Come convivere con Arbasino
Negli ultimi anni Adelphi ha riproposto molti libri di Alberto Arbasino e ora è appena uscito il primo dei due Meridiani dedicati alla sua narrativa, con un eccellente saggio introduttivo di Raffaele Manica. Qui celebro, festeggio, cerco di capire Arbasino. Ma comincio con un piccolo sfogo, perché con Arbasino, come lettore, non so convivere. E' troppo veloce: io amo la lentezza.
Negli ultimi anni Adelphi ha riproposto molti libri di Alberto Arbasino e ora è appena uscito il primo dei due Meridiani dedicati alla sua narrativa, con un eccellente saggio introduttivo di Raffaele Manica. Qui celebro, festeggio, cerco di capire Arbasino. Ma comincio con un piccolo sfogo, perché con Arbasino, come lettore, non so convivere. E' troppo veloce: io amo la lentezza. Dà troppo: ho bisogno di meno. Lui enumera: io cerco una sintassi. Lui registra, provoca, mette in fila interrogazioni retoriche: io mi aspetto ragionamenti. Lui deborda: io vorrei pause e confini. Le sue energie sono infinite: io vorrei una sosta. Preferisco gli scrittori che cambiano ritmo e tono: lui (come peraltro Pasolini e Calvino) ha sempre un ritmo e un tono. Mi sento a mio agio con gli scrittori che hanno un io di media grandezza: l'io di Arbasino è invece un io minimo prossimo allo zero, sparisce di fronte all'oggetto su cui lavora. Oppure è un io che si dilata fino a coincidere con il fiume del divenire, con il mare dell'essere e con ognuna delle loro increspature: è un io sconfinato, veloce, perpetuamente mobile, che non sopporta né lo spazio né il tempo. Un io virtuosamente estroverso, perché l'interiorità è madre di tutti i vizi. La vitalità di Arbasino sfiora il sovrumano, anzi lo scavalca. Io amo tipi che disperano di poter raggiungere semplicemente l'umano.
C'è altro? No. Mi scuso con Arbasino, il difetto è mio. Tra i non molti scambi epistolari che abbiamo avuto, il più interessante riguardava la riscrittura. Arbasino si dichiarava contrario ai libri che raccolgono saggi già pubblicati così come sono. Gli sembrava, credo, una soluzione da pigri. Secondo lui bisogna riscrivere, lavorarci, rifare. Non riuscivo a capire: perché riscrivere se la prima volta si è scritto abbastanza bene? Forse avevamo torto sia lui che io, tutto è relativo. Deve riscrivere chi ne sente il bisogno, no? Ma Arbasino riscrive spesso e più volte i suoi libri, li sincronizza al presente. Gli sembra inconcepibile che ci si affezioni alla forma che si è data ai propri pensieri in una determinata circostanza. Per Arbasino la forma stabile risulta noiosa, invecchia, è statica e chiusa, non accetta modifiche. A lui piace piuttosto l'energia che produce la forma e poi di nuovo la rompe e la cambia: come si sa, “Fratelli d'Italia”, il libro esemplare e più voluminoso di Arbasino, è stato pubblicato in tre versioni differenti e progressivamente più ampie: Feltrinelli 1963, Einaudi 1976, Adelphi 1993.
La narrativa di Arbasino non deriva da generi codificati, usa e mescola forme preletterarie e paraletterarie: diario, enciclopedia, zibaldone, lettera, intervista, conversazione, recensione, taccuino di viaggio, reportage culturale. In misura minore, anche Pasolini tendeva a questo. Per scrittori così, che tendono a praticare tutti i generi e a reinventarli, più che l'opera conta lo spettacolo dell'autore in attività. Arbasino è la sua opera. E la sua opera è l'autore-personaggio, è la sua voce in scena.
