé anche sentimenti antisemiti. E questa è una colpa che non può essere cancellata”. Spiega Mordechay Lewy, l'ambasciatore d'Israele presso la Santa Sede, che in generale vi sono due tipi d'ebraismo: “C'è l'ebraismo riformato e conservatore più aperto al dialogo coi cristiani – lo fanno dal punto di vista della loro esperienza americana dove la convivenza tra gruppi etnici e religiosi è intrinseca alla società in cui vivono –. Ma c'è anche la maggioranza del popolo ebraico che percepisce la propria storia durante la diaspora come una battaglia traumatica per la sopravvivenza contro i costanti sforzi da parte dei cattolici di convertirli gentilmente o, nella maggioranza dei casi, coercitivamente”. E, in parte, questi due tipi di ebraismo vivono e rivivono in tutte le comunità ebraiche, anche in quella romana.

    “E' difficile dire come la comunità sta attendendo l'arrivo del Papa”, spiega Guido Vitale, direttore di “pagine ebraiche”, il giornale dell'ebraismo italiano. Io condivido quanto ha detto Sergio Minerbi, ritenuto anche in Israele la voce più autorevole quanto allo studio dei rapporti tra ebrei e chiesa cattolica. Dice Minerbi che Ratzinger è ‘antipatico ma serio'. Ovvero, sembra meno effervescente di Wojtyla ma nello stesso tempo potrebbe stare di più sui contenuti e sulla sostanza rispetto al suo predecessore. Wojtyla andò al muro del Pianto dove lasciò un bigliettino. Quel gesto suscitò grande emozionalità. Ma c'è qualcuno che si è preso la briga di andare a leggere che cosa c'era scritto in quel biglietto? Certamente sì, ma ciò che è rimasto è l'immagine di lui sotto il muro e non principalmente il contenuto del messaggio. Dice ancora Minerbi che da Ratzinger non dobbiamo aspettarci una rivoluzione ma possiamo attenderci chiarezza. E con altrettanta chiarezza dovremmo rispondere”.
    Le differenze tra i due Pontefici influenzano i sentimenti intorno alla visita di domenica. Differenze che si evidenziano anche se si paragona la visita del 1986 in cui i protagonisti furono Wojtyla e il rabbino Elio Toaff e quella prossima in cui i principali attori sono Ratzinger e Riccardo Di Segni. Dice Vitale: “L'incontro del 1986 fu molto emozionale. Quello di domenica avviene invece tra due persone più fredde ma non è detto che i contenuti siano meno rilevanti. Anzi”.

    Il ghetto non è soltanto la base della comunità ebraica, è anche l'istituzionalità. Dice il rabbino capo Di Segni: “Abbiamo invitato Benedetto XVI in sinagoga perché vogliamo che quella caduta del muro della diffidenza tra noi e i cattolici inaugurata con la visita di Karol Wojtyla nel 1986 continui. L'arrivo di Giovanni Paolo II significò per la prima volta disponibilità, rispetto, condivisione dei cattolici nei nostri confronti – oltre a importanti risultati successivamente: il riconoscimento di Israele da parte del Vaticano e le visite in Israele di Wojtyla e recentemente di Ratzinger, ndr –. La disparità tra noi e loro venne messa da parte. Riteniamo importante che il nuovo Pontefice confermi questa impostazione”. Non è facile per Di Segni trovare le parole giuste. Perché ogni parola è misurata, calibrata, centellinata. Infatti, anche una virgola fuori posto può incrinare un equilibrio tra le due parti ancora oggi difficile da trovare. Talmente difficile che soltanto pochi giorni fa alla notizia della firma da parte di Ratzinger del decreto sulle virtù eroiche di Papa Pio XII la visita sembrava quasi compromessa.

