Alberto e i suoi fratelli
Alberto Arbasino nel suo vasto mondo ha un gemello defilato, Andrea Emo, un aristocratico pensatore che per tutta la vita ha elaborato e rielaborato il proprio pensiero e lo ha trascritto a mano senza darlo alle stampe, standosene ben lontano dall'accademia e dai dibattiti intellettuali. Nato a Battaglia Terme (Padova) il 14 ottobre 1901, primogenito dei tre figli di Angelo Emo Capodilista ed Emilia dei baroni Barracco.
Alberto Arbasino nel suo vasto mondo ha un gemello defilato, Andrea Emo, un aristocratico pensatore che per tutta la vita ha elaborato e rielaborato il proprio pensiero e lo ha trascritto a mano senza darlo alle stampe, standosene ben lontano dall'accademia e dai dibattiti intellettuali. Nato a Battaglia Terme (Padova) il 14 ottobre 1901, primogenito dei tre figli di Angelo Emo Capodilista ed Emilia dei baroni Barracco, nel '18 si iscrive alla facoltà di Filosofia della Sapienza, a Roma, dove segue per un anno i corsi di Gentile, ma quando viene chiamato al servizio di leva abbandona l'università senza laurearsi; muore a Roma l'11 dicembre 1983.
Così Arbasino lo ricorda su Repubblica del 28 marzo 1989:
“Somigliava moltissimo al ritratto veneziano del Cavaliere di Malta in ‘Andrea o i ricongiunti' di Hofmannsthal. Un corpo lunghissimo e sottile, che scrivendo si curvava sul piccolo tavolino, sotto il quale le lunghe gambe non trovavano posto se non a forza di discrezione, braccia lunghissime, che a fatica avevano dove posarsi, dita lunghissime che reggevano l'asta della penna cattiva, che scricchiolava […] Andrea Emo era silenzioso e arrossato e benevolo, canuto in una conversazione familiare femminile elegante e lieta, con amabilità napoletane e predilezioni per illustri ospiti inglesi abitanti a Windsor. Quelle sue smisurate riflessioni sul Negativo si svolsero in una cornice di ville palladiane aperte su paesaggi euganei soavi; e in un'altana davanti a Castel Sant'Angelo. Distaccato, appartato, colmo di grazia, non amava discorrere: semmai, donava un catalogo sul tempo di Alvise Cornaro, il coltivatissimo e intricato sapiente della ‘Vita Sobria'. Ma le sue biblioteche erano strabilianti: a Monselice, simile a un grande istituto di filosofia teoretica; e a Roma, con molti storici, molta Pléiade, molti Scrittori d'Italia, e anche tanti piccoli classici del Novecento italiano acquistati nelle prime edizioni, o in ristampe molto al corrente coi banconi delle librerie. Si sapeva dei quaderni, naturalmente; ma non se ne parlava, né si vedevano. Erano segreti. Forse, nascosti dietro paperbacks di poesia Gallimard.
La sola volta che avvicinai una sua prosa, venne distribuita agli ospiti di una grande festa ruzantiana alla villa di Rivella; e rimasi abbagliato per l'uso eccelso del Grande Stile”.
Un'epifania in cui rispecchiarsi. Arbasino chiude il medaglione dedicato all'amico evocando
“la funzione suprema del linguaggio, il miracolo che il linguaggio esige da se stesso: essere un'espressione che crei l'inesprimibile, cioè il mistero, chiaro e nascosto, dell'individuo…”.
In oltre cinquant'anni, dal 1927 al 1981, Emo scrive qualcosa come quattrocento quaderni pari a circa quarantamila pagine, un diario filosofico di cui non pubblica una riga. Immagina un altro destino: “Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po' di luce. Soltanto il fuoco e le fiamme dello spirito possono trasformare la realtà immediata ed oggettiva in forma, in misteriosa soggettività” (annotazione del 1964). Ma poco dopo la morte la moglie, Giuseppina Pignatelli dei principi di Monteroduni, tramite un amico di famiglia, il musicista e scrittore Ernesto Rubin de Cervin, fa leggere qualche quaderno a Massimo Cacciari il quale, impressionato dalla potenza speculativa che emanano, affida l'intero materiale a due colleghi filosofi, Massimo Donà e Romano Gasparotti.