Ma che tipo di scrittore è precisamente Arbasino? Si potrebbe dire che è un D'Annunzio che abbia letto Kraus, un D'Annunzio ironico, più mentale che sensuale, senza indugi estetici, più secco che umido, più satirico che idolatrico. O viceversa è un Kraus dadaista, che per poter giudicare ingloba e mima e che resta severo mentre fa finta di giocare o effettivamente gioca. Ma è anche un Gadda euforico e non depresso, che si crede contento di sé, ma non fa che giustificarsi e spiegarsi. Oppure è una combinazione di Palazzeschi e Praz: reifica e colleziona per sentirsi vivo, accumula per alleggerire.
Chiedersi perché Arbasino letterariamente agisce come agisce, è come chiedersi perché Arbasino è Arbasino. Moravia direbbe che Arbasino è quello che è. Sono i critici che debbono descriverlo, anche se l'autore, bisogna dire, li aiuta molto: si autodefinisce di continuo. Ma come ogni altro autore, oltre ad essere quello che è, Arbasino è anche altro. E' il mondo che ha visto e a cui ha reagito. Anche se il tono-Arbasino può disturbare qualcuno, anche se quel tono volessimo sottrarlo dall'insieme dei suoi scritti, la sua opera resterebbe uno dei più completi reportage sulla cultura-e-società del secondo Novecento.
Raffaele Manica osserva che gli elenchi di nomi, che sono in Arbasino un tipico tic stilistico, sono un “riepilogo della folla”. Questa folla è anche e soprattutto una folla culturale (per Arbasino società coincide con cultura). Oggi tra folla e cultura si è stabilito un connubio che provoca quelle mutazioni “epocali”che l'autore insegue e scova dovunque. A volte i nomi ci sono, altre volte brulicano non pronunciati dietro formule, definizioni, cripto-epigrammi inseriti e fusi nel flusso discorsivo. Disapprovo un po' la scelta di Arbasino di “non fare nomi”di connazionali viventi (ma l'efficacia satirica e polemica non esige i nomi?).
Provo a indovinarne qualcuno. Sfogliando “Un paese senza” (Garzanti 1980 e 1990) trovo naturalmente una “casalinga afflitta diventata rapidamente minimalista senza nemmeno cambiar lavandino” (qui fare nomi sarebbe doloroso anche per me). Trovo “piccole masse di mezze calze” (qui leggi: folla culturale creativa). Le “vecchie solfe” sono ricorrenti: varia il contenuto, resta la vecchia solfa. Trovo “il più smandrappato déjà vu” (a volte Arbasino è mimeticamente un po' volgare) e “il birignao saccente” (qui siamo tra sinistra politica, sproloqui filosofici, giornalismo culturale e accademico). Trovo infine “il ricatto malefico delle canizie assatanate e punitive che non sono riuscite a sistemare i problemi a casa” (sarà Franco Fortini? Lucio Magri?). Trovo “le madame di sinistra sempre ben pettinate e ben messe e riverite” (la Rossanda? La Castellina?). Trovo “l'oratoria anacronistica sulla centralità della classe operaia” (Tronti e Asor Rosa? Il manifesto?).
