Cercasi Cav. di sinistra

Claudio Cerasa

Il primo segnale della rivoluzione arrivò una mattina di due anni e mezzo fa, quando le maioliche delle pareti che circondano le gallerie metropolitane di Londra furono tappezzate con 2.500 giganteschi manifesti che ritraevano uno degli uomini più ricchi d'Inghilterra con indosso l'inconfondibile baschetto nero di Ernesto Che Guevara. Era il giugno 2007, Tony Blair aveva appena presentato le dimissioni da primo ministro inglese.

    Per entrare nell'alta società oggi bisogna saper pascere la gente, o saperla divertire, o scandalizzarla; non occorre altro.
        Oscar Wilde

    Il primo segnale della rivoluzione arrivò una mattina di due anni e mezzo fa, quando le maioliche delle pareti che circondano le gallerie metropolitane di Londra furono tappezzate con 2.500 giganteschi manifesti che ritraevano uno degli uomini più ricchi d'Inghilterra con indosso l'inconfondibile baschetto nero di Ernesto Che Guevara. Era il giugno 2007, Tony Blair aveva appena presentato le dimissioni da primo ministro inglese e il giornale più famoso della City, il Financial Times, aveva scelto di pubblicizzare la propria imminente riforma grafica foderando i sotterranei della città con il faccione accattivante di Richard Branson. E' vero che dietro la provocazione pubblicitaria del foglio della City c'era la semplice intenzione di spiegare ai londinesi che da quel momento in poi il loro giornale “avrebbe raccontato le rivoluzionarie sfumature del mondo economico internazionale” ma è altrettanto vero che i manifesti sei metri per tre con la faccia paffutella colorata di rosso dell'imprenditore inglese più famoso del Regno Unito nascondevano la storia di un personaggio molto particolare. Perché dietro il curriculum di questo miliardario sessantenne – che ha inventato dal nulla uno dei brand più famosi del mondo (la Virgin), che nel 2010 presenterà un jet commerciale che porterà i turisti in giro nello spazio e che oggi gestisce un impero commerciale che lo ha messo nelle condizioni di ritrovarsi in tasca un patrimonio pari a circa 4,4 miliardi di dollari – c'è quella di un industriale che avuto il merito di essere stato il primo a far circolare nella testa della sinistra mondiale una domandina che fino a poco tempo fa sembrava un tabù: potrà mai arrivare un imprenditore di successo alla guida della sinistra? O meglio ancora: potrà mai esistere una sorta di Silvio Berlusconi di sinistra?

    Il picco decisivo della carriera di sir Richard vi fu quando una delle più importanti case discografiche del mondo (l'Emi) fece un'offerta per acquistare la sua Virgin Records, un'offerta che Branson non poteva rifiutare. E fu in quel momento che la Virgin fece un paio di investimenti azzeccati: fondò una compagnia aerea, entrò nel mercato dei treni inglesi, acquistò una compagnia telefonica, sfidò la Coca Cola (con una bibita poco fortunata), diede vita a una delle catene di palestre più famose del mondo e – dopo essere diventato il 261° uomo più ricco del pianeta e dopo essere stato scelto nel 2007 dal Time Magazine tra i 100 uomini più influenti del mondo – fece il suo ingresso nel mercato finanziario tentando di comprare una banca inglese.

    Branson, poi, non ha mai nascosto di essere un buon amico di Tony Blair e di Gordon Brown
    e non ha mai neppure negato di essere un discreto sostenitore delle campagne dei Labour. Ma il primo sospetto che questo pimpante signore con gli occhi chiari, i capelli scapigliati e la faccia lampadata – che sogna un giorno di poter vendere nei suoi negozi pacchetti brandizzati con piccole dosi di marijuana, che si fa spesso intervistare dai giornalisti chiedendo di inquadrare i suoi calzini bucati, che ogni tanto si diverte ad attraversare il mondo in mongolfiera e che fino a poco tempo fa si faceva accompagnare dai genitori alle conferenze stampa dove, a seconda dei casi, si presentava ora vestito da uomo ragno, ora da cow-boy, ora da pirata – avesse molte delle caratteristiche da perfetto leader di partito si materializzò il pomeriggio del 2 marzo del 2005, quando al numero 10 di Downing Street arrivò un sondaggio da urlo. Un sondaggio che dimostrava come per un significativo campione di sudditi di Sua Maestà il primo ministro inglese ideale non era Tony Blair, non era Gordon Brown, non era David Miliband e non era neppure David Cameron, ma era proprio lui: sir Richard.