Da allora sono stati pubblicati degli estratti suddivisi per presunte aree tematiche, operazioni editoriali legittime e comprensibili che però spezzano il continuum di un pensiero monolitico. Perché in fondo Emo pensa e ripensa la stessa cosa che può dirsi in molti modi ma non sfugge all'evidenza di chi legge il suo diario. Dio, logos, nulla, assoluto, coscienza precipitano in un vortice di fuoco che brucia ogni determinazione positiva. In questo senso il filosofo padovano va oltre Hegel, per lui il negativo non è un momento della dialettica ma il Nulla originario. Inizio e fine, Dio e uomo, tutto si comprime in questo nocciolo incandescente davanti al quale Emo non smette di interrogarsi.
I suoi fogli sono zeppi di domande e aforismi, i dilemmi si moltiplicano, le definizioni incalzano. Un'impresa vana e necessaria. “Il filosofo è un uomo che con infinita difficoltà e angoscia, e con qualche fallace soddisfazione, crea un sistema in cui si illude di avere imprigionato il mondo, gli uomini e le anime, il tempo e lo spazio; ma alla fine si accorge di aver imprigionato soltanto se stesso, la sua libertà, la sua possibilità di evadere negli infiniti campi della vita, dell'essere, dell'imprevisto e dell'irrazionale. Ma forse il sistema della necessità, costruito dal filosofo, serve a mettere in evidenza, o meglio ad accorgersi della presenza, in noi e fuori di noi, di un mondo irrazionale e magico, come appunto l'Io, il Soggetto, la coscienza, la memoria, la sensazione, che si sottraggono a essere irretiti nei limiti del sistema e che avvolgono noi e il nostro pensiero, senza essere mai avvolti” (1977).
Emo ha vissuto dentro questa contraddizione senza mai scomporsi, macinando felpate bestemmie frutto di un pensiero talmente ellittico da implodere su se stesso. “La vita è assurda, ma appunto perché assurda, è divina: la sua assurdità è la sua divinità. Dio è l'assurdità della vita” (1960) e la verità è che “noi siamo il negarsi dell'infinito” (1981). Il filosofo padovano, in fondo, tenta di dare ragione di un Dio negativo che non si rivela né si rappresenta ma che si presta a essere il punto debole di ogni sistema. “Dio è morto” non è l'epitaffio nicciano sull'occidente ma il cuore del messaggio cristiano: “L'annuncio ‘Dio è morto' non soltanto è contenuto nei Vangeli, non soltanto è l'essenza dei Vangeli, ma è l'Evangelo stesso, è la buona notizia” (1967). E ancora: “L'annunzio della morte di Dio, cioè dell'assoluto, è stato dato duemila anni fa dall'Evangelio. […] Dunque Dio appare e dice: l'assoluto è morto, Io sono colui che muore. Io sono uno di tutti voi, ma in quanto essenza della vostra morte. […] Io sono, in questo atto di annunciare e negare, la resurrezione […] dovete essere grati che l'assoluto neghi il suo fondamento e il vostro” (1968). Siamo nei dintorni di Plotino, Meister Eckhart, Nicola Cusano e su su fino all'idealismo europeo (Fichte, Hegel, Schelling).
Le radici, invece, sono nella Grecia pagana, la ricerca impossibile dei “limiti dell'anima” di Eraclito e l'impresa tragica del conosci te stesso con la quale il cristianesimo non rompe. Anzi, il “mito cristiano”, come lo chiama, “come ogni rivoluzione è un disperato ritorno all'antico, l'oscuro rimpianto e il desiderio di reintegrazione di un'età dell'oro. […] L'antico evo rimpianto era la religione dei sacrifici, che consacrava la vittima e ne era consacrata; come Dio consacra la sua vittima, ne fa l'unico suo figlio e ne è salvato” (1969). Niente a che vedere con il rigido monoteismo giudaico.