Fra elenchi di nomi e tanti nomi non detti, Arbasino contempla l'epoca in cui la cultura alta e la cultura di massa mostruosamente, comicamente, fastidiosamente si confondono e ogni docente universitario, o parlamentare, o giurista sogna di scrivere un romanzo che gli darà la fama di Umberto Eco e il prestigio di Claudio Magris: l'epoca della confusione, in cui (come ha scritto, mi pare, un poeta tedesco coetaneo di Arbasino) “… e quello che sembra Brancusi è proprio Brancusi”. Nei testi-schedario di Arbasino la storia e il senso del passato escono dalla “memoria vissuta” e diventano un presente assoluto e perpendicolare. L'intelligenza enumerativa e combinatoria di Arbasino, nella sua naturalezza, ha qualcosa di un'intelligenza artificiale turbata da intemperie e scherzi surreali. Forse (mi convinco) è proprio lui lo scrittore italiano (e non solo) più rappresentativo di fine Novecento, rappresentativo se non altro di un ordine caotico, di un caos ordinato e messo in memoria. Ma la fine del Novecento è lunghissima, sopravvive a se stessa, non smette di finire. Nel tempo della velocità e delle ritornanti lentezze, niente passa né finisce. Torna in peggio. Tutto è archiviato e depositato. Tutto è disponibile e fuori funzione. L'opera letteraria di Arbasino mostra che “la Storia è finita”: un enunciato che è vero quando sembra falso ed è falso pur dimostrandosi ogni tanto vero. In conclusione il presente è un'enumerazione caotica, è una farsa, una parodia, un'enciclopedia che abolisce la memoria, un tempo senza storia e una storia fuori della storia. Il presente è in definitiva nel suo insieme illegibile, o leggibile solo ad apertura di pagina, senza guardare a precedenti e conseguenze, come (a detta di Arbasino) un libro di Arbasino.
Che cos'è un autore? I suoi progetti o le sue realizzazioni? Nel nostro caso non è facile, né forse possibile, distinguere le due cose. Arbasino scrive così bene i suoi progetti, li espone e li ripropone con tanta verve erudita e inventiva in innumerevoli variazioni, che la sua può essere vista come un'opera di progetti e progettuale, la sua stessa autobiografia (più intellettuale che altro) è un progetto in progess. Essendo poi un autore che scrive sempre da critico, che scrivendo anche narrativa parla ai critici e li soverchia, li mette con le spalle al muro, li indottrina e li colonizza, Arbasino mette anche preventivamente in caricatura, a scanso di imprevisti, le categorie e terminologie con le quali i critici potrebbero criticarlo. Essendo scrittore in un'Epoca Critica e della Critica (ora finita), è uno scrittore che, come Sanguineti o Fortini, Eco o Pasolini, La Capria o Garboli, Ceronetti o Citati, non si sa dove sia creativo e dove riflessivo, dove oggettuale e dove concettuale, dove c'è il Segno come cosa e dove la Cosa come segno.
La prima e perdurante impressione che prova chiunque si metta a leggere Arbasino con l'idea di descriverlo e giudicarlo criticamente, è che tentare questo sia inutile, superfluo, improprio. Di fronte a libri che contengono come fondamentale ingrediente e struttura portante la propria “ragione”e definizione, il critico non sa che fare. Arbasino si descrive e si giudica criticamente da sé. Lo si può solo leggere, consultare, sfogliare, citare, antologizzare: si può solo fare con lui la stessa cosa che lui fa con i libri e il mondo. Ma esercitando a oltranza, anche senza cattive intenzioni, l'autodifesa critica preventiva, Arbasino confonde i critici e confonde se stesso: tende a credere che se l'autoesegesi è efficiente il rischio di fallimento è superato. Almeno in questo (oltre che nel voler “catturare il presente”) Arbasino si dimostra scrittore d'avanguardia e “assolutamente moderno”: il suo forte senso del passato (culturale) gli serve a costruire barriere e trincee critico-teoriche o polemico-satiriche che vanifichino ciò che teme di più: l'accusa, considerata “tradizionale” da ogni avanguardia, secondo cui l'autore aveva buone condivisibili intenzioni, ma il risultato finale è dubbio, non soddisfa e il prodotto come lo si legge non mantiene quello che promette.
Dopo queste dubitanti premesse, dico che se l'area del Gruppo 63 ha prodotto uno scrittore morale e umorale (gli umori contano!), leale e onesto benché ludico, questo è lui. Se posso dirlo, Arbasino ama la vita nonostante tutto: e questo ne fa un giudice, un complice, una vittima del presente. E' ubiquo eppure non si mescola. E' un moralista non apodittico ma interrogativo. Oscilla fra rigori e frivolezze. Ogni volta che si mette a scrivere una dura sentenza la trasforma subito in un interrogativo. Con rabbiosa allegria, è euforicamente spietato, ma viene letto da lettori ipocriti come “autore leggero”. E' aggressivo ma non drammatizza, non prescrive, non teorizza sul passato e sul futuro. Si limita a confrontare il meglio del passato con il peggio del presente. Non fa polemiche dirette, né satire ad personam. Tutti lo applaudono, la sua critica diventa letteratura, la sua scrittura-spettacolo attutisce i colpi, scivola via, nessuno si offende.