    “C'è stato un dibattito tra di noi”, spiega Di Segni. “Nella comunità certe posizioni della chiesa cattolica provocano per forza di cose contrasti, ma alla fine tutto è stato confermato. Attendiamo con gioia il Papa. E siamo sicuri che l'evento di domenica non avrà connotati politici. Per noi la visita è prettamente di carattere religioso. Abbiamo differenze teologiche che non devono essere messe in discussione, ma da uomini di fede vogliamo dialogare e confrontarci”. Una volontà, quella del dialogo, auspicata ieri anche dal Papa che in un telegramma inviato a Di Segni si è augurato che la visita costituisca “un'ulteriore tappa nell'irrevocabile cammino di concordia e amicizia”. Non c'è soltanto la recente decisione del Papa rispetto a Pio XII: giusto ieri il rabbino capo di Tel Aviv Yisrael Meir Lau ha auspicato che il Papa non santifichi Pacelli. E nemmeno è semplicemente una questione della revoca della scomunica concessa un anno fa da Ratzinger a quattro vescovi lefebvriani (tra questi al negazionista quanto alla Shoah Richard Williamson) o delle parole che, hanno sottolineato alcuni, il Papa non avrebbe osato dire durante la visita del maggio scorso al museo dello Yad Vashem in Israele.

    Sono gli oltre duemila anni di travagliati rapporti tra cattolici ed ebrei – e in particolare tra la più antica realtà ebraica della Diaspora, appunto quella romana, e il Vaticano – a far sì che la visita di Benedetto XVI in sinagoga avvenga nel segno della complessità. Soprattutto a livello più alto, a livello dei rapporti istituzionali tra le due parti. Infatti, c'è anche una certa linea da mantenere per non scontentare tutte la anime delle rispettive fedi. Da parte ebraica tutto ciò significa anzitutto non rinnegare il passato. Ovvero accogliere il Papa senza dimenticare quanto prima d'oggi ha diviso le due fedi e quanto le divide ancora. La spiega bene, questa complessità, una vignetta che Enea Riboldi ha dedicato alla visita su uno degli ultimi numeri di “Pagine ebraiche”: il filo che passa da una sponda all'altra del Tevere è un tenue collegamento sul quale il Papa prova a camminare. Il Papa lo percorre cercando un equilibrio fra desiderio di dialogo e tentazione di conversione. Un bambino, come fosse il simbolo della minoranza ebraica, piccola nei numeri ma carica di ventidue secoli di storia, gli viene incontro tendendo la mano. Dietro di lui il popolo ebraico mostra al Papa con alcuni cartelli le proprie attese, preoccupazioni e speranze: “Fermate i negazionisti”; “Grazie della visita”; Rispetta le diversità”; Benvenuto”; “Basta con la preghiera del venerdì santo”; Apriamo al dialogo”; “Ricordati della Shoah”. Quattro cartelli a favore del Papa e tre più o meno contro. Di per sé una differenza da nulla. Ma che il Vaticano ha notato se è vero (come è vero) che al giornale è arrivato un rimbrotto direttamente dalle alte sfere d'oltre il Tevere: segno, a conti fatti, che davvero anche le virgole contano in questa delicata visita di Benedetto XVI nel ghetto di Roma. Non dimenticare la storia di duemila anni di rapporti non facili, per la comunità di Roma, significa rendere omaggio a questa stessa storia. E la mostra che la diaspora romana ha voluto domenica sia il Papa a inaugurare – s'intitola “Et ecce gaudium. Gli ebrei romani e la cerimonia di insediamento dei Pontefici” – proprio questo dice: la storia non va dimenticata. Ovvero, occorre non far cadere nell'oblio della memoria quanto sono stati difficili i rapporti tra ebrei romani e papato nei secoli scorsi.

