Nuove barbarie d'America
Metti che il terremoto dietro l'angolo, dopo averti allibito, diventi occasione di riscatto. Haiti è Katrina, moltiplicato per mille. Per l'America è nel giardino di casa. Di caraibici gli Stati Uniti traboccano. Dunque, neppure per un momento, la Casa Bianca pensi di trattare la questione come una semplice emergenza di politica estera.
Metti che il terremoto dietro l'angolo, dopo averti allibito, diventi occasione di riscatto. Haiti è Katrina, moltiplicato per mille. Per l'America è nel giardino di casa. Di caraibici gli Stati Uniti traboccano. Dunque, neppure per un momento, la Casa Bianca pensi di trattare la questione come una semplice emergenza di politica estera. Questi territori sono brandelli di americanizzazione tralasciata, ma l'orbita di contatto è troppo ristretta perché Washington ponga la tragedia più di un gradino sotto che se fosse andata in scena a Los Angeles. Già i tempi di reazione sono stati intorpiditi e le parole di circostanza spese. Ma Obama badi a come agisce in questo frangente, perché il mondo lo osserverà, considerando un'imperdonabile ingiuria qualsiasi lassismo e approssimazione, mentre la polvere si accumulerà sul suo premio Nobel. Bush è stato giustamente crocifisso sul fiasco di Katrina, errore la cui macchia non si cancella.
Con tutto ciò che ha detto, descritto e pensato d'incarnare, questa sciagura è il rendiconto per il 44esimo presidente. Cinico qui, cinico per sempre. Se l'America di questi mesi assapora un'umiliazione collettiva attraverso l'impervio cammino di riemersione dalla crisi economica, ecco che un evento a largo della costa sudorientale le mostra che qualsiasi disastro è sempre una prova della vera Apocalisse. Che non esistono gradi di separazione dal male e dal dolore, che è tutto o niente, verità o finzione, o si è davvero gli invincibili guardiani del bene e della civiltà o non si è niente di tutto questo, perché il part-time non è dato. Obama decida se fare di Haiti l'“issue” tragicamente a sorpresa del suo 2010, trasformando la salvezza dell'isola in una vera priorità americana. Tra quelli che credono, tra quelli del Vecchio Testamento, devono essere in tanti a pensare che questo terremoto d'allucinante simbologia sia un tic del mignolo di Dio, mossosi per solleticare la nazione che spesso lo invoca e per capire se si tratti ancora della promettente frontiera interiore nella quale venne coinvolto, oppure ormai sia solo un altro deserto perduto, disseminato di spiriti, neon e postriboli del peccato.
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Dopo averle inventate, adesso in America le playmate le ammazzano. E' capitato due volte negli ultimi mesi, in circostanze simili, come se la probabilità di fare una fine del genere sia proporzionata alla circonferenza texana delle tette di queste ragazze. In agosto è toccato alla ventottenne Jasmine Fiore (vero cognome: Lepore. Ascendenze italiane), strangolata, mutilata e rinchiusa in una valigia dal fidanzato Ryan Jenkins, il cui mestiere ha una definizione sensazionale, da collocare al centro di questo viaggio nella nuova barbarie americana: “concorrente nei reality show”. Per riconoscere il cadavere, gli inquirenti sono ricorsi al numero di serie delle protesi del seno di Jasmine. Ryan, 32 anni, l'ha fatta finita una settimana più tardi, a migliaia di chilometri di distanza (già: il grande paese), impiccandosi in un motel della British Columbia, Canada. I due s'erano conosciuti a Las Vegas. Lui aveva appena partecipato a un reality di bassa lega (titolo: “Megan è in cerca di un miliardario”, tutto un programma, no? quattrini e rimorchi. Gli autori devono esserne stati fierissimi). S'erano sposati sullo Strip, e avevano cominciato subito a litigare. Lei era una professionista delle chat line e delle pubblicità osè di costumi da bagno e aveva tanti vecchi amichetti a cui non rinunciava (o loro non dimenticavano le forme manga di Jasmine). Lui era geloso marcio.
La fine è andata in scena a Del Mar, vicino San Diego, con notevole eccitazione dei media locali e molti servizi su quelli nazionali, fino al ritrovamento di Jenkins suicida.
La faccia di Jasmine Fiore non si dimentica, se capita di vederne una foto. Paula Sladewski invece era più bella ma più banale, omologata al pacchiano canone estetico di “Playboy”. La statuaria Paula ha 26 anni, quando, qualche giorno fa, il suo corpo finisce arso in un cassone dell'immondizia a Miami, dopo che una telecamera di controllo l'ha ripresa mentre usciva da un club, alle sette del mattino. Il fidanzato era stato con lei fino a poco prima, avevano bevuto, fatto baldoria, come fanno sempre le playmate prima di farsi massacrare, e infine avevano litigato, perché mica dev'essere facile uscire con una ragazza così, con tutti gli sguardi bavosi che le si appiccicano addosso. Paula e il suo tipo erano a Miami per un Capodanno la cui attrazione era il concerto di Lady Gaga, ultima diva pop d'oltreoceano, quella senza faccia e senza look, dal momento che ogni volta che appare ne ha di diversi – traduzione trash di Pirandello. Per spegnere il cadavere di Paula che bruciava hanno dovuto chiamare i pompieri. Pochi minuti dopo gli investigatori dicevano in tv d'essere pronti a tutto per rinchiudere le belve che avevano ridotto così quella ragazza.