L'ampio, esauriente, mobilissimo saggio introduttivo di Raffaele Manica (“Se il romanziere non racconta storie”) dice più o meno tutto.
Neppure una volta il critico perde la misura della giusta distanza o vicinanza dal suo autore. Non lo fa diventare piccolo per vederlo meglio, non lo ingrandisce fino a fargli coprire tutto l'orizzonte. Gli cammina accanto curioso e cauto, segna tutto sul suo taccuino, collabora con l'autore senza confondersi con lui, senza censure né cerimonie, con la schiettezza e la naturale autorità di chi non si infatua né diffida, semplicemente cerca di capire tutto il visibile e poi di scoprire se c'è qualcosa di più nascosto sotto la scintillante superficie testuale.
Arbasino! Tutte quelle pagine! Come si fa a leggerle? Però l'autore è impaziente e in perfetta sintonia con lettori impazienti. Dice che “Fratelli d'Italia” può essere letto aprendo il libro a caso. Arbasino dà tutto subito, non dilaziona, non rimanda, non vuole perdere il contatto con chi legge, vuole dargli al più presto piena soddisfazione. Ci riesce? Nessuno può rispondere a questa domanda. Ogni lettura è un atto dall'esito imprevedibile. Si tratta di vedere che cosa si cerca e come lo si cerca. Comunque si trova di tutto. Arbasino, che cominciò narratore con “Le piccole vacanze” nel 1957, fu subito un narratore che si guardava narrare, un narratore che recitava e fingeva l'atto di narrare: era cioè un saggista d'invenzione che racconta quello che ha visto e pensato come “dal vero” e come se inventasse tutto. In lui il problema è lo statuto di ciò che è reale in relazione a ciò che viene scritto e che non è meno reale, anzi più reale ancora. C'è una realtà scritta che mangia una realtà che si suppone sia esistita prima delle parole: ma non si sa che cosa sia in sé, non si può dire, o meglio si può solo dire.
La quantità dei libri e delle pagine di Arbasino (ogni libro è un po' diverso dall'altro, ma non troppo) suggerisce che fuori della scrittura non c'è niente, “dopo” la scrittura non resta più niente. Se la scrittura è così densa e fitta, è per non vedere che fuori ormai c'è il vuoto. E' la fame di realtà che produce questo vuoto. La scrittura di Arbasino è vitale e vorace, ma il suo effetto è nichilistico. Una volta mangiata dalle parole, la realtà è nulla. In lui lo scrittore è tutto e quando lo scrittore non c'è e non scrive, allora non c'è niente. Per Arbasino la realtà non detta, anche quella, è uguale a niente. Se fossi un linguista vorrei scrivere una Linguistica di Arbasino, descriverei i fondamenti in lui della funzione-linguaggio, una funzione speciale e totale perché spinge l'uso delle parole verso il massimo di necessità, nella materializzazione di un continuum di produttività e loquacità senza pause. Arbasino sa che se smette di usare il linguaggio come organo di appropriazione, apologia e neutralizzazione del mondo, allora il mondo potrebbe divorare e neutralizzare lui.
Come suggerisce e conclude Manica, Arbasino è anche ciò che tutte le sue strabilianti parole non dicono. E' anche ciò che il suo occhio, che vede tutto, non vuole guardare. E' la pietrificante testa di Medusa, o Realtà reale, di cui parlò Calvino nelle “Lezioni americane”, ciò che lo scrittore non può guardare direttamente. Nella tentazione di “catturare il presente” Arbasino ha indicato il primo principio e movente della sua poetica.