    In mostra sono alcuni preziosi pannelli scoperti solo recentemente nell'archivio sottostante la sinagoga del ghetto. Nel Settecento, quando si eleggeva il nuovo Papa, un corteo in festa lo conduceva nei luoghi più significativi della città. Le strade e le piazze venivano abbellite per l'occasione e tutti erano chiamati a partecipare alla gioia della chiesa, anche gli ebrei. A loro spettava il compito di abbellire l'area che andava dal Colosseo fino all'Arco di Tito con arazzi e tessuti preziosi che facevano da sfondo a grandi tabelle decorate con figure simboliche e motti, in ebraico e in latino inneggianti al Pontefice. Si tratta di quegli stessi arazzi da poco recuperati e oggi offerti in mostra. Scrive in proposito la direttrice del museo ebraico, Daniela di Castro: “Gli omaggi che tradizionalmente gli ebrei porgevano ai nuovi Papi al momento della loro elezione servono a comprendere quale fu per secoli la particolare posizione di questa comunità: stretta tra gli obblighi del ghetto e del pregiudizio e la volontà, oltre che l'orgoglio, di essere parte attiva negli eventi che coinvolgevano l'Urbe, così da continuare a essere cittadini romani”. E' questo senso di contraddizione dolorosa, di simboli di dolore e di coraggio, di coercizione e vita, che si ritrova nei pannelli della mostra. E, per coincidenza forse non voluta, si ritrova simbolicamente anche nel giorno che gli ebrei hanno scelto per invitare il Pontefice: il 17 gennaio. O meglio, il 2 del mese di Shevat che nel 2010 corrisponde al 17 gennaio: il giorno del “Moed di piombo”, la data nella quale gli ebrei romani festeggiano lo scampato pericolo di un violento assedio antisemita, l'assedio delle grandi fiamme appiccate al ghetto nel 1793 dal quale gli ebrei riuscirono a salvarsi grazie a un improvviso acquazzone (il cielo si fece di piombo) che spense l'incendio.

    Il ghetto aspetta il Papa senza che la vita al suo interno subisca particolari stravolgimenti. Soltanto attorno alla sinagoga si nota un certo fermento: alcuni operai sono al lavoro per ridipingere le ringhiere che si affiancano alle scale che accompagnano i turisti nella discesa al seminterrato. Dentro il museo si allestiscono gli ultimi addobbi. Fuori si studia il percorso che s'intende far fare al Papa: all'imbrunire di domenica Ratzinger attraverserà il Tevere per sostare per qualche minuto nella piazza intitolata al 16 ottobre 1943: assieme a Di Segni renderà omaggio alla memoria dei 1022 ebrei romani (fra questi oltre 200 bambini) che nell'ottobre del '43 furono deportati verso Auschwitz. C'è chi ricorda ancora il rumore dei motori dei camion. Arrivarono, prelevarono la gente, e sparirono nel buio. Il Papa e Di Segni poi cammineranno da soli lungo via Catalana che costeggia il perimetro della sinagoga. Si fermeranno ancora qualche minuto sotto la lapide che commemora Stefano Gaj Taché, il bambino di due anni ucciso nell'attentato del 9 ottobre 1982 quando terroristi palestinesi attaccarono civili inermi che avevano da poco terminato le preghiere delle festività autunnali.

    Quindi la sosta appena fuori la sinagoga. Di Segni riceverà un antico manto rituale conservato nel museo ebraico, simbolo della storia degli ebrei della capitale italiana e lo indosserà prima di varcare la soglia. Con lui, molti altri rabbini vestiranno la tradizionale veste bianca, quella delle cerimonie solenni. Altri non lo faranno e opteranno per un semplice vestito scuro. Dopo il clou della visita, nel tempio, il passaggio al museo ebraico e il saluto ai consiglieri e ai presidenti degli enti ebraici italiani nella sala del tempio spagnolo. La complessità della visita resta, ma la pancia, la base del ghetto, sa anche andare oltre. Nei giorni scorsi c'è stato chi ha ipotizzato all'arrivo del Papa delle contestazioni per la decisione presa su Pio XII. Dice però Giuseppe Massimo Piperno, presidente dei giovani ebrei: “Pur riconoscendo l'importanza e il rilievo di certi recenti attriti di natura storico politica, noi ci saremo ad accogliere il Papa. E lo accoglieremo in modo degno, come merita la massima carica religiosa del cattolicesimo”.

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