Ma il vero bersaglio polemico di Emo sono gli sviluppi storici del cristianesimo. La Riforma annulla ogni individualità di fronte a Dio e spalanca le porte alla democrazia fino a “divenire vittima della sua creatura”. La chiesa cattolica “si è virtualmente sostituita al Cristo ed ha cioè identificata la fede con la sua disciplina, con il suo ordine, con la sua autorità”, mettendo dunque un'ipoteca sull'abisso che l'ha generata e disponendo un apparato istituzionale che dissolve la “purissima fede” nella verità crocifissa. “La Chiesa dovrebbe essere dispensatrice della Grazia divina che per definizione è gratuita; per definizione e per etimologia; la Chiesa dovrebbe essere quindi il tipo stesso della amministrazione fallimentare, del cattivo affare – Invece è la finanziaria più potente del mondo – ‘Come esser può Quei sa che sì governa'” (1967; la citazione è dal canto XXVIII dell'Inferno di Dante, autore che compare spesso nei quaderni). Perciò “noi cristiani non possiamo più essere cattolici”.
Sembra di sentire Simone Weil, che Emo aveva letto, o Maria Zambrano, entrambe convinte che tra Europa antica pagana ed Europa cristiana c'è un filo che non si spezza, una trivella eraclitea sotto i bastioni del logos. Come queste due singolari pensatrici (e altri cani sciolti come Piero Martinetti), il filosofo padovano è diventato un punto di riferimento nel confronto tra filosofi e teologi, in particolare grazie a Cacciari, Donà e altri; ma non è sfuggito, l'aristocratico dai testi segreti, all'ésprit de finesse di Arbasino, alla sua insaziabile curiosità di vita e di cultura. Una gnosi che intriga, ostica al cattolicesimo più rigoroso, ma con cui si confrontano i teologi più agili, sorprendenti: Coda, Forte, Salmann, Sequeri. D'altronde, un pizzico di gnosi, di totale razionalizzazione di Dio e del mondo, c'è in ogni filosofo cristiano, da Origene in poi. Il Dio negativo rimette in funzione la macchina dialettica guastata dai figli bastardi di Hegel ed è all'origine di continui sfondamenti filosofici che pretendono un pensiero cristiano (anche cattolico) all'altezza, una ratio fidei degna del suo nome.
“Io ho passato la vita inseguendo le Chimere e me ne congratulo” (1973), scrive un Emo in un certo senso iperarbasiniano. Pensatore antimoderno, deluso dal fascismo – cui aveva aderito con entusiasmo – per la sua svolta in difesa dei valori, critico del comunismo per la sua negazione dell'individuo e la sua perversa inclinazione alla “popolarità”, ostile alla democrazia liberale che esalta il pubblico, l'universale, l'esteriore. L'individualità, la coscienza, era il solo culto che praticava. E in questo, di nuovo, si rivela un lato del suo scrittore attiguo, di un incantato Arbasino che certo non ha prodotto la sua opera per alimentare l'ideologia della democrazia di massa.
Un aristocratico vero di quelli adorati nel mondo letterario e vitale dell'autore di “Fratelli d'Italia” (discendeva da Angelo Emo, l'ultimo ammiraglio della Repubblica di Venezia che sconfisse più volte i Turchi), un dandy che risalta tra tanti snob e tante bas bleu. Un eclettico assoluto, non catalogabile. E come si potrebbe dire altrimenti di uno che teneva sul comodino Julius Evola e Hans Urs Von Balthasar?
In principio era il Verbo, poi venne la conversazione. Tra questi due fuochi si articola la fede letteraria di Arbasino e la fede filosofica di Emo. Un'appartenenza non priva di autoironia: “I pensieri filosofici hanno un cattivo stile, […] il cattivo stile di chi vuole servirsi dell'espressione per giungere ad uno scopo”, scrive il filosofo padovano nel 1964. Lo scopo è il concetto che si fa oscuro non appena viene alla luce. Meglio custodirlo nelle segrete stanze, allora, e lasciare il salotto buono alla rarefatta conversazione con gli amici tra cui Alberto Savinio (che lo ha ritratto), Ugo Spirito (il solo filosofo cui fa leggere qualche pagina ricavandone un incoraggiamento), Ennio Flaiano, Elemire Zolla, Cristina Campo (con cui ha uno scambio epistolare). E Arbasino, il suo doppio. Lo scrittore di Voghera racconta tutto e il contrario di tutto, il filosofo di Battaglia Terme teorizza che tutto è il contrario di tutto, entrambi con grande stile. Il rapper delle patrie lettere e il rapsodo eremita. Modernista conservatore il primo come il secondo. Tutti e due dotati di una scrittura infinita, una lingua-mondo che si estende allo spasmo per tenere a bada l'irruzione divina nella realtà. Tutti e due in religiosa solitudine, di nessuna chiesa.
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