Destrezze

E' nato il finismo, dicono, sistema coerente per un pensiero à la carte

Alessandro Giuli

Fino a ieri avevamo conosciuto soltanto Gianfranco Fini e i suoi seguaci finiani. Adesso, scorrendo l'ultimo numero di Charta minuta, il bimestrale della fondazione FareFuturo, prendiamo atto d'un salto di livello. E' nato il “finismo”, un insieme culturale e politico dalla pretesa coerenza e organicità di struttura. L'incarico di spiegare al lettore che cosa sia il finismo se lo prende Alessandro Campi, politologo e direttore scientifico di FareFuturo, il più qualificato pensatore della così detta “destra nuova”, come la definisce lui.

    Fino a ieri avevamo conosciuto soltanto Gianfranco Fini e i suoi seguaci finiani. Adesso, scorrendo l'ultimo numero di Charta minuta, il bimestrale della fondazione FareFuturo, prendiamo atto d'un salto di livello. E' nato il “finismo”, un insieme culturale e politico dalla pretesa coerenza e organicità di struttura. L'incarico di spiegare al lettore che cosa sia il finismo se lo prende Alessandro Campi, politologo e direttore scientifico di FareFuturo, il più qualificato pensatore della così detta “destra nuova”, come la definisce lui.

    Campi è prudente e ammette che “‘il finismo' è solo un tentativo – per carità, modesto e discutibile, precario e forse nemmeno troppo ardito – di cercare di battere nuove strade, recuperando per quanto possibile il tempo sinora perduto”. All'ingrosso il tempo perduto cui fa riferimento Campi è quello che coincide con l'eterna transizione italiana cristallizzatasi nel quindicennio del berlusconismo, con i suoi sostenitori e i suoi censori. La sfida del tempo a venire, sintetizza Campi, sta invece nel “costruire una nuova cultura politica, che da un lato possa prendere il posto delle antiche e fallimentari ideologie, senza ovviamente riproporne il carattere schematico e la pretesa di interpretare il movimento della storia in modo fatalistico e meccanico, e dall'altro fungere da bussola ideale per l'azione degli uomini di governo, altrimenti condannati a un pragmatismo privo di respiro”.

    Sono parole sensate, per quanto generiche, poste a presidio della conclusione di un articolo nel quale la tesi di fondo è questa: il debole paesaggio culturale del centrodestra, e del Pdl in particolare, deve prendere atto di “una novità” prodottasi “nella attuale scena politica, che si riassume nelle posizioni – innovative per alcuni, sin troppo eretiche per altri – assunte nel corso degli ultimi due-tre anni da Gianfranco Fini su tutta una serie di materie, che vanno dall'immigrazione alla bioetica, dai diritti civili alla cittadinanza, dalla laicità all'ecologia”. Dunque il finismo è né più né meno il punto di vista originale del presidente della Camera sui temi sopra citati? Il volume di Charta minuta, secondo Campi, starebbe lì a dimostrare che c'è molto di più: “Chi avrà la pazienza di scorrere le pagine seguenti noterà, ad esempio, che molte delle tesi avanzate e sviluppate nei diversi contributi, tesi che in Italia ci si ostina a considerare del tutto incongruenti con i caratteri propri di una destra che pure si vorrebbe popolare, riformatrice e liberale, sono in realtà merce corrente nel resto d'Europa, dalla Francia di Sarkozy alla Gran Bretagna di Cameron”.

    Ecco, forse il punto è proprio questo. Perché a leggere “le pagine seguenti” si nota per lo più un discorso intellettuale uniforme e tremendamente tautologico. Un discorso centrato sulla logica onnivora dell'et-et, cara alla vecchia nuova destra da cui Campi proviene. Un tentativo astratto di sintesi postideologica tra identità e integrazione, fede e scientismo, religione e illuminismo, comunitarismo e libertà; il tutto declinato secondo l'idea di dover assecondare il corso della realtà, o la corrente della storia, per trasformare infine il dato di fatto in stato di diritto. Ma in nome di cosa, a partire da quale centro ideale non negoziabile? Risposta non pervenuta, fatta eccezione appunto per lo sguardo predatorio gettato oltre i confini italiani, lì dove i tratti caratterizzanti del finismo sono già “merce corrente” altrui.

    L'associazione tra il finismo e “la merce corrente” è interessante. Campi sa che il passaggio dal nome personale (Fini) al sistema di pensiero denotato dal suffisso -ismo (come da Marx a marxismo) è gravido d'insidie e responsabilità. E ricorderà come Platone abbia insegnato che il sof-ismo era il mestiere di coloro che, in nulla credendo, si professavano esperti di ogni conoscenza e si facevano retribuire per dare lezioni alla gioventù ellenica. Erano i sof-isti: retori o commercianti del senso comune, pronti a sostenere ora questa verità, ora la verità opposta, ora entrambe al contempo; a seconda del committente e del vantaggio da procurarsi. E' la logica dell'et-et.