Anche in questo eccesso di zelo c'era un erotismo d'accatto, tra cameramen che vomitavano per il puzzo insopportabile (immortalati su “YouTube”) e fotografi a caccia dello scatto da National Enquirer, il rotocalco che sulle foto delle salme ha costruito un impero, in vendita alle pompe di benzina. Kelly, sorella di Paula, in un talk show ha rivelato d'essere distrutta dal non poter garantire a quel gran pezzo di figliola il funerale a bara aperta, indispensabile per rendere giustizia alle sue forme sensazionali. Il voyeurismo galoppa, mentre per un weekend la storia viene spolpata in tv da bellimbusti sospiranti e conduttrici con faccia di circostanza e acconciatura poligonale. D'altronde non si è trovato di meglio da servire al pubblico chiuso in casa, infreddolito dal peggiore inverno che si ricordi, talmente gelato che Al Gore si becca uno sberleffo al giorno dal meteo di Fox News. Ergo, benvenuti nell'inferno mentale americano. Potrebbe non esserci più espiazione che tenga, dal momento che troppe colpe sono state consumate e in fretta si stanno cancellando le tracce del cammino per la salvezza. Bisogna far presto.
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Gli americani adorano i doppi finali. Quelli dove, quando si è sull'orlo del precipizio, arrivano il pentimento e la redenzione. Hollywood, no?
I democratici lo sanno che quello che sta arrivando è un brutto anno. Quanto brutto? E' da vedere. Brutto, difficile, rognoso. Una resa dei conti. Pronti? Attrezzati? Si direbbe di no. Non c'è stato nemmeno il tempo di smaltire l'euforia del 2008.
Per consolarsi si guarda dall'altra parte dello steccato, in casa repubblicana. Tanta agitazione, gente che urla. Progetti seri? Nuovi leader? Volontà unitaria? Niente di tutto ciò. Allora forse i democratici possono sospirare di sollievo? No, davvero no. Semplicemente hanno guardato nel posto sbagliato, in una direzione che inganna. Eppure le indicazioni sono chiare, i media non fanno che strillarglielo in faccia. A che serve fingere d'avere un solo legittimo avversario, se i tempi sono cambiati? I repubblicani riusciranno a darsi rapidamente una presentabilità e un programma coerente? Probabilmente no, ma non è questo l'interrogativo che tormenta gli americani che continuano a credere nelle urne elettorali. Nell'ultimo anno il gioco repubblicano è stato, con alcuni sussulti schizofrenici, quello dell'ostruzionismo, del “no”. Alla fine ci si è convinti che, in fondo, semplicemente “no” fosse quello che la maggioranza degli americani aveva da dire alle proposte di Obama.
Non che sia stata una strategia del tutto insulsa: le mosse della Casa Bianca hanno provocato una naturale aggregazione degli americani a destra, attraverso un procedimento segmentato sulle tante questioni in ballo, e su cui s'ingrossavano le file del dissenso: Iraq, sanità, sicurezza, aborto e, prima di tutto, la gestione della crisi. Però può seriamente bastare una tattica del “no” quando arriva il momento dei faccia a faccia elettorali? Non è per niente sicuro, visto che le personalità disponibili non sono elettrizzanti dal punto di vista dialettico e che i democratici lotteranno all'ultimo sangue, prima di mollare l'osso. Perciò il Partito repubblicano dovrebbe prepararsi con più sagacia ad approfittare di un'occasione che arriva prima del previsto. Pronti a tentare? Coloro che potrebbero dirsi pronti non sono organici al partito. Anzi, nonostante ne condividano l'assunto sulle grandi questioni, ritengono oggi un peso agire sotto le sue insegne. Si profila una crisi irreversibile del bipolarismo d'oltreoceano? Non sarà indolore tornare ai limpidi fronteggiamenti di punti di vista.
Servirà una purificazione, una guida che si faccia interprete del rinnovamento. Vedete un Reagan all'orizzonte? Di nuovo, no. Le sagome che si agitano non lavorano per la causa unitaria di un partito, ma in favore di qualcosa di più impalpabile e più omerico al tempo stesso: per (se stessi e per) l'America, per come si pensava essa fosse, per come andrebbe ricostruita. Un'illusione? Il pensiero scientifico dice di sì. Ma la passionalità americana non smette di pensare che quello sia il luogo dove ogni traguardo è possibile, compreso il reintegro nel Paradiso Terrestre. Un doppio finale, appunto. Se solo ci fosse qualcuno capace di segnare la strada. Se solo non fosse un'esperienza mediocre, partecipare a questa possibile epopea solo da uno schermo televisivo, tra raffiche di spot. C'è una distonia, inutile negarlo. L'errore è stato commesso e poi si è perseverato. L'inversione a U è miracolismo. Ma altrimenti bisognerebbe chiudere bottega. Sopravvivere di ricordi mentre la fine si avvicina con l'incedere del secolo. Ci dev'essere una soluzione. E dev'essere una soluzione umana ed empirica. La forza degli uomini. Non ebbero forza soprannaturale quelli del We the People del 1787? Non era contro tutte le probabilità? Il funerale può aspettare. Coltiviamo positività. Non corriamo. Lucidamente. La cartuccia con sopra il nome di Barack Obama, il primo degli uomini della provvidenza, è stata sparata. Una percentuale fastidiosamente crescente d'incontentabili americani, sostiene ormai che il colpo fosse a salve.