Ma il presente non si può catturare né con i concetti, le filosofie, le teorie, né con le forme letterarie. Il presente è imprendibile, non cade nelle reti che noi gettiamo. Il presente è il non teorizzabile e il non rappresentabile. Ma che cosa può fare uno scrittore se non sfidare questa impossibilità? Arbasino la sfida, l'ha sfidata con più generosità e dispendio di energia che molti altri scrittori italiani coetanei. In questa lotta Arbasino ha avuto l'aria di vincere, ma voleva vincere? Della realtà, di tutta la realtà, più che il vincitore voleva essere l'intimo amico, il confidente, il figlio prediletto.
Scrive Manica: “Nell'idea di romanzo di Arbasino le citazioni sostituiscono l'intreccio o l'avventura del romanzo tradizionale”(p. LXXI). Ma fra intreccio e avventura deve esserci un terzo elemento, il personaggio, senza il quale né avventura né intreccio sono possibili e hanno senso. Salvo eccezioni, i narratori che rifiutano o si propongono di superare il cosiddetto “romanzo tradizionale” non inventano personaggi, lavorano sulla scrittura e lo stile. Quindi il fatto è semplice: una narrativa che non sia trainata e sostenuta da uno o più personaggi (o da un io narrante autobiografico) non ce la fa a essere narrativa. Perché allora ostinarsi a chiamare narrativa “più moderna” qualcosa che non è narrativa? Che bisogno c'è di proporsi come narratori se si vuole e si sa fare altro? Con Arbasino il problema è che la sua voce e il suo tono (le sue citazioni) non bastano a reggere una narrativa senza intreccio, avventura, personaggi.
Inoltre, benché abbia letto Adorno e ami le idee, Arbasino nella sua saggistica tende a schivare le idee, o meglio lo stile argomentativo, raziocinante. Le idee gli interessano nei loro effetti, come comportamenti, frasi fatte e ripetute, discorso vissuto che infesta la società. Resta, appunto, la Conversazione, stella fissa nella poetica di Arbasino. E' qui che Arbasino autore appare e si impone come il personaggio centrale di tutti i suoi libri. Solo che nella sua saggistica narrativa e nei suoi romanzi-saggio, Arbasino conversa con una società senza conversazione. La sua conversazione è costretta al monologo. Ecco: nonostante la teatralità della sua scrittura letteraria, Arbasino non scrive per essere letto e neppure per divertire o meravigliare. Scrive per esistere e per far esistere. La letteratura è per lui una pratica igenica che appartiene alla sua fisiologia mentale, al rapporto fra le sue facoltà e ciò che le nutre, ciò che esiste. In fondo gli interessa più scrivere che essere letto. Può succedere (come succede) che sia letto e amato. Ma la sua leggibilità è un epifenomeno, è un accidente estrinseco e quindi secondario, che non appartiene in sostanza alla sua attività di scrittore. Primariamente, intrinsecamente la sua scrittura si autogiustifica bastando a se stessa.
L'aristocraticismo e l'etica del lavoro di Arbasino nascono dalla sua istintiva, sovrana indifferenza al pubblico, alla sua estensione e quantità. Arbasino ubbidisce a se stesso e ai suoi fantasmi, fratelli maggiori e maestri, nonché, ora, memoria della sua giovinezza. Ubbidisce alla sua idea di quanto di meglio e di più simile a lui la letteratura ha prodotto in passato, nei secoli: scrive, credo, per Petronio e Persio, per Sterne e Parini, per Palazzeschi, Gadda, Auden, Longhi… La sua letteratura non comunica, esiste. Fa concorrenza al mondo. La sua forma è una conversazione senza interlocutori, più assoluta che relazionale, resa assoluta dal vuoto sociale. Sembra “coded chatter”, chiacchiera in codice, ma è il presente effimero sottratto al tempo. E' una lingua-mondo come oggetto d'arte.
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