    La progressiva e inaspettata trasformazione di un personaggio come Branson in un'inconfessabile icona non soltanto dei Labour è stato un passaggio importante per gli imprenditori di sinistra di mezza Europa. E se per vedersi pienamente legittimato, fino a poco tempo fa, il riccastro di sinistra si sentiva in dovere di dimostrare a tutti di essere un uomo capace di mettere le sue personali ricchezze al servizio dell'intera collettività, beh, parte del successo di Richard Branson è stato quello di aver convinto tutti che un modo come un altro per condividere la ricchezza è quello di mettere a disposizione del paese un'altra risorsa: la propria genialità.

    Il risultato è che la necessità di arricchire le leadership dei partiti della gauche europea con uomini o donne cresciuti all'esterno dei partiti – e magari delle aziende – sembra non essere più una semplice esigenza della destra internazionale. Su questo tema, John Hooper, che è corrispondente in Italia per il Guardian, la pensa così. “In una situazione così caotica come quella in cui si trovano molti partiti della sinistra europea – spiega al Foglio – la figura di una grande organizzatore, come potrebbe essere un imprenditore, che sappia mettere un po' di ordine qua e là, sarebbe più che necessaria. Gli imprenditori – e questo vale soprattutto per la sinistra – oggi sono come i generali o i colonnelli del passato, una sorta di deus ex machina che diventa quasi indispensabile quando fallisce la politica. Così come Silvio Berlusconi ha tentato di salvare la destra quando era in crisi, lo stesso potrebbe capitare alla sinistra con un imprenditore valido. Naturalmente questo vale non soltanto per l'Inghilterra”.
    In Italia, la tentazione di coinvolgere gli imprenditori nella gestione del partito si è spesso fermata di fronte alle non sempre irresistibili performance dei vari Massimo Calearo, Matteo Colaninno e Renato Soru. Eric Jozsef, corrispondente di Libération a Roma, nonostante i recenti e un po' goffi tentativi italiani in questo campo, sostiene che un imprenditore alla guida di un partito di sinistra non sarebbe affatto un tabù.

    Conflitto di interessi? Macché.
    “Io – dice al Foglio – penso che, per una parte della sinistra, il fascino per l'imprenditore sia da mettere in rapporto con il progressivo abbandono della visione marxista del mondo. L'uomo d'affari infatti non è più visto come ‘il mio nemico'. Anzi: diventa il mio amico, ed è la prova tangibile del mio cambiamento, del mio modernismo, del mio essere al passo con i tempi. Secondo me, in Italia, l'esempio massimo della confusione della sinistra è stata fornita da Walter Veltroni con la candidatura di Massimo Calearo: è certamente auspicabile che una sinistra riformista abbia il coraggio di candidare un imprenditore ma è assolutamente incoerente candidare il presidente di un organizzazione di industriali – come lo era Calearo – che legittimamente non difende gli interessi dei lavoratori, ma quelli dei suoi colleghi. E in un momento storico così importante scambiare il riformismo con il consociativismo è il modo migliore per creare confusione tra gli elettori”.

    In diverse parti del mondo, poi, l'ecumenica attività imprenditoriale di Branson è stata fonte di ispirazione per alcuni scalmanati tycoon. Tra questi, il più famoso capitano di industria che si è messo sulle tracce di sir Richard si chiama Vijay Mallya, ha 55 anni, è indiano, è la 664° persona più ricca del mondo, è il terzo uomo più liquido del paese, controlla un impero fatto di birra, aeroplani, cavalli da corsa, è proprietario di una squadra di calcio indiana e recentemente, nel 2007, ha fatto quello che molti inglesi sognano che faccia Branson: entrare in politica. “Quella di Branson – spiega al Foglio David Hughes, cronista politico del Telegraph – è una bella suggestione. Ma in Inghilterra dubito che possa funzionare: l'unico vero esempio positivo di imprenditore che si tuffa in politica lo abbiamo avuto con Lord Young of Graffham, che lavorò nel governo al tempo di Margaret Thatcher. E se devo essere sincero non credo che i tempi siano davvero maturi per averne degli altri”. John Rentoul, responsabile della pagina dei commenti dell'Independent on Sunday, ammette però che “sono sempre di più i politici che provano a ispirarsi agli imprenditori più glamour che ci sono in circolazione, e Branson è certamente uno di questi”. Rentoul ricorda poi che qualche anno fa lo stesso Branson stava per candidarsi come sindaco di Londra e non esclude che tra qualche anno il capo della Virgin ci ripensi. “Ma le non proprio folgoranti esperienze di imprenditori che si sono dati alla politica (come Digby Jones, ex ministro del Commercio e capo della Confederazione dell'industria britannica, e come Lord Drayson, attuale ministro per la Scienza e l'innovazione e imprenditore impegnato nel settore della biotecnologie) ci suggeriscono che non sempre i contributi dei business man sono, come dire, di altissimo livello”.