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Conservatorismo compassionevole. Significava, nell'accezione di Karl Rove, che era giusto fidarsi della migliore borghesia americana, quella fiorita sullo sbocciare del capitalismo americano. Che era giusto lasciar fare a quella middle class responsabile e misurata, attenta al tornaconto, ma sensibile al suo ruolo sociale: ci avrebbero pensato i migliori americani al comando a condividere a sufficienza, allontanando la sofferenza dallo spirito nazionale. Vera americanità, distribuita con munificenza e opportunamente propagandata.
Chi si ricorda di George W. Bush quando presentò quel “conservatorismo compassionevole” così gravido d'impegno? Certo, dietro c'erano scenari diversi, c'era il liberismo al galoppo, c'era il ridimensionamento dello statalismo clintoniano, c'era una strizzata d'occhio a una borghesia rombante, mica dimessa come adesso. Conta parlarne oggi? Quello era prima dell'11 settembre 2001, era il frammento del secolo scorso che sconfinava nel terzo millennio, senza sapere cosa l'aspettasse in quella tersa mattinata newyorkese. Adesso abitiamo un tempo diverso, fatto anche della stanchezza nei confronti delle lungaggini del politicamente corretto. Dopo il lutto, dopo la guerra, dopo la paura, c'è voglia di dire pane al pane, d'avere a che fare con cifre tonde, con certezze e non promesse, moneta sonante, non cambiali. Una cosa è rimasta la stessa: due americani su tre – lo certifica Gallup – si riconoscono nella definizione “conservatore”. La stessa percentuale rilevata in coincidenza con l'attacco alle Torri.
Ci fu un gesto, nell'avvento del “conservatorismo compassionevole” di George W. che mi piacque, perché mi sembrò di vederci uno slancio sincero, una convinzione diretta, la stessa che sovente mancava alle pubbliche mosse di quel presidente. Fu l'annuncio del programma “No Child Left Behind”, a cui aveva contribuito con entusiasmo perfino un suo acerrimo nemico come Ted Kennedy. Si era all'inizio della fatale estate del 2001, quando Bush, fresco di Casa Bianca, mise al sicuro questo sistema di provvedimenti e finanziamenti che sintetizzava il concetto di conservatorismo compassionevole, non nella machiavellica accezione di Rove, ma nella lettura “ranchera” che le attribuiva quel presidente dal bizzarro pedigree. Si legiferava in favore del sogno americano, per quanto la definizione fosse generica. Si agiva a pettine nella retroguardia nazionale per far sì che gli ultimi ritrovassero incentivi per gareggiare dignitosamente. Si pensava ai piccoli. Si agiva nel nome dell'uguaglianza. E Bush, per la sua formazione culturale, per la terra da cui proveniva, per la cultura di cui era prodotto, ci credeva, con commozione.
Negli stessi mesi in cui s'arroventava la polemica sul meccanismo educativo e la sua produzione di burnout, fregati da problematiche comportamentali e familiari, ma condannati da uno spietato sistema scolastico, la Casa Bianca marciava nella direzione opposta. L'America apprezzò. C'era una sensazione di rigenerazione di principi originali, mortificati da una sottovalutazione alla quale si poneva rimedio. Mettendo regole e quattrini in favore della compassione. Nel 2009, a più riprese, il sensazionale presidente Obama, appena insediato in contingenze obiettivamente più difficili, ha provato a rilanciare qualcosa che, nel campo dell'educazione, aggiornasse quel progetto malconcio e l'adeguasse alle nuove esigenze (per esempio etniche). Le reazioni sono state tiepide. L'idea in circolo è “accontentiamoci di quel che c'è. Anzi: i meno fortunati si accontentino, perché le urgenze sono altre. Qui si tratta di salvare la pelle al sistema, altro che equiparazione delle opportunità educative”. Il noioso dibattito sugli standard educativi per il XXI secolo è rimandato a data da destinarsi. Ma questi non sono adeguamenti indolori, per un sistema evolutivo come ha voluto essere quello americano. Questi errori si pagano. Basta visitare una scuola normale del paese, non Yale ma un liceo di periferia, per capire che l'errore è in corso. I figli sono lasciati indietro, nella graduatoria delle cose da fare. “Tutti hanno derivato benefici dagli antenati”, scrisse l'educatore ottocentesco Horace Mann, descrivendo l'esperienza americana per come si configurava in quel ribollente momento. Tanto era già successo, e praticamente doveva ancora succedere tutto. Ma allora gli indicatori erano fantastici e le prospettive illimitate.
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