    Nella storia di Richard Branson c'è però anche un'altra utile lezione
    per la sinistra europea: perché con un'abilità superiore persino a quella di Francesco Giavazzi e Alberto Alesina (autori del best-seller “Il liberismo è di sinistra”) Branson è riuscito a convincere gli inglesi che il capitalismo e il liberismo sono robe davvero de sinistra. Lo ha fatto soprattutto nel corso dell'ormai scampata apocalisse economica mondiale, ed è sufficiente leggere con attenzione tra le righe delle frasi più recenti pronunciate dal capo della Virgin nei mesi della recessione per cogliere le virtù della poco apprezzata filosofia schumpeteriana della distruzione creatrice. “Per chi ha cervello – ha ripetuto a lungo sir Richard – ogni crisi è un ottimo momento per far business. L'unico problema è che il cervello non tutti ce l'hanno”.
    Così, giusto nei mesi dei disastri dei mutui subprime – quando l'Inghilterra scoprì la durezza della crisi e quando città come Londra fronteggiarono migliaia di cittadini che assediavano le proprie banche temendo di poter perdere da un momento all'altro i propri risparmi – la Virgin decise di andare in difesa dell'amico Brown, e tentando di salvare una delle banche più famose del paese (la Northern Rock) provò ad acquistare il 30 per cento dell'istituto di credito. E in effetti tutto sembrava perfetto: Branson preparò l'assegno, scrisse una lettera ai dipendenti, scelse il nome della nuova banca (Virgin Money), si confrontò con il premier Gordon Brown ed era lì che attendeva soltanto una risposta della Northern. Risposta che non fu positiva: l'offerta venne rifiutata, la Bank of England, per evitare che la Northern fallisse, fu costretta a erogare 25 miliardi di sterline e la banca passò così sotto la proprietà dello stato.

    Branson però non si arrese, e pochi giorni fa ha ottenuto la sua rivincita. Prima acquistando per 12,28 milioni di sterline il piccolo istituto finanziario inglese “Church House Trust” e poi confessando pubblicamente di essere pronto a scalare una delle tre banche che stanno per essere totalmente privatizzate dal governo britannico (la Royal Bank of Scotland, la Loyds e naturalmente la Northern Rock). E non è certo un caso se le strategie di Branson hanno recentemente colpito anche il nuovo corrispondente del Wall Street Journal in Italia, Christopher Emsden: che parlando con il Foglio nota come siano molte le ragioni per cui presto gli imprenditori diventeranno vero oggetto di desiderio anche per i partiti di sinistra. “Branson – dice Emsden – è effettivamente un fuoriclasse, sia nel riuscire a vendere il proprio marchio sia a riuscire a vendere se stesso, sia nell'aver trasformato il capitalismo in affare da compagni. Ma il suo profilo è significativo anche perché sir Richard non è semplicemente un manager, è un imprenditore. E alla gente, e più in generale a un elettore, non interessa sognare alla guida del paese un bravo manager. Piace piuttosto qualcuno che abbia fatto qualcosa, qualcuno che abbia inventato, qualcuno che abbia progettato, qualcuno che più semplicemente sia stato capace di innovare.

    E anche per questo, un personaggio come Branson fa certamente parte di quella categoria di imprenditori alla Berlusconi che, se è consentito, sono riusciti a emergere dalla merda. Va detto poi che il fascino che questi uomini esercitano sui malconci partiti della sinistra dipende anche dal fatto che sono sempre più uomini e donne di quella parte politica che offrono ai propri elettori la sensazione di essere arrivati lì per caso: come se non avessero una necessaria consacrazione a fare quel mestiere”. Dunque, con la sinistra di mezza Europa in condizioni disperate, con i socialisti francesi che sfiorano appena il 25 per cento, con i Labour inglesi diventati ormai il terzo partito del paese, con i socialdemocratici tedeschi che a stento arrivano al venti per cento e con il Partito democratico che gioisce per il suo piccolo piccolo 27 barra 28 per cento, ecco, non deve stupire che anche dalle nostre parti siano sempre di più i dirigenti democratici pronti a confessare che sarebbe molto più rivoluzionario avere alla guida del proprio partito un imprenditore che sa persino come portarti sullo spazio piuttosto che avere uno scrittore che nel migliore dei casi ti può spiegare come si fa a scoprire l'alba.

    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.